L'arte come «velo sulla ferita»

La nostra esistenza è attraversata da una serie di domande che sembrano non esaurirsi in una risposta, che paiono non trovare una completezza al di fuori di sé; queste fluttuano nella nostra mente ma rimangono aperte, sospese, potenzialmente infinite: cos’è la vita? Perché esistiamo? Cos’è la felicità? Interrogazioni come queste toccano, stimolano e tormentano l’uomo almeno una volta nella vita e, nonostante gli svariati sforzi che si perseguono per soddisfarle, continuano a non risolversi in responsi esaustivi. La loro problematicità sta, probabilmente, nel loro statuto: esse, infatti, non hanno come oggetto la fattualità del mondo, ma sono legate a faccende di senso, di direzione, di interpretazione; spesso esigono, inoltre, la presenza di un piano intersoggettivo, di un ordine dialogico, di un giudizio riflettente e richiedono atteggiamenti inventivi e produttivi. Ecco che, distanziandosi nettamente dalla scienza, indagatrice di fatti, tali questioni acquistano un sapore squisitamente filosofico, in quanto, essendo contrassegnate da un timbro riguardante l’orientamento, passano da un’epoca all’altra mantenendo una certa ariosità e un carattere mai univoco e avvicinandosi sempre e solo asintoticamente alla verità. Tra le onde oscillanti di questo mare illimitato di domande, luccica e si agita anche quella relativa al fenomeno estetico. Che cos’è l’arte? Che cos’è il Bello? Non poche volte ci siamo affacciati alla finestra di questa materia e di nuovo ci siamo trovati di fronte ad un argomento dal tono complesso, soggettivo, intimo; nel momento in cui prova a definirla, ogni individuo propone la propria visione, la propria sensazione, la propria percezione dell’arte. Eppure, in questo caso, pare esserci un fil rouge che connette tra loro i vari tentativi di risposta: l’arte viene etichettata generalmente come ciò che abbraccia ogni attività umana che conduca a forme di espressione, di creatività e di fantasia. L’arte è tendenzialmente pensata come un linguaggio, un’elaborazione simbolica, un mezzo di comunicazione, istituendosi in tal modo come un fenomeno illustrativo, una rappresentazione, un’esposizione di significati comprensibili a seguito di un’analisi. Secondo una lettura comune e convenzionale, dunque, l’arte, si dia essa nella forma di dipinto, di una melodia, di una poesia, di una danza, è narrazione di una storia, è racconto di una tematica; tuttavia, l’estetica e i suoi prodotti costituiscono un campo molto più profondo ed intricato, che non può essere ridotto a mera raffigurazione e che, in realtà, non è mai totalmente e perfettamente descrivibile come sembra.

Osservando un’opera che sia davvero d’arte si affronta un’esperienza che, il più delle volte, non è completamente decifrabile: se, da una parte, si coglie il significato generico, il tema espresso, il messaggio latente celato dietro ad un contenuto manifesto, dall’altra si rintraccia un’alterità non interpretabile, una spigolosità esuberante rispetto al senso, che colpisce intimamente e punge il soggetto; proprio questo punto incomprensibile fa dell’arte un miracolo, regalando ad ogni sua manifestazione una potenza ed una intensità straordinarie. Su tale contesto ritengo possa giustamente intervenire, offrendo validi contributi per approdare ad una risposta più appagante, la psicoanalisi: secondo il pensiero di Jacques Lacan e l’interpretazione che ne dà Massimo Recalcati, questo nucleo oscuro ma essenziale, non imbrigliabile nella rete simbolica, che sta alla base dell’evento artistico, è un nocciolo di Reale; questo assunto fa dell’arte non più una formazione dell’inconscio dell’artista, ma una pratica simbolica che, come quella analitica, mira a stringere qualcosa che esula sia dal campo dell’immaginario sia dal campo del simbolico. Si crea, così, un incontro fecondo tra estetica e psicoanalisi, congiuntura in cui la psicoanalisi non è pensata come applicata all’arte ma come “implicata”[1] ad essa, poiché non si tratta di interpretare psicoanaliticamente l’opera d’arte secondo il fantasma e la vita dell’autore, ma di interrogare il suo mistero, legato indissolubilmente al registro del Reale. Lacan non si è mai interessato all’estetica in modo sistematico, ma il riferimento all’arte è massicciamente presente nel suo insegnamento: in particolare, stando all’idea di Recalcati, il Seminario VII, dedicato all’etica della psicoanalisi e risalente al 1959-1960, costituirebbe il punto di svolta di Lacan per quanto concerne la concezione artistica, in quanto lo psicoanalista inizierebbe ad occuparsi dell’arte nel suo nesso col Reale più che col simbolico, abbandonando la concezione dell’esistenza di un’omologia tra l’inconscio strutturato come un linguaggio e la struttura dell’opera d’arte e trascinando quest’ultima verso un resto che eccede il significante.

