La metropoli e la vita dello spirito
E allora si ricordò, quasi sorridendo, delle lunghe strade della Metropoli. Si ricordò della Metropoli vissuta del sangue, del sudore, del cervello degli uomini, della Metropoli che inghiottì milioni di vittime, che imprigionò tra mura di granito, oppresse, calpestò e uccise tutti coloro che vi affluirono. Si ricordò della Metropoli che uccise proprio chi fu attratto dalle mille speranze insensate che sembrava offrire. Si ricordò di quei pochi che la metropoli lasciò arrampicare sui suoi muri, quando ormai incanutivano, e il loro cuore e il loro sguardo non sentivano più. Questa, nonostante tutto, era la Metropoli, dove sorse e visse l’opera del presente.
Henri Berger[1].
Come è possibile che all’interno delle grandi città nelle quali viviamo, con una densità di popolazione mai vista nei secoli precedenti, affollate da una moltitudine di uomini e donne differenti tra loro, si sviluppi un sentimento di solitudine senza eguali? Questa è la problematica di fondo al lavoro del sociologo tedesco Georg Simmel (1858-1918), che nel 1903 pubblica il breve saggio Le metropoli e la vita dello spirito. L’intento simmeliano non è quello di giudicare, in positivo o in negativo, il fenomeno metropolitano, quanto piuttosto quello di comprenderlo adottando il punto di vista di uno spettatore disinteressato; egli è testimone della creazione delle prime realtà metropolitane e del conseguente cambiamento che queste realtà provocano nell’uomo. La metropoli è per Simmel il luogo all’interno del quale si concentrano e potenziano tutte le tendenze della modernità, quella che Cacciari dichiara essere «la forma generale che assume il processo di razionalizzazione dei rapporti sociali»[2]: la vita all’interno delle grandi città è caratterizzata da un’estrema intellettualizzazione della stessa, il tipo metropolitano per definizione non può essere un tipo affettivo, quanto piuttosto un razionale calcolatore.
È per questo motivo che sebbene il numero delle relazioni sviluppabili all’interno di tale realtà sia potenzialmente immenso, tutte sottostanno al carattere economico-monetario della vita moderna: la mentalità che le condiziona e ne costituisce il presupposto è infatti quella del calcolo e pertanto ognuno è portato a rapportarsi soltanto a persone che gli possano offrire una relazione proficua e rifuggirà quelle di cui percepisce che potrebbero danneggiarlo. «Lo spirito moderno è diventato sempre più calcolatore» e la puntualità, l’esattezza, la precisione, sono le nuove virtù.
Ciò consente a Simmel di affermare che una vita siffatta porta ad una intensificazione della vita nervosa: l’abitante delle grandi città e sottoposto a innumerevoli stimoli – uditivi, visivi, intellettivi, psicologici- e il contraccolpo di ciò è un aumento della vita nervosa. L' aspetto paradossale che ne consegue è l’emersione di un tipo specifico di personaggio: l’uomo blasè. Essendo infatti sottoposto ad un numero sovrabbondante di stimoli rispetto a quanti ne possa sopportare, incontrando troppe persone rispetto a quelle che può conoscere, udendo un’eccedenza di rumori rispetto a quelli da lui distintamente comprensibili, il cittadino delle metropoli si difende attraverso l’istituzione di un guscio di indifferenza. Questo sostanziale disinteresse verso il prossimo e la realtà che lo circonda è per Simmel presente fin dalla tenera età, «al blasè tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze»[3]. L’imperturbabilità dell’uomo blasè lo conduce a vivere una vita riservata, come all’interno di una bolla. Secondo Simmel l’abitante metropolitano può vivere una vita maggiormente riservata rispetto al campagnolo perché dotato di una maggiore libertà: mentre la vita in campagna era caratterizzata da strettissimi legami famigliari, con regole e obblighi precisi, ora l’individuo è potenzialmente autosufficiente e pertanto può decidere di non curarsi di creare una famiglia o un gruppo di amici e di dedicarsi a se stesso, al suo lavoro, alla sua salute e ai suoi hobby. Il consolidarsi dell’etica borghese del neoliberalismo va di pari passo con l’aumento di libertà anche negli stessi rapporti sociali dell’uomo, che ora può decidere di vivere indipendentemente, «ciò che in questa forma di vita appare immediatamente come dissociazione è in realtà soltanto una delle forme elementari di socializzazione»[4]. Si potrebbe dire che la nuova forma di vita analizzata da Simmel costituisca il compimento dell’insocievole socievolezza kantiana, che la forma più caratteristica di socializzazione è la dissociazione e che l’uomo metropolitano tende a preferire la limitazione dei rapporti interpersonali alla sfera dei bisogni fondamentali e lavorativi. Senonché, per Simmel non è detto che il raggiungimento di una maggiore libertà individuale vada di pari passo con il miglioramento della vita affettiva. L’uomo metropolitano ottiene sì il raggiungimento del successo a livello lavorativo e la possibilità di coltivare molti interessi personali, tendendo quindi ad essere più impegnato dell’uomo delle piccole città, eppure - a parere dell’autore - possiede una vita affettiva immensamente più scarna: l’uomo metropolitano è anche e soprattutto un uomo solitario.
