Due o tre cose che so di Parigi

Due o tre cose che so di lei è forse il film in cui Parigi assume dei tratti più umani, per quanto stravolti dall’incessante produzione capitalistica e dal frastuono dei suoi cantieri. Nella pellicola il regista segue la vita di una donna, Juliette Janson, per ventiquattro ore, ma allo stesso tempo anche quella di una città in un profondo cambiamento urbanistico e politico.

Il cambiamento è avvertito dagli stessi personaggi, che a partire da discussioni banali su singoli oggetti di consumo allargano improvvisamente il discorso per poter considerare una realtà più complessa: la città. In una scena la telecamera riprende un uomo, seduto vicino ad un letto, su cui si vede Marianne, amica di Juliette, nuda, sotto le lenzuola, mentre legge un libro. Marianne domanda all’uomo il motivo della sua maglietta, ma non appena questo risponde, la donna sposta immediatamente il discorso:

Sì, la città è una costruzione nello spazio… Gli elementi mobili della città… Non so. Gli abitanti… Sì, gli elementi mobili sono importanti come gli elementi fissi… E anche quando è banale, lo spettacolo della città può provocare un piacere specialissimo…

Juliette era rimasta fuori dalla ripresa, ma interviene ora nel dialogo:

No, nessun avvenimento è vissuto per se stesso. Si scopre sempre che è legato a quello che lo circonda… Può darsi che l’osservatore di questo spettacolo sia semplicemente io? Ogni abitante ha avuto dei rapporti con dei punti determinati della città. E con chi? Ah, sì. L’immagine che, in generale, è piena di ricordi e di significati. La chiarezza fisica di quest’immagine. (Accende la lampada vicino a lei) Parigi è una città misteriosa… (spegne la lampada) asfissiante… (riaccende la lampada) … naturale… (rispegne la lampada).[1]

Si tratta di una scena squisitamente tipica dei film di Godard: una riflessione che emerge da un oggetto, in questo caso da una maglietta. La banalità dell’oggetto capitalistico in Godard non basta mai a se stessa, apre necessariamente a qualcosa d’altro, e qui, nello specifico, alla cornice di tutti questi oggetti, la città, intesa come struttura da Marianne, che rende possibile la circolazione degli oggetti e dei suoi elementi mobili, gli abitanti. Ma Juliette rifiuta questa visione strutturalista, avvertendo così una natura intermittente della città in cui la sua stessa esistenza singolare non sembra potersi inserire. Ad essere interessante è come la città venga definita da Juliette come misteriosa, asfissiante, ma dopotutto pur sempre naturale, come se nonostante il senso di inadeguatezza della sua singolarità rispetto a Parigi, la città venga sentita come un luogo proprio di tale singolarità.

Poche scene prima, Juliette entra in un caffè e si ferma ad osservare una giovane coppia seduta vicino e un uomo che sfoglia una rivista. Qui è Godard stesso a parlare, commentando sottovoce, mentre lo sguardo di Juliette indaga diverse immagini di vita quotidiana che gli si manifestano:

Ecco come Juliette alle ore 15 e 37 vedeva muovere le pagine di questo oggetto che, nel linguaggio giornalistico, si chiama rivista. Ed ecco come, circa centocinquanta vignette più oltre, un’altra ragazza, sua simile, sua sorella, vedeva lo stesso oggetto. Dov’è dunque la verità? Di faccia o di profilo? E, prima di tutto, un oggetto, che cos’è?

Forse un oggetto è ciò che ci permette di collegare… di passare da un soggetto all’altro, di vivere in società, di essere insieme. Ma allora, poiché la relazione sociale è sempre ambigua, poiché il mio pensiero divide tanto quanto unisce, poiché la mia parola riavvicina in quanto esprime e separa per ciò che tace, poiché un immenso abisso divide la certezza soggettiva che ho di me stesso e la verità oggettiva che io sono per gli altri, poiché non smetto di sentirmi colpevole quando mi sento innocente…

poiché ogni avvenimento trasforma la mia vita di tutti i giorni, poiché non riesco continuamente a comunicare… voglio dire a capire, ad amare e ad essere amato… e che ogni insuccesso mi fa provare una solitudine, poiché…[2]

La riflessione ha nuovamente origine da un oggetto, ma si sgancia subito dal particolare, dalla rivista, per aprirsi ad una riflessione più ampia. Gli oggetti, potremmo dire le merci, vengono qui concepiti nel loro valore segnico, che permette al soggetto di entrare in relazione con gli altri, di stare in società. Eppure, suggerisce Godard, ogni nostra relazione sembra stare nell’ambiguità e ciò si riflette nell’uso di un linguaggio incapace di mediare tra la propria certezza soggettiva e la verità oggettiva della società in cui viviamo.