Ma cos’è il Reale, questo centro resistente alla dicitura di cui l’arte si fa trattamento? Il Reale è il terzo registro che, accanto a quello del simbolico e dell’immaginario, contribuisce secondo Lacan alla formazione psichica dell’umano. Se ci poniamo sotto l’ottica del significante, vediamo come il Reale, lungi dall’identificarsi nell’empiria della realtà, appaia come l’impossibile: esso è ciò che non trova posto nelle immagini e nelle parole, è lo scarto irriducibile al sistema del linguaggio, ciò che sfugge al senso e di cui non si può dire nulla. Tra Reale e simbolico esiste un rapporto incentrato sulla morte: nel momento in cui l’essere vivente viene investito dal linguaggio, infatti, viene implicata una perdita, la quale è perdita di godimento, in quanto il soggetto viene staccato dal corpo della madre e traumatizzato strutturalmente. Nel corpo, immesso in un ordine che, avendo un potere anche causativo, lo precede e gli impone le sue leggi, si apre un vuoto, una mancanza, ed è «solo a partire da una lacuna, da un vuoto che si produce per effetto dell’azione del significante sul reale del corpo stesso»[2] che il corpo si fa pulsionale. Non bisogna, tuttavia, pensare che all’inizio ci sia un’unità originaria, un’identità, che successivamente viene frantumata: all’inizio c’è la differenza, la divisione, il taglio[3], che cifra la totalità indifferenziata scavando un vuoto e producendo un residuo, attorno a cui il meccanismo linguistico ruota e si organizza e che permette l’iniziazione del soggetto e del suo desiderio. Il Reale, dunque, è ciò che sta al cuore della posizione soggettiva, trafiggendola come una ferita, segnandola come una cicatrice (questa lacerazione dà, in primo luogo, significato alla barra che Lacan scrive sul soggetto, $) ed è qualcosa che l’uomo sperimenta senza poterlo catturare, una potenza che subisce estremamente vicina, prossima, propria, ma, al contempo, distante, estranea, altra: Lacan ne parla in termini di “estimità”, di intima esteriorità. L’eccedenza che viene scritta dall’incidenza del significante sulla globalità primordiale è accostata da Lacan nel Seminario VII, attraverso la figura freudiana di das Ding, alla Cosa, uno dei nomi del Reale; questa assume un duplice volto, essendo declinata, in maniera apparentemente paradossale, sia come vuoto, poiché, dal punto di vista del significante, è inenarrabile e fuoriesce dall’elaborazione ermeneutica, sia come pieno e condensazione rovente dal punto di vista del godimento, in quanto regione di un godimento puro e mortifero ucciso dal simbolo; in quanto tale, la Cosa incarna il Reale come luogo dell’orrore, del terrificante, come regione dannosa. Il soggetto è graffiato, quindi, da un Reale che si colloca al di fuori del significante ma che «patisce del significante»[4] (il significante, infatti, agisce su di esso introducendo una differenziazione pur non riuscendo a scioglierlo nella sua concatenazione): vi è un «orrore della struttura»[5], cioè la presenza di una mancanza che rivela che nell’esistenza umana non tutto è assorbibile nel senso ma che rimane un limite invalicabile, impronunciabile, innominabile. Rispetto al registro scandaloso del Reale, zona dall’aria irrespirabile e vortice che risucchia, devono essere necessariamente innalzate delle “barriere di protezione”, affinché il soggetto non venga brutalmente annientato e violentato a seguito di un impatto immediato con esso. Allo stesso tempo, però, è importante che la Cosa del Reale non venga del tutto occultata o rimossa dagli elementi di difesa utilizzati, i quali devono essere pensati come dei filtri che lasciano emergere secondo nuove possibilità ciò che delimitano piuttosto che come delle coperture: per l’uomo, infatti, è essenziale la ferita, perché solo frequentandola la sua vita può dirsi viva; al contrario, dedicare la propria vita ad un evitamento costante della ferita provoca uno spegnimento, un addormentamento, un’imbalsamazione della vita stessa[6]. La pratica dell’arte, a tal proposito, si configura proprio come l’ambito capace di tenere assieme due polarità, quella del Reale insidioso, con cui è pericoloso avere un rapporto diretto ma che, allo stesso tempo, conferisce consistenza all’esistenza (senza il primo, infatti, la seconda risulterebbe vana), e quella della difesa, costituita dalla bellezza, pensata come forma con un’efficacia simbolico-immaginaria che canalizza la forza abissale e la fa emergere in modo inedito. L’arte è il sito in cui si costruisce un “velo sulla ferita”[7], che è in grado di mettere in forma la scabrosità della ferita continuando a far pulsare la sua incandescenza e non eliminandola. Pertanto, come la psicoanalisi non è una semplice pratica ermeneutica o una teoria dell’interpretazione, ma ha come termine più proprio l’impossibilità e come fine ultimo il tentativo di assumerlo senza scongiuri e sacrifici, come questa tenta di far emergere la contraddizione rendendola creativa, generativa e creando con essa un “legame di amicizia” senza schivarla, così l’arte, distanziandosi dalla tesi di stampo platonico dell’arte come mimesi e da quella dell’opinione consueta dell’arte come rappresentazione, tenta di ospitare ed inglobare in sé la forza abissale.

