Europa: futuro anteriore presente (una risposta a Pier Alberto Porceddu Cilione)
È una vigliaccata replicare alle cose dette o scritte da un altro. È come dare una pacca sulla spalla a chi stava pensando ai casi suoi, fare uno sgambetto, accodarsi alla prima macchina che passa quando in autostrada c’è troppa nebbia. È come fare le pulci sull’arredamento di chi ci ha ospitato in una notte che fuori pioveva. Peggio della vigliaccata c’è soltanto l’inutilità di replicare a parole belle come le ragazze che sfrecciano per le strade di Parigi o di Londra e con il diamante degli occhi feriscono i malcapitati che ne incrociano la rotta. Esistono tizi talmente sprovveduti che danno pacche sulla spalla di ragazze così? Sì, li ho visti, e adesso ho paura di star facendo la stessa cosa, quando invece sarebbe saggio ammirane il profilo di statua dal lato opposto del marciapiede senza rovinare tutto, almeno potremo goderne con il ricordo una volta a casa. Perché il pezzo che Pier Alberto Porceddu Cilione ha scritto sulla fine dell’Europa è di una bellezza tragica che scoraggia e impaurisce, è una testa di medusa uscita di colpo dal cervello di un monaco piegato furiosamente su venticinque secoli di storia, è l’angelo biondo accovacciato alle porte dell’Eden, dice Byron, in lacrime a causa degli uomini che si sono messi d’impegno per farsi cacciare e ci sono riusciti.
L’Europa è finita, dice Pier Alberto. Quando? Non ha importanza, ognuno scelga la data che preferisce: «1900, 1945, 1989, 2001, 2008, 2015, 2020, 2050? Se ne possono cercare le ragioni, se ne possono esibire gli attestati, le prove. Giunti a questo punto, non ha molta importanza». Le parole vibrano di un umorismo cupo, una via di mezzo tra il Salmo 37 e Karl Kraus, non un’unghia di meno, e simpatizzare diventa un riflesso condizionato. Dopo aver simpatizzato, però, dobbiamo chiederci: donde il saturnino sconforto? È comprensibile che un samurai dell’esattezza si trovi a disagio in mezzo a noi, come la ragazza di cui sopra costretta da un caso beffardo alla compagnia di quattro balordi. Riusciamo a immaginare una situazione altrettanto sgradevole? È vero: uno dei segni più impietosi della fine è che le nostre lingue «un tempo forgiate da Virgilio e da Shakespeare, da Goethe e da Bossuet, rappresentano ormai un reticolo di ben orchestrati cliché che impedisce al pensiero di innalzarsi». È bello il logocentrismo di Pier Alberto – come il volto della parigina o della londinese: è indiscutibile, c’è e se ne frega di noi, per questo seduce –, ma la lingua è soltanto la codificazione delle cose, incide nei corpi la memoria di ciò che sono stati perché rimangano tali e quali, è il volumen che li stringe, e non dice ciò che i corpi saranno. La lingua è il nugolo delle lettere-mosche che si posano sulla materia decomposta. Alla ricerca del passato più museale, necessariamente la lingua viaggia nell’etere stantio delle università e delle televisioni. La lingua è una prefica o, se preferiamo, il logos che si contorce per mimare gli incontri dei corpi. Ma le parole sono anche leggere come polvere e, se adesso si accumulano nella pianura, torneranno sulle vette quando nuove cose si leveranno. Non bisogna avere fretta.
Non è vero che è in corso un’invasione di barbari che se ne strafottono di Dante e Goethe, è vero invece che siamo ostaggi di una destra cialtrona e una sinistra cogliona che non hanno la più pallida idea di cosa sia un Impero, gli Stati Uniti d’Europa che Napoleone sarebbe riuscito a realizzare se Russi e Inglesi non gli avessero messo i bastoni tra le ruote. Perché l’Impero è tale se riesce ad accogliere nel suo pantheon gli dèi stranieri, non per bontà, ma per volontà di potenza perché il meticciato è vigore e le migrazioni possono diventare il laboratorio di una nuova razza. Insieme a un logos inaudito, ma più forti del logos, ci saranno e ci sono le nuove genti d’Europa, nuovi clamori, stridori di ingranaggi, incendi e torrenti, e le sabbie del Maghreb di Agostino dove ancora galoppano i guerrieri berberi. Nuovi vortici ci aspettano per inghiottirci e farci gridare e cantare in modo nuovo ma ancora europeo. Lasciamoci trascinare dai vortici, lasciamoci cadere facendo frizione, diamoci il tempo di comprendere la caduta.