Sebbene, va detto, non sia corretto caratterizzare la solitudine semplicemente come uno stato emozionale negativo ed infatti spesso l’uomo saggio decide di ritirarsi e vivere una vita solitaria, tuttavia mentre la solitudine del saggio è frutto di una scelta personale e ragionata, quella dell’abitante della metropoli è al contrario il risultato dell’ambiente sociale che lo circonda e la si potrebbe definire di una “cattiva solitudine”. Per Simmel un uomo al pari di Nietzsche rifugge dalla vita metropolitana: esso apprezza di per sé il valore della solitudine e dell’unicità, eppure comprende che queste non potrà trovarle all’interno della giungla cittadina. Qui Simmel pare riferirsi al giudizio espresso da Nietzsche nella terza parte di Così parlò Zarathustra, quando Zarathustra si trova di fronte ai muri della grande città ed incontra un pazzo/scimmia che lo invita a girare a largo da tale ambiente malsano in cui ogni uomo è servo: «Qui è la grande città: qui nulla hai da cercare e tutto da perdere. Perché sei voluto passare a guado attraverso questa melma? Abbi compassione dei tuoi piedi! Sputa piuttosto sulla porta della città e- torna indietro!»[5].Eppure è lecito chiedersi se tale interpretazione possa essere integralmente assunta; come fa notare il filosofo Massimo Cacciari nel suo libro Metropolis, la condanna che la scimmia dà della grande città rispecchia lo spirito di gravità che la caratterizza, «l’essere impotenti a camminare, a procedere, a passare oltre. Limitarsi al disprezzo, senza far luce, senza comprendere.»[6]: forse è per questo che Zarathustra tanto disprezza la scimmia da paragonarla ad un porco, e può darsi che risieda in ciò il senso del monito «forse che il mare non è pieno di verdi isole?»[7].
Tornando a Simmel, si vede come per esso il paradosso dell’uomo metropolitano risieda nel fatto che sia costantemente circondato da corpi, uomini e donne di ogni sorta, eppure a questa vicinanza fisica consegue una lontananza psichica, non sempre desiderata. Ogni giorno si passa accanto a centinaia di uomini, indifferentemente, in silenzio, come tra gli alberi di un bosco. Sprofondato all’interno di questa condizione solitaria all’uomo metropolitano non resta che tentare disperatamente di farsi riconoscere, di distinguersi dalla folla di corpi che lo assediano senza però interagire con lui; ed è così che emergono le eccentricità più arbitrarie e le condotte più diversificate «il cui senso non sta più nei contenuti di tali condotte, bensì solo nell’apparire diversi, nel distinguersi e nel farsi notare – il che in definitiva rimane per molti l’unico mezzo per salvare, attraverso l’attenzione degli altri, una qualche stima di sé e la coscienza di occupare un posto»[8]. Secondo Simmel, attraverso la capacità di distinzione, l’uomo tenterebbe di riemergere dall’omologante folla metropolitana, dalla cloaca del sovraffollamento; la domanda che potremmo dunque porci è se queste individualità eccentriche, frutto della cattiva solitudine metropolitana, siano o meno un risultato positivo, se invece cioè di lasciarci trascinare dal disgusto invocato dalla scimmia non sia meglio cercare di comprendere e sfruttare quello che le individualità e la vita metropolitana possono offrirci.
[1] Massimo Cacciari, Metropolis: saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Officina Edizioni, Roma, 1973, p.121.
[2] Ivi, p.9.
[3] Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 2012, p.43.
[4] Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 2012, p.46.
[5] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra: un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano, 2019, p.206.
[6] Massimo Cacciari, Metropolis: saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Officina Edizioni, Roma, 1973, p.32.
[7] Nietzsche Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra: un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano, 2019, p.208.
[8] Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 2012, p.53.