A fondamento della sublimazione artistica, dunque, si pone ciò che la coperta simbolica ha lasciato fuori, un vuoto, il quale acquista una valenza positiva e vitale come condizione di possibilità dell’attività creatrice, come fulcro centrale da cui si origina ogni rappresentazione, come elemento a partire da cui la materia si dispone: «in ogni forma di sublimazione», dice Lacan, «il vuoto sarà determinativo»[8], in quanto qualsiasi raffigurazione è rotazione attorno al buco di das Ding, e «ogni arte si caratterizza per una certa modalità di organizzazione attorno a questo vuoto»[9]. L’arte propone un'articolazione formale del vuoto extra-significante ed extra-immaginario, cioè lo borda, lo circoscrive, lo costeggia, lo fiancheggia, crea su di esso una trama, una cornice, senza presentarlo apertamente ma mantenendone un contatto fecondo. L’opera d’arte nasce, quindi, dallo sviluppo di un equilibrio tra ciò che è simbolico e ciò che non lo è: la sua potenza, contrariamente ad altre discipline che evitano in nome di un Bene supremo il non-senso (è il caso della religione) o che cercano di saldarlo, di dargli una spiegazione a tutti i costi (è il caso della scienza), sta nell’incontro col Reale, ma questo Reale può essere raggiunto solo attraverso una composizione, una struttura, per far sì che il registro esternato non si dia in modo distruttivo; l’irruzione pulsionale non può portare, infatti, ad una dissoluzione dell’aspetto formale e stilistico dell’opera: questo è un ingrediente necessario, in quanto l’opera d’arte inizia solo a partire da una velatura della portata del Reale, da una attenuazione dell’impeto della Cosa. La forma è il vero strumento che protegge il soggetto dall’oscenità del Reale senza dissipare quest’ultimo e senza risultare sterile materialità. La tensione dialettica tra bellezza e ferita, tra Bello e caos, tra forma e informe, viene perfettamente incarnata da quella che Recalcati chiama “estetica del vuoto”[10]: questa è la prima estetica che 10 l’autore rintraccia nello sviluppo della vulgata lacaniana, ovvero la prima modalità che l’arte avrebbe per accostarsi al Reale. L’estetica del vuoto, che trae la sua genesi dalla tesi dell’arte come organizzazione del vuoto della Cosa, non rinuncia mai alla bellezza, cioè alla forma: il Bello, «l’ultima barriera, l’ultimo velo di fronte al reale»[11], adotta una certa distanza dalla Cosa, la riveste, ma, contemporaneamente, conserva un rapporto ravvicinato con essa, la lascia trapelare, la integra costantemente nella forma. Dal punto di vista pittorico, ad esempio, le opere riconducibili al primo modello estetico vedono la presenza di oggetti, per lo più semplici e quotidiani, come le mele e le arance delle celebri nature morte di Paul Cézanne; questi, tuttavia, non corrispondo ad una copia naturalistica della realtà, non si presentano come oggetti empirici ma, sganciati dalla quotidianità, dai fatti già noti e comuni, acquistano un senso nuovo, si fanno elementi assoluti capaci di organizzare un vuoto: grazie ad un rinnovamento percettivo, essi smettono di essere oggetti di natura per essere elevati alla dignità della Cosa, per trasformarsi in una sequenza segnica pronta ad evocare das Ding, per diventare indici del Reale. Lacan, relativamente ai dipinti di Cézanne, scrive:

