L’Art brut e il movimento della vera arte
L’arte è per essenza novità. Anche gli sguardi sull’arte devono essere nuovi. Esiste un solo regime sano per la creazione dell’arte: quello della rivoluzione permanente. [...] Quello che ci aspettiamo dall'arte è che ci disorienti, che scosti le porte dai cardini. Che ci riveli aspetti delle cose – e del nostro stesso essere e delle nostre posizioni – fortemente inaspettati, fortemente insoliti. La funzione dell’artista è soprattutto quella dell’inventore.
(J. Dubuffet)
Il termine «estetica» e ciò che esso designa – affermava l’Interrogante nel suo Colloquio con un Giapponese – provengono dal pensiero europeo, dalla filosofia. Perciò il modo di considerare le cose proprie dell’estetica non può che essere sostanzialmente estraneo al pensiero orientale.
Ciò che veniva riconosciuto come «arte europea» in quelle terre lontane era al servizio di ideali religiosi ed era stata a lungo realizzata secondo canoni estetici ben precisi: era il prodotto di specialisti preparati, di maestri della tavolozza che, con materiali nobili e finiture perfette, foggiavano capolavori. Il “prodotto” finale dell’ingegno di pittori e scultori poteva quindi entrare nei musei di tutta l’Europa moderna come opera di alta cultura.
La scoperta dell’arte nei manicomi in Europa provocò una contestazione fondamentale di questa alta cultura, la quale, pur non ispirandosi più a storie e ideali religiosi, continuava a promuovere i valori dominanti dell’élite occidentale. Nei manicomi ebbe luogo un miracoloso piccolo disordine che si oppose inconsapevolmente all’arte culturale: è l’arte dei pazzi e dei carcerati, un’arte incolta, spontanea, grezza, brut, che non si basa su tradizioni comunitarie ed estetiche collettive, ma dà invece forma tangibile a una visione unica e personale che preoccupa solamente chi la fa. Non ci sarebbe bisogno di scrivere una parola in più su quest’arte, «l’art brut c’est l’art brut» – direbbe Dubuffet –, tutti hanno capito benissimo di cosa stiamo parlando: pas besoin de le définir! La tautologia denuncia ironicamente il consenso culturale e sociale per cui «l’arte è arte», che Dubuffet condanna come complotto intellettuale e commerciale. Inoltre, la prepotenza di questa espressione elitaria è aggravata da un’associazione illecita che riduce l’arte alla sola arte culturale. Dubuffet cerca sin da subito di decostruire questa equazione.
Nel testo intitolato L’Art brut préféré aux arts culturels, il significante plurale priva l’arte culturale della sua lettera maiuscola, la mette in prospettiva, in un tentativo di restituire al concetto di Arte il suo movimento e il suo carattere aperto e plurale; accanto all’arte culturale, omologata, protetta e legittimata, si inventa l’Art brut che mette in discussione la nozione di arte in generale.
Art Brut – e non Art obscur: questo il battesimo di Jean Dubuffet:
Con questo termine intendiamo opere eseguite da persone prive di cultura artistica, nelle quali quindi il mimetismo, a differenza di quanto avviene tra gli intellettuali, ha poco o nessun ruolo, per cui i loro autori attingono tutto (soggetti, scelta dei materiali, mezzi di trasposizione, ritmi, stili di scrittura, ecc.) dal proprio retroterra e non dai cliché dell’arte classica o dell’arte alla moda. Siamo di fronte a un’operazione artistica pura e cruda, reinventata in tutte le sue fasi dal suo autore, sulla base dei suoi soli impulsi. Un’arte, quindi, in cui si manifesta la sola funzione dell’invenzione, e non quelle, costanti nell’arte culturale, del camaleonte e della scimmia (J. Dubuffet, L’Art Brut préféré aux arts culturels).
In quella lettera inviata all’amico pittore Auberjonois, Dubuffet distingueva l’art brut da l’art des professionnels proprio perché la prima non può essere mai etichettata, non si dice, ma si fa. Infatti, alla domanda “Che cos’è l’Art Brut?”, un critico non esiterà a rispondere che, se cercassimo la definizione di Art Brut nei testi di Dubuffet, ci troveremmo «face à un trou à la place du sens» (P. Vermeersch, L’Art Brut, c’est l’Art Brut, de tautologie en topologie). Il problema della definizione sarà sempre aperto, dal momento che, come giustamente informa Sarah Lombardi, direttrice della Collection de l’Art Brut a Losanna, l’art brut non è un movimento artistico con un inizio e una fine, e definire un carattere comune di queste produzioni non ha senso perché esse rispondono a un’infinità di posizioni mentali e chiavi di trascrizione, ciascuna avente un proprio statuto inventato dall’autore. Non c’è dubbio che questa invenzione concettuale di Dubuffet conservi, tra le altre, le tracce del lavoro dei surrealisti, in particolare quelle di Raymond Queneau che dieci anni prima aveva riunito i “pazzi letterari” sulla base di identiche preoccupazioni, prefigurando quelle di Dubuffet: «l’autentico folle si manifesta in espressioni mirabili in cui non è mai costretto, o soffocato, da un fine ragionevole. Questa libertà assoluta conferisce all’arte di questi pazienti una grandezza che troviamo con certezza solo nei primitivi» (A. Breton, L’Art des fous, la clé des champs).