Continua il monologo, con una ripresa dall’alto sul caffè nella tazzina:

Poiché … poiché non posso divincolarmi dall’obiettività che mi opprime né dalla soggettività che mi esilia, poiché non mi è possibile né di innalzarmi fino all’essere né di cadere nel nulla… bisogna che ascolti. Bisogna che guardi intorno a me più che mai… Il mondo… Il mio simile… Mio fratello…

Solo il mondo oggi, dove le rivoluzioni sono impossibili, dove guerre cruente mi minacciano, dove il capitalismo non è più così sicuro dei suoi diritti… e la classe operaia in regresso, dove il progresso… i progressi fulminei della scienza impongono ai secoli futuri una presenza ossessionante… dove l’avvenire è più presente del presente, dove le lontane galassie sono alla mia portata. Il mio simile… Mio fratello…[3]

È ancora più significativa qui la caratterizzazione del soggetto di Godard: per quanto egli possa trovarsi in una condizione di impasse, combattuto tra un’obiettività opprimente e una soggettività esiliante, non smette di cercare il mondo, il suo simile, suo fratello, anche in una dimensione di separazione rispetto al presente. Separazione che lo avvicina al progresso, alle lontane galassie, ma che lo allontana da se stesso, dalla sua umanità e dal suo essere in relazione con gli altri. Qui, è la relazione con l’altro, con il proprio simile, quel quid che impedisce al soggetto di cedere al moltiplicarsi di oggetti, di suoni e di rumori che lo condizionano ogni giorno.

Con uno schermo nero si conclude la riflessione:

Dove incomincia? Ma dove incomincia che cosa? Dio creò il cielo e la terra. Certamente… ma è un po’ troppo comodo e facile. Si deve poter dire meglio… Dire che i limiti del mio linguaggio sono quelli del mio mondo. E che parlando io limito il mio mondo, lo finisco…  E quando la morte logica e misteriosa verrà ad abolire questo limite e non ci sarà né domanda né risposta… tutto sarà sfumato. Ma se, per caso, le cose ridiventano chiare, ciò non può essere che per l’apparizione della coscienza. In seguito, tutto si concatena.[4]

Ritorna qui la ricerca di un senso d’insieme, di strutture che giustifichino l’esistenza singolare del soggetto, si conclude con l’irruzione della vita, intesa come liberazione da ogni struttura, da ogni giustificazione, tanto che non risultano più esserci né domande né risposte. Solamente l’apparizione di un’altra coscienza, ossia la manifestazione dell’alterità al soggetto, potrà garantire un chiarimento delle questioni aperte durante il monologo; in seguito, afferma Godard, tutto si concatenerà. Concatenamento che è relazione, continuo contatto tra più esistenze particolari che non si esauriscono negli oggetti, nelle merci, nelle strutture di Parigi, ma che avvertono il fluire della vita in tutte queste manifestazioni particolari, come emerge in una delle ultime scene del film, con piano americano stretto di Juliette mentre ci parla davanti ad un grande caseggiato:

Mi ricordo soltanto che è successo. Può darsi che ciò non abbia importanza. Era mentre camminavo con quel tale del metrò che mi portava all’albergo. Era una sensazione buffa. Ci ho pensato tutto il giorno. Il senso dei miei legami col mondo. Improvvisamente ho avuto l’impressione di essere il mondo e che il mondo fosse me. Ci vorrebbero pagine e pagine per descrivere questo… O volumi e volumi… Il paesaggio è simile a un volto.[5]

Juliette, camminando con un uomo che la accompagnava all’albergo, arriva così a percepire il senso dei suoi legami col mondo, perdendo la cognizione dei confini tra il corpo proprio ed il mondo circostante. Il fatto che tale sentimento sia affiorato mentre camminava con quel tale non è casuale: è la relazione con l’altro a far vivere a Juliette un’esperienza talmente coinvolgente, talmente umana da confondere il paesaggio stesso come un volto.

Ecco come la relazione può essere la sola che permette al soggetto di andare oltre l’oggettualità, oltre l’insieme di strutture che irrigidiscono la lettura della città secondo una visione determinata. Il soggetto di Godard, per quanto possa concepire la metropoli di Parigi come «asfissiante»[6], la considera pur sempre «naturale»[7], come uno spazio propriamente umano, ma soprattutto «misteriosa», perciò soggetta ad imprevedibili articolazioni di senso.

[1] J-L. GODARD, Cinque film, a cura di Gianni Rondolino, Einaudi, Torino 1972, p. 274-275.

[2] Ivi, p. 255.

[3] Ivi, p. 256.

[4] Ivi, pp. 256-257.

[5] Ivi, p. 288.

[6] Ivi, pp. 274-275.

[7] Ibidem.

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La scena dubita

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