«[...] quando Cézanne fa delle mele, è evidente che facendo delle mele, fa tutt’altra cosa che imitare delle mele - benché il suo ultimo modo di imitarle, che è il più affascinante, sia quello più orientato verso una tecnica di presentificazione dell’oggetto. Ma più l’oggetto è presentificato in quanto imitato, più ci apre la dimensione in cui l’illusione va in frantumi e mira ad altro. Tutti sanno che c’è un mistero nel modo che ha Cézanne di fare le mele, poiché il rapporto col reale quale allora si rinnova nell’arte fa sorgere l’oggetto in un modo che è lustrale, che costituisce un rinnovamento della sua dignità, grazie a cui, per così dire, vengono datizzate in un nuovo modo queste inserzioni immaginarie»[12].

Queste forme, questi corpi, queste figure, queste cose così usuali e “normali”, si distinguono evidentemente dalle loro immagini convenzionali, cioè dallo spesso manto di significazioni abitudinarie, necessarie, scontate, che vi si attribuiscono e, attraverso un processo di trasfigurazione ed elevazione significante, si stagliano come «immagini-segno»[13], come icone dell’impossibile, dell’indicibile, dell’assoluto. Si riesce così, tramite la tecnica della presentificazione della Cosa nell’oggetto, a rintracciare l’irrappresentabile e l’invisibile proprio nel rappresentato e nel visibile e non andando al di là della figurazione. La forma, pertanto, è un veicolo, un mezzo, per richiamare l’irraffigurabile, è una “spia” del non definibile: solo con la mediazione della forma l’opera d’arte può parlare alla nostra sensibilità, solo attraverso la forma può darsi il contenuto, solo all’interno della forma può esserci una transizione, una connessione, un rinvio all’infinito.

Per offrire una designazione ulteriore dell'estetica come ambito in cui viene isolato un germe di Reale, facendo riferimento ad una forma artistica altra rispetto a quella pittorica, vorrei richiamare l’arte della danza: mi sembra che questa riesca, in modo efficace, a realizzare una compenetrazione tra l’elemento criptico, dionisiaco, perturbante e l’elemento limpido, apollineo, rassicurante. Curt Sachs definisce la danza come la “madre” di tutte le arti, poiché essa, grazie al suo dinamismo motorio e alla sua evoluzione temporale, vive contemporaneamente nel tempo e nello spazio; per di più, potremmo dire che l’arte della danza include le altre: essa, ad esempio, richiede la musica, su cui si costruiscono armoniosamente le coreografie, riprende la scultura, perché scultorei sono i corpi dei ballerini, assomiglia alla pittura, dato che lo svolgersi di una quadro tersicoreo ricorda lo svilupparsi di un dipinto. La danza, infine, coinvolge ampi confini, rendendo complici la mente e la razionalità, l’anima e l’emotività, il corpo dei soggetti: i danzatori sono chiamati a ricordare numerose sequenze di passi, a contare costantemente la musica per mantenere il ritmo, a pensare in senso collettivo per coordinarsi con gli altri; al contempo, chi balla esprime il suo essere, il suo Io e fa fuoriuscire i suoi sentimenti, lasciandosi catapultare in un mondo altro dalla “magia” e dalla “sacralità” del momento; ancora, i ballerini sono sottoposti ad una ferrea disciplina e ad un perenne allenamento fisico, corporeo, sensoriale. Se colui che vive la danza lo fa mettendo in gioco tutte le sue facoltà, come ne fa esperienza, invece, colui che osserva la danza? Posto di fronte ad una coreografia, lo spettatore comprende, naturalmente, la catena simbolica trasmessa mediante i movimenti dei danzatori, intuisce la storia che viene raccontata attraverso la loro gestualità; tuttavia, vi è qualcosa che resiste alla simbolizzazione, qualcosa che non è spiegabile o accostabile ad un significato: in ogni performance ballettistica si rintraccia una presenta enigmatica, misteriosa, impenetrabile, che rende l’arte della danza familiare ed estranea allo stesso tempo, comprensibile ma mai fino in fondo. La danza, dunque, è l’attuarsi di una sublimazione non integralmente parafrasabile, di fronte a cui le parole si arrestano: essa garantisce la relazione col registro del Reale, è un’occasione per ovattare quel punto cieco e proprio per questo rapisce, ammalia e attrae fortemente colui che guarda, il quale è segnato e pizzicato da qualcosa che, sottraendosi dal linguaggio, è impossibile da dire. Stando a questa suggestione, mi chiedo, volendo proporre un’ipotesi plausibile, se la danza possa essere una forma armonica sull’irrappresentabile, ovvero un tipo di estetica del vuoto. In effetti, i corpi sinuosi che si spostano da un punto all’altro dello spazio, la disposizione e la formazione ordinata che i danzatori assumono sul palcoscenico, le loro movenze graziose e precise, mostrano di attraversare e circondare un vuoto centrale di cui si percepisce l’esistenza ma che rimane inafferrabile; le figure e le forme che i ballerini costruiscono e disegnano col loro corpo, rinnovate rispetto al reticolo significante già stabilito del mondo, alle cristallizzazioni segniche stereotipate della realtà, si prestano a mutare in sagome e tracce della Cosa. Di conseguenza, quest’arte sublime contiene sicuramente una chiara organizzazione geometrico-significante, stringendo in tal modo un legame con l’asse del simbolico, ma ospita anche qualcosa d’altro: essa ha a che fare con un ambiente arcano, inquietante, inaccessibile sebbene venga citato, di cui si fa ricamo, velo, grazie alla sua proporzione e al suo equilibrio. Nel Così parlo Zarathustra Nietzsche, ritenendo la danza l’attività principale del superuomo, scrive che per generare una stella danzante bisogna portare un caos dentro di sé; tale curioso aforisma appare vincente per dimostrare il connubio tra la sbavatura e il suo abbellimento di cui è fatta la danza e l’arte in generale: la bellezza trae origine dal dolore, il Bello viene partorito da un trauma, la forma si costituisce a partire da una spaccatura e questa armonia, poi, che trae validità e spessore dal tragico e dallo spaventoso, si fa compagna dell’incubo del Reale. Anche l’intensità della danza, pertanto, sta nella sua impenetrabilità, anche la sua forza irresistibile sta nella sua ambiguità.


