Ritratto della giovane in fiamme - Volgersi orfico

Perché Orfeo si volta? Una domanda che ci ha ossessionato per millenni. Per paura? Per impazienza? La risposta di Céline Sciamma, fulminante e cristallina, perviene allo spettatore racchiusa nel suo Ritratto della giovane in fiamme, di cui è sceneggiatrice e regista.

Alla vita nel suo incessante fluire, nella sua imprendibilità, Orfeo – il poeta che abiura Dioniso –preferisce l’immagine eterna del ricordo, incorruttibile. Come la parola poetica, come una partitura. L’immortalità: questo quanto l’immagine artistica garantisce. E, oltre all’immortalità, un’ambigua presenza in absentia, un riproporre quanto già accaduto, un presentarci quanto distante. Oltre il tempo e lo spazio della contingenza.

Marianne (Noémie Merlant) e Héloïse (Adèle Haenel) si incontrano e conoscono ai confini del mondo, nel tempo e nella geografia propri dell’oblio: un’isola in cui scontare gli ultimi giorni di nubilato, con le orecchie cullate dai flutti marini e lo sguardo verso l’orizzonte, immersi nella luce di un Friedrich (Claire Mathon alla fotografia). Vivono nell’irrealtà di un’immagine pittorica. Dopo le prime battaglie di sguardi, tramutatesi in passione vera e propria quanto era solo tensione incerta, si pone un problema: come eternare quanto necessariamente effimero? L’intensità del sentimento delle due donne è direttamente proporzionale alla paura (fondata) di vedere dissolversi il loro legame. Come Euridice, Héloïse svanirà reclamata da un uomo di cui non conosceremo mai il volto (Ade). 

Per Marianne è di vitale importanza voltarsi appropriatamente. Fare del suo ultimo sguardo lo sguardo definitivo. Sono necessari degli analogon, delle immagini in cui distillare tutto ciò che Marianne ed Héloïse provano l’una per l’altra. Oggetti sintetici di quanto si è detto, di quanto non si potrà dire. Il “Ritratto della giovane in fiamme” – immagine di cui Marianne proibisce l’esposizione alle allieve del suo atelier – è un’immagine tanto potente da essere scaturigine della narrazione di cui il film si sostanzia. Il dito di Héloïse che penetra quel libro, indicando quella pagina (la 28), dettaglio  insignificante per l’osservatore non-iniziato, significa tutto l’amore che non ha mai smesso di provare. O, meno ottimisticamente, che non dimenticherà mai di aver provato. La tempesta de L’estate di Vivaldi non è (più) un brano musicale: ad Héloïse è sufficiente ascoltarlo per sentire Marianne, evocarla dinnanzi a sé, pur non accorgendosi della sua effettiva presenza osservante.

Il Ritratto della giovane in fiamme non è però soltanto un elegia dell’immagine, ma un film d’azione, dove a combattersi sono gli sguardi, i punti di vista. Un “dramma della luce”. Una sorta di thriller dove l’occhio indagatore di Marianne è in lotta con i connotati di Héloïse, inizialmente sfuggenti e imprendibili, la cui cattura è necessaria. Ma l’immagine pittorica non deve sterilmente registrare, ma assorbire il soggetto, vibrare della sua abissalità. Infiammarsi.

Orfeo

Conteso fra Dioniso ed Apollo, Orfeo incarna la loro polarità e la loro commistione, analogamente alla tragedia, dove l’incontenibilità dell’ebbrezza dionisiaca si scarica nella chiarificazione dell’immagine apollinea.[1] L’informe, che per un attimo ha il sapore dell’eternità, confluisce nella forma. Orfeo canta di Dioniso, con i mezzi di Apollo (la parola poetica, la melodia della lira). I significanti apollinei oscurano il significato-Dioniso. Pretendono di comunicare ciò cui si può solo alludere. Ecco che la pacificazione assume i caratteri del rapporto gerarchico, della prevaricazione: sarà proprio Eschilo – il più “ebbro” dei tragediografi pervenutici – a narrare di un Orfeo apostata nelle Bassaridi:

Ed essendo disceso all’Ade a causa della sua donna, e avendo visto come sono le cose di laggiù, Orfeo cessò di onorare Dioniso, mentre considerò come massimo fra gli dèi Helios, che egli chiamò anche Apollo. E svegliandosi di notte verso il mattino, per prima cosa sul monte detto Pangaion attendeva il sorgere del sole, per vedere Helios. Perciò Dioniso, adirato, gli mandò contro le Bassaridi, come dice Eschilo, il poeta tragico: queste lo sbranarono e dispersero le sue membra, ogni parte del corpo separata dalle altre. Le Muse poi, raccolte assieme, le seppellirono nella città chiamata Libetra.[2]

Tra la discesa all’Ade e l’attesa di Helios sul monte Pangaion: in questa parentesi Orfeo si volta. Conosce gli orrori ctonii, e spaventato opta per l’abiura. All’hic et nunc della vita con Euridice preferisce la forma di uno sguardo ultimo e definitivo. Pietrificante.

La polarizzazione verso Helios-Apollo scevererebbe Orfeo della sua ambiguità, ma è proprio la sua morte a ricondurlo ad una violenta pacificazione tra i due dèi gemelli. Come Dioniso venne sbranato dai Titani, Orfeo viene sbranato (per ordine di Dioniso) dalle Bassaridi. Le sue carni dilaniate vengono raccolte dalle Muse, come Apollo raccolse le membra di Dioniso per ricucirle in un corpo. Per (ri)dare forma all’informe. Ma Dioniso continuerà a dissolversi nell’informe, usando ora Orfeo, ora Penteo come corpi sineddotici. E così, ora Apollo ora le Muse, continueranno a riassemblarne i brandelli. Da questa lotta nasce la poesia.

Niccolò Buttigliero

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

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