Oltre al problema della definizione, persiste la questione del concetto, in quanto con «Art brut» si designano collezioni di opere – la prima delle quali, tra l’altro, è stata creata dallo stesso Dubuffet –: l’Art brut è entrata nei musei, ovvero nella memoria collettiva che tiene traccia di ciò che è stato creato e continuamente si crea, anche fuori dai margini; in realtà, tutte le opere che si trovano nei musei sono state estraniate dal contesto in cui sono nate, esibendole. La Compagnie de l’Art Brut è, in un certo senso, la continuazione del lavoro di collezione di Prinzhorn, ma da una prospettiva diversa, più estetica e ancora più teorica: Prinzhorn stesso non parlava delle differenze tra il normale e il patologico, ma era interessato unicamente a ciò che è in gioco nella realizzazione dell’opera.
Occorre a questo punto distogliere l’attenzione dagli “scarabocchi” dei pazzi, “disegni di bambini” “che posso fare anch’io” e dirottarla verso le opere teoriche di Dubuffet, dove si possono approfondire le intenzioni che muovevano l’artista nel processo di cristallizzazione della propria visione dell’arte.
I titoli delle opere sono già molto eloquenti: L’Art Brut préféré aux arts culturels [1949], Positions anticulturelles [1951], Asphyxiante culture [1968]. Il problema principale che Dubuffet affronta è la crisi della cultura occidentale, la solidificazione del suo discorso in linguaggio accademico.
Come si è già detto, non è il fattore patologico che interessa a Dubuffet; il suo obiettivo non è nemmeno quello di resuscitare l’associazione romantica tra arte e follia – «la funzione dell’arte è in tutti i casi la stessa e non c’è più arte dei pazzi che arte dei dispeptici o di chi ha disturbi alle ginocchia» (J. Dubuffet, L’Art Brut préféré aux arts culturels) –, o ancor peggio un’arte che si lascia creare e sopraffare da emozioni o altre bassezze: l’intento di Dubuffet è quello di riconoscere l’esistenza di un movimento di una continua creazione pura. E se Dubuffet difende la “creatività” dei malati di mente lo fa per porsi contro la cultura ufficiale, contro la cultura borghese di inizio secolo, contro le accademie di belle arti che sono diventate una fabbrica di emozioni sovvenzionata e protetta dai governi, contro gli artisti professionisti che avevano perso il patrocinio delle corti ed erano diventati, parafrasando Nietzsche, astuti adulatori della borghesia ricca: questo tipo di cultura «è un abito che non va, che comunque non ci va più. Questa cultura è come una lingua morta che non ha più niente in comune col parlare corrente. È sempre più estranea alla vera vita. È confinata in conventicole morte, come una cultura da mandarini. Non ha più radici vive» (J. Dubuffet, Piccolo manifesto per gli amatori d’ogni genere). Il tema qui sollevato dall’artista non è certo nuovo: tutte le avanguardie artistiche hanno avuto come obiettivo il superamento delle norme accademiche (segnaliamo nuovamente che Dubuffet ha iniziato con il Surrealismo); ne hanno discusso, tra gli altri, anche diversi amici di Dubuffet come Antonin Artaud e Jean Paulhan.
Lo sguardo di Dubuffet volge nella fattispecie verso il problema del linguaggio artistico – come sistema rigido che determina il corso, la qualità e le categorie di pensiero – che finisce il processo di creazione: «Possiamo infatti chiederci con Jean Dubuffet se la cultura, in quanto sistema omeostatico, non ci rinchiuda in una prigione di segni» (M. Thévoz, L’art comme malentendu). Dubuffet presta grande attenzione al problema del concetto di «linguaggio dell’arte», il cui riferimento permette all’artista di giustificare la sua concezione di “vera” arte. Toccando questo tema, Dubuffet si inserisce volutamente nell’ampio discorso filosofico sulla struttura del linguaggio che si stava attivamente sviluppando in Francia negli anni ‘50 e ‘60; e se l’artista non usa tutta la terminologia dello strutturalismo in senso letterale, recupera uno dei concetti fondamentali della teoria, quello di langage, proponendo come alternativa il linguaggio dell’arte, considerandolo non come la capacità di utilizzare un sistema semiotico o un altro, ma come il processo dell’attività vitale, un complesso di caratteristiche mentali e fisiologiche umane: «L’arte è linguaggio: strumento di conoscenza e strumento di comunicazione» (J. Dubuffet, Positions anticulturelles). In quanto strumento di comunicazione, ne consegue che tutti hanno la capacità e il diritto di esprimersi “artisticamente” e che tutti gli individui sono uguali in questa “attività” – «tutti sono pittori. Dipingere è come parlare o camminare. Per l’essere umano fare schizzi su qualunque superficie capiti sotto mano, scarabocchiare qualche immagine, è naturale come parlare» (J. Dubuffet, Positions anticulturelles).
