L'insaputo sulla schiena del sapere

La psicanalisi: “una praxis, un’esperienza, un fatto di poesia, un fatto di filosofia, una nuova posizione impossibile”. Il saggio di Gioele Cima Il Seminario Perpetuo sonda gli statuti e i posizionamenti della soggettività nell’esperienza psicanalitica affondando nel tardo e ultimo Lacan pervaso di oscurantismo.

Oscurantismo - è bene insistere - non “opacità”: Cima sceglie di partire da considerevoli punti ciechi dell’insegnamento di Lacan su cui compie movimenti intellettuali decisivi: lambisce, circonda i punti nodali, disegna sui buchi, vaglia le condizioni necessarie e sufficienti del darsi di una topologia, mostra i modi del soggetto di essere “impregnato” dal linguaggio.
Dall’omofonia tra Les non-dupes errent (Seminario XXI, I non gabbati errano) e Les Noms du Père (Seminario XVII, interrotto nel 1963) è indagata nell’incipit del saggio un’etica della duperie (stupidità) secondo il tetragono di saperi scienza-religione-filosofia-psicanalisi’. I due seminari, con nomi diversi ma fonologicamente affini, veicolano le même savoir. Solo la psicanalisi “fa sintomo” cioè marxianamente nega e sovverte un’universalità solo presunta; in questo senso è sintomatica di “ciò che non va” e inaugura retroattivamente, dal momento in cui si pone, una più ampia critica dei saperi.

Quando Cima parla di retroazione, in rapporto alla temporalità dell’après-coup, non si tratta mai né di “azione differita” (deferred action alla Strachey) né di significazione a posteriori dell’ermeneutica: attinge alla più specifica nozione di Nachträglickeit tradotta da Alessandra Campo come tardività, di cui “solo la topologia può dare conto”. Perché la topologia? Perché sviscerare seminari oscuri le cui impasses minacciano sussulti e crolli del sistema? In che modo rende conto del reale?
Una topologia, quella di Cima attraverso Lacan, vagliata nelle sue intersezioni e triadi, che è già il superamento di una prima impasse: la formalizzazione logico-matematica di cui il Seminario XXI, Les non-dupes errent è ultimo baluardo; l’ultimo perché il rischio sarebbe un prepotente “iper-bourbakismo” e uno “sciovinismo ontologico” proprio della scienza. Di fatto nel 1976, anno della Kehre, il matema cade ma “scricchiola già da prima” (pag. 29) per l’idealizzazione da cui è avvolto. Cima “fa luce” o “attraversa il buio” delle impasses che generalmente sorgono quando sorge un idealismo attorno a un concetto presunto “universale”. «Abbiamo impiegato tanto a capire che qualcosa del reale, nientemeno che la vita stessa, si struttura come un nodo» (Lacan, La terza: conferenza tenuta a Roma nel ’74). In Cima l’impossibilità diventa così ragione di procedere; l’impasse motivo non di resa ma di questionamento, di interrogativi ulteriori, più tenaci, più puntuali, in una dissoluzione che è quella del senso.

Il senso cade. Ci troviamo scagliati, o- con un sapore heideggeriano tutt’altro che estraneo a Lacan- gettati contro lo scoglio del Reale. La metafora marina non sorge a caso: l’immaginario, come schiuma, è sigillo del reale e arresto dell’incessante cifratura operata dal simbolico. All’immaginario viene restituita la sua pregnanza nel rapporto di inestricabilità epistemologica con gli altri registri o “dit-mansions”- fruttuoso neologismo lacaniano che combina il “dire” e le “mansioni” ma anche “dimore” del dire- ovvero le dimensioni per cui è impossibile uscire dal linguaggio (“Non c’è Altro dell’Altro). Siamo immersi, bagnati, nel linguaggio e costitutivamente attraversati da parte a parte dal taglio del significante. Ma l’imprescindibilità reciproca dei tre registri è indice di qualcosa di più: l’abisso del reale viene sigillato, il simbolico non procede nel lavoro di cifratura, c’è un fantasma che scherma il reale.

L’intuizione di Cima è che l’intero lavoro di Lacan- dai seminari “zero” tenuti clandestinamente nell’appartamento di Rue de Lille 3 al “controverso” Dissolution, di cui problematizza la collocazione tra i Seminari per poi inserirlo a pieno titolo tra questi, senza tuttavia “feticizzarne” l’ultima parola come più veridica o rivelativa- sia attraversato da un persistente fantasma borromeo, cioè una fantasia triadica di equivalenza dei tre registri/ dit-mansions. Il nodo è «l’insaputo cucito sulla schiena del sapere» (pag. 81), supera il sapere- che ha carattere di dimostrazione- per mostrazione. La sua trascendentalità ne fa uno strumento teoretico per uscire da quello che è al contempo, in maniera bifronte, un mezzo di sopravvivenza e un “clamoroso raggiro”: il cul de sac del discorso. Di tale raggiro fa parte lo stesso Lacan, col discorso dell’analista.

Ma, di nuovo, l’impasse è dietro l’angolo.

