Capitalismo immateriale. Una chiacchierata con Stefano Quintarelli

Riccardo Lazzarato: Buongiorno dottor Quintarelli, innanzitutto grazie per aver accettato di dedicare del tempo alla nostra rivista. Come sa, avremmo piacere di affrontare con lei alcuni nodi, particolarmente centrali almeno secondo noi, del discorso che lei porta avanti all’interno del suo ultimo libro Capitalismo immateriale. Le tecnologie digitali e il nuovo conflitto sociale. Partirei subito da una domanda molto generale: con la “rivoluzione digitale” siamo di fronte ad una trasformazione strutturale della nostra economia?

Stefano Quintarelli: Sì, direi di sì. Come cerco di chiarire nel libro, con il passaggio da una dimensione materiale ad una dimensione immateriale, le cose cambiano radicalmente: mettendo in luce questo passaggio e confrontando le due dimensioni in questione possiamo far emergere tutte le numerose differenze. Per capire perché questa sia una trasformazione strutturale è necessario avere ben chiare le proprietà della dimensione immateriale, all’interno della quale ormai troviamo grandissima parte della nostra vita sociale ed economica. Tra le più rilevanti sicuramente dobbiamo inserire l’annullamento del tempo e dei costi variabili per le operazioni di riproduzione, archivio e manipolazione dei dati; si annulla la distanza, il mondo diventa un “grande qui” perché il trasferimento di informazioni ha costi variabili nulli e avviene ad una velocità istantanea. In forza di queste, e altre caratteristiche che già vi saranno note dalla lettura del libro, possiamo affermare che questa sia una trasformazione strutturale della nostra economia.

RL: Possiamo dire quindi di star cambiando il capitalismo?

SQ: Sì, a patto di dire che ne stiamo cambiando la forma. Nel mio libro mi riferisco a questa struttura economica con la formula “capitalismo immateriale”, essa è il tentativo di indicare quel fenomeno che si verifica nella dimensione immateriale nel momento in cui si formano i monopolisti dell’intermediazione. Il monopolio dell’intermediazione si manifesta in modo diverso rispetto al passato perché oggi esiste un capitale informativo relativo alla cattura e costruzione di relazioni che va oltre il capitale tradizionale, ovvero quello monetario. Tuttavia, possiamo considerarlo ancora una forma di capitale.

RL: Ma allora come cambiano i rapporti di forza a cui eravamo abituati?

SQ: Prima quando si parlava, anche volgarmente, di capitalismo, si faceva riferimento unicamente a due poli: il capitale e il lavoro. Siamo passati ad un capitalismo che si gioca tra tre poli: il capitale, il lavoro e l’informazione. Progressivamente si è sviluppato il dell’informazione, e quest’ ultimo polo sovrasta e preme su gli altri due.

RL: Rispetto a questi tre poli, come ripensare il diritto? Sembra emergere – anche nel tuo studio – l’esigenza di passare da un diritto descrittivo ad un diritto interpretativo, è così?

SQ: La risposta a questa domanda richiede una piccola premessa per contestualizzare almeno intuitivamente la questione. L’antitrust è stata un’invenzione giuridica (1890 in USA con lo Sherman Act) che intervenendo sull’economia ha risolto un problema squisitamente politico quale la concentrazione eccessiva di potere nelle mani di persone non elette dal popolo. Oggi siamo nuovamente chiamati a questo compito. Nel libro cito, come esempio paradigmatico del tentativo di frammentazione di una concertazione di potere, la sentenza tra Stati Uniti e Columbia Steel perché proprio all’interno di questa sentenza si ricorda in modo molto preciso che il senso dell’antitrust è quello di osteggiare la concentrazione del potere in sé, ed il modo di farlo è evitare lo sviluppo di concentrazioni economiche, favorendo la concorrenza. Un potere così grande, come quello che possedevano i famosi Robber Barons, era dato dal fatto che costoro erano in grado di poter concentrare su di sé quantità esorbitanti di denaro, il che inevitabilmente permetteva loro di aumentare, in modo sensibile, la loro influenza sia politica che economica. Una concentrazione di potere così come quella che si è verificata in America, a partire dalla seconda parte dell’Ottocento, ha trovato in parte soluzione nella sentenza appena evocata del 1948. In quel documento si dice che tutto quel potere che sono stati in grado di accumulare, anche grazie all’assenza di regolamentazione economica e giuridica, non può essere esercitato da un privato o da un’azienda, ma unicamente dai rappresentanti eletti dal popolo. La domanda che tu mi poni richiama lo stesso meccanismo: abbiamo una concentrazione del capitale dell’informazione nelle mani di poche persone e questo è un problema tutto politico che deve essere affrontato attraverso l’ideazione di nuovi strumenti giuridici – potremmo identificarli con delle evoluzioni particolari dell’antitrust applicato ad una dimensione immateriale. Se quindi abbiamo l’esigenza di frammentare la concentrazione del potere allora in un certo senso il diritto smette di descrivere e inizia a interpretare il mondo. Dobbiamo però fare attenzione alle parole che usiamo, in questo caso interpretare significa differenziare le regole a seconda della potenza di chi deve essere normato.