Dove sono le cose nuove dell’Europa? Sono queste, quelle che cadono. Lo dico con una parola filosofica, che non vuole dire nulla, che non è neanche una parola, così affilata che ci ferisce la lingua, troppo vicina al mondo per poterlo dire, una parola soffocata: Ereignis, evento. Nell’evento è difficile, forse impossibile, distinguere l’inizio dalla fine. L’evento c’è quando cade, è un processo che si compie, sennò sarebbe un patrimonio, una carabattola. L’evento è come una storia d’amore – sciatta e prosaica quando vive di sola presenza, encomiabile quando finisce –: c’è quando sta per essere dimenticato. La vita europea vive l’evento della caduta, l’evento che è perché sarà stato e sarà stato perché è. L’evento non finisce di finire. Quando è iniziato l’evento dell’Europa? Con Benedetto da Norcia? Platone? Omero? Eleusi? La civiltà micenea? Oppure con i Rig-Veda, la poesia dei nomadi arrivati come nubi cariche di lampi nella valle dell’Indo cinquanta secoli fa e che parlavano più o meno la nostra lingua? L’Europa non ha finito di iniziare, l’Europa non c’è ancora.
«L’Europa era il luogo dove si forgiava il senso del mondo», scrive Pier Alberto, perché l’Europa è la Filosofia e, aggiunge, l’impossibilità di pensare filosoficamente la nostra metamorfosi tecnico-scientifica segna la scomparsa di Europa/Filosofia. Ma il senso del mondo è una lucertola sul sasso, è un sasso che rotola sul sentiero, una giunzione precaria (ars, harmozein, Ārya), ed è molto filosofico ammettere che la filosofia non basta a pensarlo: dovrà farsi aiutare dal cinema dei fratelli Lumières che oggi si chiamano Safdie e vivono a New York, o dal ciberneta che con il timone governa il clinamen dei bits, o dal musicista radicale che è europeo anche se viene dal Giappone. L’evento della caduta viene detto nella più vecchia parola della filosofia: l’ente si declina in tanti modi, troppi perché i filosofi riescano ad appropriarsene da soli, ed è in una tempesta di acciaio e simulacri e frequenze e quark che si dà la verità dal cuore saldo che i filosofi hanno per primi messo a nudo e i non-filosofi continueranno a contemplare stupefatti. La verità della filosofia si solleva cadendo e si produce disintegrandosi in tutte le hermēneiai di cui siamo capaci: una o più voci per ogni frammento dell’on esploso.
Atene è là dove le coraggiose triremi fanno naufragio, la Chiesa è là dove due o tre di noi si incontrano clandestinamente per capire se il crocifisso è già risorto, il socialismo trasfigura gli odiatori dell’esistenza che buttano alle ortiche gli abiti laceri del risentimento per fare ricchezza della propria miseria, l’esercito del Kaiser vince perché ha perso così bene l’ultima battaglia: luoghi, tempi, gesti morti e stramorti, luoghi, tempi, gesti eterni. L’Europa è dove finisce, l’Europa è eterna. «L’Europa e la filosofia cadono insieme», dice Pier Alberto, ed è vero: come atomi che precipitando si congiungono, si frantumano, si ricongiungono, e producono corpi mai visti dentro il vuoto inventato da Democrito che oggi è forse troppo pieno di “globo” ma che rimane la condizione di ogni “globo”. L’Europa si consolida nell’ira degli ingegni che hanno fatto e stanno facendo la sua storia futura, il buon europeo si consola nel rigore della propria inconsolabilità. Siccome non vi ho risparmiato neppure la citazione del Grande Sifilitico, vado fino in fondo: è l’energia del sapere e della forza che costringe noi Europei al nichilismo e, continua Nietzsche, questa è la più scientifica – dunque la più filosofica – di tutte le azioni, il nostro luminoso crimine.
L’Unione europea non è l’Europa, perché l’Unione è la parola e la politica dell’Europa, necessariamente menzognera, e l’Europa resiste in quanto corpo impolitico e antigonesco di ogni polis. L’Unione e l’Europa scontano un’incomprensione reciproca, camminano parallele e s’incontrano di rado. L’Unione è Bruxelles, l’Europa, invece, sono i chierici ventenni che – grazie ai quattrini di Bruxelles – vagano dall’Andalusia alla Scandinavia e tra sesso bevute libri esami stanzacce in affitto stanno prendendo una nuova consapevolezza – concreta, gioiosa, ignota a me e ai vecchi – di chi sono, di chi saranno. Li amo tutti di un amore scomposto.