[1] Cfr. Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Mondadori, Milano-Torino, 2011, p.XVI

[2] Massimo Recalcati, Il vuoto e il resto. Il problema del reale in Jacques Lacan, Mimesis, Milano-Udine, 2013, cit. p.53.

[3] Esistere, da ex-sistere, significa uscire, staccarsi, perdere. Cfr. Ivi, cit., pp. 52 e 54: Recalcati scrive che «vivere è essere-in-perdita, è essere in perdita di godimento» e che «nascere significa perdere […], perdere un’unità che in realtà non c’è mai stata».

[4] Jacques Lacan, Il Seminario. Libro VII, L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, trad. it., a c. di G. B. Contri, Einaudi, Torino, 1994, cit., p. 151.

[5] M. Recalcati, Il vuoto e il resto, cit., p. 15.

[6] Cfr. Alex Pagliardini, intervento proposto in occasione dell’incontro La bellezza ferita, organizzato nel 2015 dal centro Jonas Onlus Roma (video della conferenza al seguente link: https://youtu.be/-GfD5r9rwio).

[7] L’espressione è stata utilizzata da Pagliardini durante la conferenza sopracitata. L’arte è una pratica che permette la frequentazione della ferita, in quanto dimensione in cui si costruisce un velo capace di implicarla con sé e non di annullarla: solo un’opera che ha legami con la ferita, che è attraversata da una perdita e che, in quanto tale, punge il soggetto e risulta per un momento inguardabile o inascoltabile, è un’opera d’arte.

[8] J. Lacan, Il Seminario. Libro VII, cit., p. 165.

[9] Ibidem

[10] Cfr. Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. L’autore individua e distingue nell’insegnamento di Lacan tre estetiche, quella del vuoto, quella anamorfica e quella della lettera; si tratta di tre differenti paradigmi artistici che tentano di implicare il Reale, di tre argomentazioni che provano a definire l’evento dell’opera d’arte, convivendo contemporaneamente senza succedersi cronologicamente e senza sostituirsi o escludersi reciprocamente.

[11] Ivi, cit., p. 44.

[12] J. Lacan, Il Seminario. Libro VII, cit., p. 180.

[13] M. Recalcati, Il miracolo della forma, cit., p. 95.

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