RL: Stai facendo riferimento a ciò che chiami regulatory ladder?

SQ: Sì, la mia concezione di regulatory ladder è proprio il tentativo di impostare un diritto che sia a pioli, step differenti che tengano conto dello sviluppo concorrenziale delle aziende. È evidente che se diamo a tutti le stesse regole non stiamo coltivando correttamente la concorrenza, che secondo me – ma non tutti la pensano come me – è un bene in sé. Possiamo pensare a essa come ad uno strumento, spetta al regolatore il compito di definire delle regole in grado di generare una buona o cattiva concorrenza, per questo oggi è fondamentale il nostro impegno nella formulazione di queste regole. Fino ad oggi siamo stati abituati ad una regolamentazione che in larga misura si giocava unicamente tra due poli antitetici, assenza di regole da una parte e massiccia presenza di regole dall’altra. Così facendo però soffochiamo le startup e privilegiamo i colossi che si sono già formati su un mercato. Le regole quindi devono essere concepite per dimensioni progressive, in modo tale da non soffocare l’innovazione

RL: Con lo sviluppo delle multinazionali, permesso anche dalla mancata o tardiva regolamentazione in campo giuridico, assistiamo ad un progressivo venir meno del potere sia economico che politico dello stato nazione?

SQ: No, non direi che siamo di fronte ad un venir meno del potere dello stato. Direi piuttosto che ci stiamo spostando su un altro livello di potere, perché alla fine il monopolio della forza continuano ad averlo gli stati e non le multinazionali (gli stati amministrano la giustizia, possiedono le forze di polizia e gli eserciti). È importante rilevare che entrano in gioco altri poteri, determinati dall’ampio potere economico delle multinazionali, però questa cosa non è nuova. Lo abbiamo visto anche quando accennavamo alla sentenza U.S.A vs Columbia Steel.

RL: A proposito della differenza di velocità che notiamo quando compariamo la velocità con cui evolve il nostro diritto e la velocità con cui cambia il contesto all’interno del quale questo diritto vige, sembra emergere un problema. Come armonizzare queste due velocità, come tentare di gestire questo rapporto?

SQ: La diversa velocità è sicuramente una sfida. Nella dimensione immateriale, rispetto a quella materiale, cambiano radicalmente tre aspetti: localizzazione, scala e velocità. La nostra posizione si deve armonizzare tra la dimensione analogica del diritto e la dimensione immateriale che ormai abitiamo h24. Ci sentiamo gettati tra due velocità differenti e questa posizione intermedia ci mette a disagio: sembrerebbe che le cose intorno a noi stiano cambiando con una velocità troppo elevata per riuscire a governare questi cambiamenti. Per gestire questo rapporto è necessario introdurre delle frizioni nelle regole che permettano di associare istituzioni analogiche e digitali o, detto in altro modo, che permettano di rendere compatibili modalità e tempi della giustizia con dimensione e velocità dei fatti digitali. Stiamo progressivamente avviando questo lavoro, è solo l’inizio, ma qualcosa è stato già fatto e molto è in via di sviluppo. La giustizia, essendo analogica – e guai a pensare il contrario –, ha necessariamente dei tempi di gestazione maggiori perché appunto è fatta da uomini e non da macchine. Lo sviluppo di queste frizioni non può essere lasciato alle aziende: l’autorità pubblica non deve rinunciare al suo ruolo di tribunale e garante della società. Attenzione a non confondere queste frizioni con qualcosa che assomigli a dei limiti che si dovrebbero imporre sullo sviluppo tecnologico. Dobbiamo pensare queste frizioni come ad un meccanismo che ri-accoppi le due scale che puntualmente procederanno a disgiungersi per poi essere nuovamente accoppiate e via così. Non dobbiamo rallentare lo sviluppo tecnologico o l’uso che di esso si fa, non si tratta di questo. Parlo di frizioni che è necessario immettere per rendere l’enforcement compatibile con le istituzioni (qui un esempio di frizioni).

RL: Quali questioni inedite sorgono a proposito dell’identità all’interno del contesto digitale?

SQ: Identità, fiducia e attenzione sono i tre asset principali della “rivoluzione digitale”. In un sistema che si dematerializza, con l’elettronica che diventa pervasiva perché il suo costo tende a ridursi progressivamente, ciò che determina la capacità di accesso, raccolta e associazione delle nostre informazioni è da ricercare nella gestione dell’identità. Le aziende sono in competizione con lo stato per la gestione dell’identità degli utenti, perché sull’identità si basa la portabilità dei profili, l’interoperabilità, la possibilità di competizione e la monetizzazione degli utenti. Le aziende non vogliono cedere le identità e gli stati dovranno invece imporre che venga fatto.