Sebbene questa affermazione non sia certo priva di ambiguità e di ironia, evidenzia chiaramente l’atteggiamento di Dubuffet nei confronti delle nozioni classiche della cultura occidentale, quale quella di “unicità” di questo o quell’artista, ad esempio, che lo eleva al di sopra degli altri. Anche Umberto Eco mette in evidenza questa peculiarità: «[…] mentre chiunque parla non ci appare per questo particolarmente dotato, chi sa disegnare ci appare invece già “diverso” dagli altri, perché riconosciamo in lui la capacità di articolare elementi di un codice che non appartiene a tutto il gruppo; e gli riconosciamo una autonomia, rispetto ai sistemi di norme, che non riconosciamo invece a nessun parlante, salvo al poeta. Chi disegna appare come un tecnico dell’idioletto, perché anche se sta usando un codice che tutti riconosciamo, vi introduce più originalità, varianti facoltative, elementi di “stile” individuale, di quanto non vi introduca un parlante nella propria lingua» (U. Eco, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale). Il problema dell’arte, tuttavia, rimane; ciò che dovrebbe designare la specificità dell’individuo è uniformato a norme già stabilite: «Si ha l’impressione che una vasta osmosi, un mimetismo che si diffonde su tutta la terra, abbia uniformato fin dall’antichità le modalità di espressione» (J. Dubuffet, Bâtons rompus).
L’artista senza disturbi mentali pare sia in grado di staccarsi dalla sua opera, di allontanarsi da essa, di analizzarla e infine di commercializzarla; l’idioma dell’artista brut è così individuale, così incomprensibile per chi lo circonda, che, paradossalmente, è privo del suo ruolo comunicativo, poiché non può essere letto dallo spettatore. È un tipo di comunicazione chiusa in se stessa, unica e molteplice allo stesso tempo, è un’opera in costruzione permanente il cui processo si rivela più importante di ciò che si vuole comunicare. Prendiamo l’esempio di un disegno di Aloïse Corbaz o di Adolf Wölfli, entrambi scoperti da Dubuffet nell’immediato dopoguerra: il foglio è riempito di forme, figure, simboli, non vi è posto per il vuoto. Uno schizofrenico non sopporta il vuoto, il disegno si sviluppa all’infinito e quando il malato disegna, è nel suo disegno. Emerge continuamente e quindi non può separarsi dalla sua creazione che gli appartiene perché non è mai finita. Ed è in questo processo di essere nella propria creazione che si dà l’arte, senza bisogno di essere nominata o comunicata.
La reiterata ricostruzione dell’arte in un infinito movimento verso se stessa: è questo ciò che interessava alla psichiatria, da Prinzhorn a Oury, e a Dubuffet: l’opera come genesi continua, come un movimento e una creazione rinnovati. In ciò sta la superiorità, «il folle si differenzia dall’artista perché non comunica» (M. Thévoz, Le langage de la rupture). La difficoltà della cultura nell’accettare quest’arte come arte sta nel fatto che il suo linguaggio non è aperto e accessibile alla comunicazione e, come sottolinea ancora Eco, l’artista «può comunicare qualcosa solo se si appoggia a un sistema di comunicazione linguistica già esistente» (U. Eco, La struttura assente). L’opera pazza, invece, instaura un codice linguistico autonomo che non può comunicare a nessuno se non a se stessa: è un evento eccezionale che si crea nel luogo dove è chiamata a prodursi, un evento ancora a venire che sfugge a ogni parola, a ogni realtà, che obbedisce solo al capriccio della mano, fino a negare l’imperativo della fedeltà all’oggetto imitato. È il trionfo sterile del fare.
La vera arte è sempre dove non la si aspetta. Dove nessuno ci pensa o pronuncia il suo nome. L’arte odia essere riconosciuta e accolta con il suo nome. Scappa immediatamente. L’arte è un personaggio appassionatamente innamorato dell’incognito. Appena viene individuata, appena qualcuno le punta il dito, scappa via, lasciando al suo posto un laureato che porta sulla schiena un grande cartello con la parola ARTE, che tutti subito spruzzano di champagne e che i docenti portano in giro di città in città con un anello al naso (J. Dubuffet, L’Art Brut préféré aux arts culturels).