Il nodo viene idealizzato come “tutto” e si cristallizza, ovvero ogni nozione psicanalitica pretende di potersi applicare al nodo ed esaurirsi efficacemente nella sola mostrazione borromea. A questo punto uscire dall’idealizzazione è, strategicamente, uscire dal modello che “ordina, taglia, immobilizza il caos del mondo”- o, dovremmo dire, il reale dell’(im)mondo- attraverso una “metateoria rassicurante”, un “artificio”, la fabbricazione di “un’immagine plausibile”. Il modello è il blocco epistemologico che più dobbiamo osteggiare. Qui Cima fonde L’étourdit (Lo stordito) di Lacan e Il concetto di modello di Badiou ma supera la categoria del cinico badusiano formulando un’emancipazione rispetto al reale che è anch’essa non diretta ma consiste in qualcosa. In un’erranza programmatica nella struttura. Ma il nodo non si crea senza buco (ek-sistenza). Dobbiamo in certo senso presupporre uno spazio, più propriamente un non-spazio (“n’espace”, scriverà Lacan in L’etourdit nel 1970). Cima svela i retroscena biografici che sottendono all’elaborazione di una teoria critica dello spazio: mancava strutturalmente nel sistema lacaniano prima dell’incontro con Kaufman sul tema del sublime kantiano e del bello come “ultimo velo che copre l’orrore del reale” (rilkianamente). Da questo incontro si dischiudono passaggi decisivi per l’abiura dell’estetica kantiana. Le accuse mosse sono di rigidità dell’intuizione pura (forma “normativa e obbligatoria” di ogni “apprensione sensibile”); lo schematismo trascendentale è tacciato di predeterminazione, le categorie kantiane hanno “sequestrato abusivamente” la nozione di soggetto (pag 188).

Perché un dovere di abbandono, in Lacan, dell’estetica kantiana?

Perché in essa non c’è spazio per l’opacità, regna un’insostenibile Durchsichtigkeit (trasparenza), colpevole di tutte le «disgrazie dell’oggetto» a partire dalla separazione di spazio e tempo (pag. 191). Date queste premesse, la topologia si innesta su un vero e proprio sgretolamento del concetto di spazio, è una struttura senza fondamento, in cui spazio e tempo si legano nella materialità reale della corda. Costruire topologicamente in seno a un non-spazio è una deflagrazione del topos, che ora viene visto coincidere con la “debilità mentale”. Il non-spazio, invece, ek-siste. Eccede. Fa scarto. Così i processi topologici sono all’insegna della deformazione continua. Il passaggio, la ri-concettualizzazione, si svolge dal piano dello spazio reale- che è ancora nell’ordine del “mentale” cioè tende alla consistenza, alla simulazione- al reale dello spazio. Il mentale, fa notare Jacques-Alain Miller in Pezzi staccati, riunisce sotto il miraggio di imago quello che è un corpo in frammenti (corps morcelé), metafora che accompagna Lacan fin dallo stadio dello specchio. L’immaginario si configura quindi come difesa, inibizione mentale: allacciare solo per “fare sistema”, per fabbricare una – quanto più coerente e plausibile- “concezione del mondo” (Weltanschauung). Invece «è nello scarto fra due immaginari, quello debilitato e fatiscente del mentale, e quello grafico e rappresentazionale del modello, che prende corpo la terzietà reale del nodo» (pag 162). La materialità reale di corda ha un peso epistemologico che non possiamo fingere di non vedere. Mostra un sapere viscoso, rispetto al quale il soggetto si fa “gabbare” come può, ovvero aderisce come può.

In Cima le impasses ci conducono ad abbandonare l’universalità di un concetto di cui salviamo, per comodità “mentale”- laddove “mentale” indica appunto un apparato retrogrado di imago e simulazione- una onni-applicabilità, per poi virare su una singolarità contingente, preziosa come un quarto anello, di cui viene questionata proprio l’articolazione nei riguardi del nodo e l’effettiva appartenenza. “La sua articolazione unica lo rende idiosincrasico, incommensurabile”, come un’ek-sistenza, come una solitudine. Il quarto anello è la solitudine irredimibile al fondo di ciascuno di noi. Ma che ne era del reale nel primo Lacan? Ha subito un’esclusione (strategica, forse preparatoria): all’insistenza delle domande sul reale, lo psicanalista francese si mostra vago: ”Il reale o è la totalità o è l’istante che svanisce”. Nel tardo Lacan (in particolare nel Seminario XXI, Les non-dupes errent) il reale è ancora- scrive Cima- “ciò che fa muro” sabotando i tentativi di omogeneizzazione e armonizzazione della triade. Quel che esperiamo del reale è che viene schermato da fantasmi. Perché? Per un antagonismo che ci risulta insostenibile, per la sua impossibilità, per la sua (il)logica interna. Il fantasma, schermando, postula l’esistenza del rapporto sessuale. E i nostri fantasmi? Possiamo esserne sedotti, attraversarli, esorcizzarli. Freud e Lacan, anche loro animali parlanti “gabbati” dal raggiro costitutivo del discorso, hanno i loro fantasmi. La fantasia triadica di Lacan che lo attraversa incessantemente come sfondo, come esigenza di un’immediata sincronia di registri, è borromea. Il fantasma di Freud, che Cima ripercorre attraverso le parole di Lacan del Seminario XXVII Il rovescio della psicanalisi è un fantasma edipico, ovvero un “sogno familiare” scaturito da racconti di isteriche. Historiae di isteriche: l’affinità omofonica è, come sempre in Lacan, non casuale.