RL: Quando si parla di identità e digitale sentiamo discutere di self sovereign identity, di che cosa si tratta?

SQ: Il self sovereign identity è un paradigma secondo cui ognuno dichiara la propria identità attraverso l’emissione di un codice che mi servirà per essere riconosciuto. A quel codice in seguito verranno associate tutte le informazioni che mi riguardano, come ad esempio l’attestato della mia laurea, o della mia patente di guida, ecc. e queste informazioni potranno stare su un server o all’interno di un wallet personale (dispositivo locale). Questo paradigma può integrarsi con un’identità fornita dallo stato, come può essere spid (il sistema che ho concepito con altri colleghi).

RL: Come salvaguardare l’identità digitale dal punto di vista della sicurezza informatica?

SQ: Fino a quando non avremo dei computer quantistici non ci sono problemi di sicurezza perché, fino ad allora, potremo usare algoritmi di cifratura a chiave asimmetrica. Se e quando saremo in grado di realizzare computer quantistici saremo costretti ad utilizzare algoritmi di cifratura a chiave simmetrica e buona parte della sicurezza informatica si concentrerà sulla gestione e verifica delle identità quale primo passaggio nelle procedure di scambio delle chiavi crittografiche.

RL: Come funziona la cifratura a chiave asimmetrica?

SQ: Alla base della cifratura asimmetrica abbiamo un meccanismo di asimmetria tra il tempo necessario per fare una moltiplicazione e il tempo necessario per fare una scomposizione in fattori, il primo è quasi istantaneo, la seconda operazione invece richiede parecchio tempo. Serve quindi molto più tempo per decifrare una chiave (scomposizione) che per applicarla (moltiplicazione). Avremo due chiavi, una privata e una pubblica, una apre quello che l’altra chiude e viceversa. Se un messaggio viene cifrato con la mia chiave pubblica, solo io che possiedo la chiave privata posso aprirlo, garantendomi la confidenzialità in ciò che ricevo, viceversa se io scrivo un messaggio e lo chiudo con la mia chiave privata allora tutti coloro che possiedono la mia chiave pubblica potranno visualizzarlo ed è certo che sia stato io e solo io a generare il messaggio. I computer quantistici promettono di riuscire a fattorizzare i numeri primi in un tempo analogo al tempo necessario ad eseguire una moltiplicazione decretando così l’insicurezza degli algoritmi a chiave asimmetrica.

RL: Avviandoci alla conclusione di questa intervista vorrei sapere cosa pensa a proposito del salario di mobilitazione proposto da Maurizio Ferraris secondo cui la vera azione politica deve orientarsi – in una strategia coordinata dall’Europa – nel riconoscimento del lavoro che ognuno di noi svolge sul web, producendo dati, che, come abbiamo capito, sono la fonte di ricchezza del capitalismo immateriale. Il salario in questione sarebbe un eurodividendo attribuito dalla Ue dai proventi ricavati dalla specifica tassazione sul Web, questa proposta può funzionare?

SQ: Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare alle proprietà dell’immateriale. Come ormai dovrebbe essere chiaro, le aziende digitali hanno costi variabili praticamente nulli. Un esempio potrà essere rivelatore: sai quanto guadagna Facebook in un mese per ogni utente? Una cifra che si aggira intorno ai due euro. Con questi due euro Facebook deve pagare gli ammortamenti delle infrastrutture, alcuni costi amministrativi, ecc. e se poi da ciò che rimane deve fare a metà con te possiamo ipotizzare che ti arrivino in tasca 30/40 centesimi. Mi sembra quanto meno problematica la proposta di Maurizio.

Stefano Quintarelli ha fondato I.NET, il primo Internet Service Provider aziendale italiano, quotato in borsa e venduto a BT. È stato fondatore ed è membro del consiglio direttivo di Clusit, associazione di sicurezza italiana, fondatore di AIPSI, associazione italiana di professionisti della sicurezza, cofondatore e presidente di AIIP, associazione italiana ISP, fondatore e presidente del Centro Studi Impara Digitale, un'associazione dedicata a un uso positivo delle tecnologie nelle scuole, presidente del comitato direttivo dell'Agenzia digitale italiana

È stato professore di Sistemi informatici, servizi di rete e sicurezza presso UniNettuno e nel 2013 viene eletto deputato  dove è membro della Commissione per i diritti e i doveri in Internet della Camera dei deputati. È anche il fondatore e leader dell'Intergruppo parlamentare per l'innovazione tecnologica.

E’ presidente dell’advisory group on advanced technologies dell’United Nations Centre for Trade Facilitation and Electronic Business e membro del High Level expert group on artificial intelligence della Commissione europea.

Tra le sue ultime pubblicazioni segnaliamo Capitalismo immateriale. Tecnologie digitali e il nuovo conflitto sociale edito per Bollati Boringhieri nel 2019 e Costruire il Domani: Istruzioni per un futuro immateriale edito per Antonio Tombolini editore nel 2017.

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