Filosofia e rivoluzione digitale. Intervista a Davide Sisto

Lorenzo Pampanini: Proporrei di iniziare subito in medias res, con una domanda che mi preme molto sottoporti. Tra i filosofi contemporanei (ricordiamo la tua formazione sull’idealismo tedesco e le tue pubblicazioni su Schelling), non sono molti quelli che, come te, decidono di concentrarsi esclusivamente sulla cosiddetta “rivoluzione digitale”. Quanto è stata determinante la tua formazione filosofica rispetto alla decisione di intraprendere lo studio che stai conducendo sul digitale?

Davide Sisto: Per quanto possa sembrare a primo impatto strano, direi moltissimo. Vi è un filo rosso che lega i miei primi studi su Schelling, l’idealismo e il romanticismo tedesco e i miei attuali interessi per la cosiddetta “rivoluzione digitale”. Mi sono, infatti, soffermato ampiamente sul ruolo della morte e del “Mondo degli Spiriti” nel pensiero schellinghiano e nella cultura romantica in generale, concentrandomi sul particolare modo di intendere l’identità soggettiva (l’uomo come “circuito vivente”) e la relazione antidualistica tra il mondo naturale e il mondo spirituale. La Digital Death e la complessa dialettica tra presenza e assenza nella realtà “onlife”, in fondo, rappresentano il punto di arrivo tecnologico del desiderio umano di trattenere con sé spettralmente coloro che non ci sono più da un punto di vista fisico e, al tempo stesso, del timore che deriva dalla presenza imperitura degli spettri nella società dei vivi. Elias Canetti, in uno degli appunti per la stesura del suo libro contro la morte, annota quella che definisce essere una «notevole frase di Schelling», scritta in una lettera indirizzata all’amico Georgii: «noi non possiamo accontentarci di un generico perdurare dei nostri morti, noi vorremmo conservare la loro personalità nella sua interezza». E questa è la chiave di lettura della maggior parte dei temi che riguardano la Digital Death, nonché del rapporto tra reale e virtuale quando siamo ancora in vita, ma abbiamo perso di vista, per un motivo o per un altro, una persona da noi amata. In altre parole, la Digital Death può essere intesa come la trasposizione nella dimensione online del Mondo degli Spiriti di schellinghiana memoria (pensa a Clara scritto nel mondo odierno!).


LP: Uno dei filosofi contemporanei, recentemente scomparso, che si è interessato all’analisi del digitale è Bernard Stiegler, cosa ne pensi delle sue riflessioni in merito? Dai tuoi libri e dalla tue esternazioni pubbliche sul digitale sembri parzialmente dissociarti da ciò che Harari ha definito “dataismo” e dalla corrente interpretativa del “capitalismo della sorveglianza”. È così?

DS: Il merito di Stiegler è quello di aver affrontato il digitale e, in generale, le evoluzioni tecnologiche senza pregiudizi e senza adottare a priori quell’atteggiamento “conservatore” così tristemente diffuso nel mondo filosofico, pur evidenziando anche bene i problemi che derivano dalla rivoluzione digitale.
Il “datismo” di Harari mi affascina nel momento in cui proviamo a trarne delle conseguenze non solo negative: la progressiva trasformazione della nostra vita in un insieme di dati, che rappresentano di fatto il prolungamento online della nostra identità offline, può diventare un’opportunità inedita per ampliare le prerogative dell’essere umano e del suo modo di stare al mondo e di occupare spazi (a proposito, è molto interessante il libro La città di domani di Carlo Ratti e Matthew Claudel).
I problemi sollevati a proposito del cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” non vanno certamente sottovalutati, ma non bisogna nemmeno limitarsi a concepire la rivoluzione digitale in corso in termini esclusivamente negativi. Voglio dire, mai come oggi abbiamo a disposizione strumenti capaci di stimolare in maniera così profonda la nostra immaginazione e la nostra creatività. Cerchiamo, anche tramite un’opportuna educazione al digitale, di far prevalere gli aspetti positivi su quelli negativi, mantenendo un approccio razionale quando bisogna soppesare rischi e opportunità.

 

LP: La pandemia ha costretto molti a considerare la pervasività del digitale come risorsa, prime fra tutti le istituzioni pubbliche e le aziende. Si è intensificato il telelavoro e il webinar e la pratica della didattica a distanza, si è razionalizzato l’apparato burocratico, per dirla con Bauman, e anche quello medico-sanitario. Qual è la tua opinione su questi fenomeni e, in particolare, sullo smart working e sull’e-learning?