Lacan, sebbene per primo con la sua paziente Aimée -a cui è ispirata la sua tesi di dottorato “Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità- sia caduto in una narrazione analoga, riconosce già dal 1959 (Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione) che bisogna mettere in crisi il “primato universale del dispositivo edipico” freudiano. Nel V capitolo L’Une-bévue: al di qua e al di là dell’inconscio freudiano Cima ci presenta un’incursione evenemenziale. Posiziona Lacan dapprima con Freud, poi contro Freud, infine contro se stesso (Lacan contro Lacan) in un radicale gesto di autocritica del proprio edificio psicanalitico. Ad ogni impasse corrisponde, nella scrittura di Cima, una scossa, un momento di timore sul procedere del discorso, a cui segue il ri-assetto, il ri-prodursi del posizionamento variante. Lacan si affranca non solo dall’Unbewusst freudiano rinunciando deliberatamente a lapsus, sogni, motti di spirito, ma anche dal primo se stesso che si era reso complice di una visione di inconscio esauribile in toto mediante leggi di rinvio differenziale. Rispetto all’inconscio strutturato come linguaggio, l’inconscio une-bévue (Seminario XXIV, L’insu que sait de l’une bévue s’aile à mourre) ha un carattere evenemenziale di svista ed è ens causa sui.

Cima traccia così due sentieri: la de-istanziazione dell’inconscio (“svista”, “titillazione”, “comparsa”) e l’instaurazione di un materialismo minimale fonematico, che si formula a partire da un ritorno non al Jakobson padre della linguistica strutturale assieme a Saussure, ma al Jakobson poeta, “animale parlante devastato dal linguaggio. Una devastazione che porta sempre con sé un insensato e inemendabile grammo di godimento”. Declassata la linguistica a “linguisterie”, il significante è ora causa materiale di godimento e si situa al livello della “sostanza godente”. Nella “traduzione” di Unbewusst in une-bévue ciò che cade è il senso, ciò che si mantiene è la materialità fonematica dei due significanti. Il ritorno alla “funzione determinante” (il suono determina il senso)- in aggiunta alla funzione senso-discriminante- della parola poetica in Jakobson storna così l’ipotesi di Johnston secondo cui il materialismo del significante non è altro che l’assimilazione lacaniana del materialismo dialettico di Marx. Da qui la pregnanza attribuita al motérealisme- neologismo che gioca sulla materialità del mot- e avverbi come “materielnonment”-piuttosto che “materialmente”- alla lettera “material-non-mente”. Nel movimento di ritorno a Jakobson- un vagare che ha molto dell’Edipo a Colono e reca la stessa insolubilità dell’enigma che segue una scomparsa- risiede un Lacan che è già-oltre l’une-bévue. De-sostanzializzato e de-istanziato l’inconscio, il linguaggio è inesistente, sterile elucubrazione su lalangue. Da lalangue sgorga il significante nuovo come invenzione singolare del soggetto che attinge a piene mani ad un repertorio fonematico materiale, estraendo autentici grumi di godimento: il parlare dell’analizzante è poesia.

Ma quali implicazioni innesta sulla pratica analitica?

Cima vaglia a fondo una nozione oscura per le epistemologie psicanalitiche come l’interpretazione, rimarcando che la psicanalisi non è un “farmaco sociale”; per cui narrare o ricostruire alla luce del senso, così come interpretare alla luce del senso, significa acquistare una merce che porta l’abusato nome di “salute mentale” ed è dispensata dall’analista in qualità di “mercante del benessere”. Il “new deal psicanalitico” dei post-freudiani ha promosso proprio questo tipo di interpretazione, rinserrando un’architettura già consolidata da Freud: l’analizzante è in difetto rispetto a un nucleo in accrescimento continuo ovvero il sapere-potere dell’analista, non-sradicabile dalla sua posizione. Il fantasma familiare freudiano lo ha portato a interpretare alla luce del senso facendosi sedurre dai racconti delle isteriche, ma l’interpretazione non è historia, non è trasposizione in romanzo borghese di un inconscio unicamente transferale (“l’inconscio languido legato agli effetti del transfert”) che mira a soddisfare il dominio intellettuale dell’analista. Riassumendo uno degli snodi principali del libro, “interpretare è sciogliere il senso, non rinserrarlo”. Ne segue logicamente che la ragion pratica della psicanalisi è la divaricazione del sapere, il non nascondimento e lo svelamento della divisione del soggetto. In risposta alla psicanalisi come chiacchiera, “escroquerie” (frode) e “pratique de bavardage” c’è un fatto incontrovertibile: l’azione del significante guarisce.

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