38 TFF – Cleaners, di Glenn Barit (Fuori concorso)

Difficile avvicinarsi a Cleaners senza notare come il suo impianto visuale sovrasti ogni sua componente ulteriore, specialmente per quel concerne la narrazione. Come Playtime (dir. Jacques Tati, 1967), è un film aperto più ad un’indagine continua e irrisolvibile che ad una lettura univoca, stringente. Laddove Tati compiva un’opera di iper-stratificazione, costruendo inquadrature magistralmente coreografate, dall’abissale profondità di campo, Glenn Barit porta avanti un processo inverso, di sostanziale rarefazione. Egli sottopone le sue immagini, virate in bianco e nero, ad una doppia posterizzazione. Sia sul piano fotografico, esaltandone il contrasto e la granulosità, che su quello temporale, impiegando un frame rate più basso rispetto ai canonici 24/25 fps. Le immagini scorrono di fronte ai nostri occhi come se sfogliassimo un libro scolastico fotocopiato, di cui percepiamo la matericità, notiamo le imprecisioni nella stampa, le macchie d’inchiostro, le parole illeggibili e quelle evidenziate. Perché il trattamento di Barit non si ferma alla posterizzazione, ma prosegue con una colorazione ex post delle sue inquadrature, per segnalare di volta in volta quale dev’essere -senza possibilità di fraintendimento- il centro del nostro interesse scopico. Vengono (letteralmente) evidenziati i personaggi che di volta in volta, nell’arco di un film antologico, si passano il testimone del protagonismo. Tutto è fragile, delicato. Sia perché ne percepiamo apticamente la matericità, sia perché essa è propria di un corpo irrimediabilmente legato al tempo dell’adolescenza. Cleaners non è tanto una reminiscenza nostalgica, quanto un oggetto sottratto, fisicamente, al tempo che, oltre a descrivere, propriamente incarna. L’escamotage dell’evidenziazione è impiegato da Barit, ad esempio, anche per concretizzare visualmente situazioni di sfogo (facendo esondare il colore dai limiti preposti), di innamoramento (in cui i colori degli amanti si compenetrano e ibridano), etc. La rottura dell’impianto visuale avviene soprattutto nei momenti finali, in cui ogni confine formale, dissolvendosi, lascia spazio ad una caotica esplosione policromatica.

Barit porta avanti la sua opera di rarefazione e alleggerimento anche sul piano della colonna sonora (di cui è autore) e del sound design. Su un costante tappeto di semi-silenzio, ogni piccola cosa è chirurgicamente sonificata. Di Stephanie (Ianna Taguinod) sentiamo il brontolio dello stomaco, le scoregge. Ne penetriamo la carne, già resa fragile da quel processo sottrattivo sopra descritto. E, più in generale, ogni proferimento vocale diviene auto-parodico nella misura in cui il low frame rate invalida la condizione sincronia tra parola e parlante. Tutto è posticcio, lavorato fino ad un’intima fragilizzazione. Anche quella violenta esplosione finale ha il sapore di un gioco fanciullesco, delicato pur nel suo erompere violento.

Niccolò Buttigliero

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

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