DS: La pandemia ha accelerato processi sociali, lavorativi e culturali già ampiamente in corso. Ha convinto anche i più scettici che non ha più senso parlare di una contrapposizione tra reale e virtuale (benché da decenni studiosi come Pierre Lévy, tanto per fare un nome, ce lo ripetono di continuo). Ha reso praticamente quotidiano e comune a tutti il concetto di “onlife”, tanto che lo stiamo già implicitamente superando. Soprattutto, ha portato alla luce il progressivo prolungamento delle nostre identità all’interno della dimensione online, un prolungamento a cui stiamo lavorando da diversi decenni. Pertanto, oggi ci troviamo a dover affrontare, di colpo, una trasformazione che stavamo di fatto già preparando. Come sempre succede, occorre essere lucidi nell’analizzare i cambiamenti. Lo smart working e l’e-learning non sono solo la conseguenza di un uso pervasivo decennale delle tecnologie digitali nella nostra vita, ma sono anche l’effetto di un sentire quotidiano della nostra società: sempre più persone evidenziano le proprie frustrazioni negli ambienti lavorativi e le difficoltà generate dallo stare insieme nello stesso luogo fisico, sempre più studenti evidenziano i punti deboli della didattica in presenza (scarsa interazione con il corpo docente, difficoltà a coniugare gli impegni delle lezioni con le attività lavorative, lo scandalo degli affitti esosi da parte degli speculatori, ecc.). Pertanto, il lavoro da casa e la lezione a distanza permettono di sopperire ad alcune evidenti mancanze, offrendo degli agi nuovi. D’altronde, la non differenziazione del luogo abitativo da quello lavorativo produce inedite forme di frustrazione e di sfruttamento, a partire dal ricatto di sentirsi sempre a disposizione del datore di lavoro. La didattica a distanza fa percepire la mancanza fisica dell’aula e di tutto ciò che – da un punto di vista corporeo – arricchisce l’esperienza dell’insegnamento. Aggiungiamo poi il problema enorme del digital divide. Durante un recente concorso universitario a cui ho partecipato, la presidentessa si è permessa di ironizzare sul computer meno performativo di un candidato. Come se fosse una cosa normale disporre di computer potenti e, quindi, costosi.  
In altre parole, la nuova situazione presenta opportunità e rischi. Certamente, è molto interessante capire come cambia oggi il significato di vicinanza e di presenza, come si modifica il nostro modo – finora assodato – di vivere negli spazi fisici e come si possa integrare in maniera intelligente la nostra unica corporeità con le sue molteplici proiezioni online.

LP: Ti sei occupato in modo filosofico del tema della morte almeno fin dal tuo libro Narrare la morte (2013). Poi, con La morte si fa social (2018) ti sei dedicato all’ambito della Digital Death, di cui sei il più illustre studioso italiano. Proprio in quest’ultimo testo hai analizzato l’eredità digitale e l’elaborazione del lutto illustrandone le differenze nei diversi luoghi digitali (da Elysway, SafeBeyond, ai più noti Facebook, Google ecc.). Agli occhi del lettore La morte si fa social potrebbe quindi apparire sia come un’introduzione all’ambito disciplinare della Digital Death, che come un manuale sul funzionamento dell’innovativa gestione della morte online. Sei d’accordo con questo giudizio sul tuo libro?

DS: Innanzitutto, ti ringrazio molto per il tuo commento. E ci tengo anche a ricordare l’ottimo lavoro, in campo soprattutto giuridico, di Giovanni Ziccardi. In linea generale, sì concordo. Soprattutto, mi auguro che gli studi sulla Digital Death entrino a far parte in pianta stabile tanto dei percorsi di studio umanistici quanto di quelli medici e pedagogici. Oggi, non è possibile affrontare il nostro rapporto con la morte senza tener conto del ruolo fondamentale ricoperto dalle tecnologie digitali. Il fatto che, a metà novembre, il convegno nazionale della Società Italiana di Cure Palliative sia tutto incentrato sul ruolo dell’innovazione tecnologica in ambito medico lascia ben sperare.

 

LP: Una domanda sulla realtà virtuale. Serie come Black Mirror, ma soprattutto le più recenti Upload e My holo love, ed episodi reali come quello di I met you, mostrano che la realtà virtuale potrebbe consentire un avvicinamento e una interazione tra vivi e morti o, forse, tra fantasmi virtuali e i vivi. Quanto influirà la VR su quella che chiami «mutazione post-individuale e multi-identitaria dell’essere umano»?

DS: Da decenni si parla di realtà virtuale e di realtà aumentata, tuttavia in termini più fantascientifici che realistici. L’interesse nei loro confronti manifestato da Zuckerberg e l’imminente ruolo fondamentale che avrà la realtà virtuale all’interno di Facebook lasciano presagire che i tempi sono pronti per la loro massiccia introduzione nella nostra vita quotidiana. Se ci pensi, 10-15 anni fa nessuno avrebbe immaginato il ruolo indispensabile ricoperto quotidianamente dagli smartphone, i quali rappresentano delle vere e proprie protesi degli attuali esseri umani. Tutto cambia velocemente e le evoluzioni tecnologiche, in particolare, godono di velocità pazzesche. Sono convinto che le narrazioni da te menzionate diverranno a breve la normalità. La Corea del Sud, per esempio, investe sempre più denaro nelle riproduzioni olografiche (e non è un caso che buona parte delle serie Tv incentrate sugli ologrammi proviene da questo paese). Forse non vivremo come nel mondo di “Ready Player One”, ma di sicuro ci abitueremo alla realtà virtuale e alla realtà aumentata in ambito medico (l’ospedale Mauriziano di Torino è oggi il primo in Europa a servirsi della realtà virtuale come guida per i pazienti al suo interno, tanto per fare un esempio tra i tanti). Così come ci abitueremo a riti funebri sempre più hi-tech, che ci metteranno nella condizione di incontrare gli spettri digitali dei nostri cari defunti, ampliando in modo estremamente creativo l’insieme delle loro memorie. Ne vedremo delle belle e continueremo a mutare il nostro modo di stare al mondo, tramite avatar e ologrammi, senza per questo snaturare le caratteristiche che dagli albori dei tempi accompagnano l’evolversi dell’umanità.

 

LP: Il lavoro che svolgi sulla cultura digitale apre alla possibilità di osservare il digitale da un versante prospettico differente rispetto allo studio tecnico della big data analysis, della internet of things, della AI ecc. Il tuo lavoro di ricerca sembra un po’ diverso da quello che svolgono al MIT di Boston, e da lavori di filosofia del digitale come quello di Wendy Chun o di Lev Manovich, per esempio. Potresti definirti un filosofo continentale al passo coi tempi, che tratta dei dati digitali e del progresso tecnologico in modo teoretico, ma osservandone le trasformazioni concrete nel loro divenire, riflettendoci oltre il rigore della logica analitica? Come descriveresti il tuo lavoro?

DS: Sì, la mia formazione continentale incide profondamente sul mio modo di fare ricerca in ambito filosofico. Se devo essere sincero, non mi pongo molto il problema di quale forma dare ai miei lavori. Quello che più conta è trovare una sintesi tra l’analisi filosofica e la descrizione di fenomeni inediti, tenendo conto delle caratteristiche della società in cui vivo. Penso sia necessario per la filosofia, nel mondo odierno, applicarsi concretamente alla realtà quotidiana, utilizzando i suoi strumenti teorici per comprendere lo spazio pubblico in cui siamo collocati. Le ricerche più astratte e rigorose, da un punto di vista analitico, sono fondamentali, ma non hanno alcun tipo di senso se non sono affiancate da ricerche e riflessioni più concrete, legate alla quotidianità in cui siamo immersi.  

LP: In Ricordati di me (2020), il tuo ultimo libro, rifletti sulla memoria e sull’oblio in relazione non solo alle tracce esistenziali digitali, ma in generale al funzionamento di internet. Qui affermi che la natura cartacea del tuo libro ne garantisce la preservazione dall’oblio in forma maggiore rispetto alla sua versione digitale. Un’affermazione strana. Volgarmente pensiamo che la memoria fatta di bit sia la più sicura, e infatti ci affidiamo moltissimo ad essa oggi. La tua affermazione è una rivalutazione della “memoria vegetale”, per dirla con Umberto Eco?

DS: Non credo si debba parlare di “rivalutazione”, semmai occorre essere consapevoli che la velocità delle evoluzioni tecnologiche rende obsoleti – nel giro di pochi anni – quegli strumenti che ci sembrano perfetti quando sono attuali. Se questa intervista fosse stata fatta a fine anni ‘90, quando stavo terminando il liceo, mai avrei pensato che nel giro di pochi anni i floppy disk sarebbero diventati praticamente inutilizzabili. Se ci fossimo confrontati nel 2006, avremmo parlato del valore dei contenuti di MySpace, il quale non solo non è più frequentato da nessuno ma ha anche perso nel 2019 cinquanta milioni di canzoni condivise tra il 2013 e il 2015. Esempi di questo tipo sono infiniti (tutte le mail che avevo su Outlook – tra fine anni ’90 e i primi anni del nuovo Millennio – sono sparite quando ho cambiato il computer). Gli studiosi di archivistica evidenziano continuamente la costante mutevolezza dei supporti digitali e la difficoltà di conservarne i contenuti. La registrazione online, da una parte, sembra garantire l’eternità ai contenuti della Rete ma, dall’altra, è costantemente minacciata dall’evolversi delle tecnologie. Ecco, quindi, che il vecchio e tradizionale libro cartaceo ha modo di prendersi le sue rivincite.

 

LP: Concludi il libro con un paradosso alquanto realistico. Data la frequenza con cui i luoghi online sorgono e spariscono, un ipotetico futuro lettore del tuo libro potrebbe non trovare riscontri dei programmi e dei siti che nomini nel testo, potendo arrivare a mettere in dubbio la veridicità della realtà su cui hai riflettuto. Che cosa intendi dire con «ed è giusto che sia così», il commento che riservi a questa eventualità?

DS: É una semplice battuta per dire che a) se si viene inghiottiti dall’oblio non c’è niente di male (anzi); b) se l’ipotetico lettore del futuro pensasse di avere a che fare con un pazzo visionario, la cosa sarebbe decisamente divertente.

LP: Stai lavorando ad un nuovo libro in questo periodo?

DS: Sì, il mio nuovo libro si occuperà di realtà virtuale e di realtà aumentata, nonché del significato che assume il concetto di presenza nel mondo segnato dalla pandemia. Ma è presto per parlarne. Ci risentiamo nel 2022, se non saremo tutti morti prima.  

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