Meglio morire di vodka che di tedio
Didascalia e oggetto. Intenzione e immagine sarebbe meglio. Che lo sposalizio tra i due si sia risolto in una duplice tirannide tristemente domestica – intellettualismo della presentazione e cosmesi del prodotto – è noto a quei testardi frequentatori delle gallerie verniciate da bollicine e baci sulla guancia, a quegli scomodi indomiti nella penombra in attesa, chissà di cosa poi: forse di quella vampa squarciata che ha il vecchio nome di Arte (ma ce n’è così troppa ormai, si ripete; lo sbaglio è al di qua, in fondo. Risparmiarsi l’errore è ancora uno sperare?).
La didascalia non solo sarebbe inutile, se la fiducia nell’estetica riuscisse ad assumerla con serietà come criterio di verità, d’intercetta nelle ombre del reale degne di farsi chiazze di sole sull’altare del mondo, ma un nulla omesso per convinzione; e si avrebbe la suprema arroganza – che resta il metro più fedele del genio – o un elogio dell’accidentalità: la potenza evocativa dell’immagine, idolo chirurgico di un sentimento esatto, si guadagnerebbe la strada della legittimazione, non invocherebbe per bisogno la teoresi, ché allora sarebbe comunque in ritardo e nient'altro che semplice ostacolo all'evento. Si respirerebbe il sangue nell’aria; ma i cuori che scottano, nei templi del secolo, si contano sulle unghie. E qui non sono stati.
Ci sarebbe anche la sacra tentazione, l’etico miraggio dell’intuizione artistica come riflesso del pensiero, di una disposizione significante nell’ordine delle idee, e da qui, a seguirla, l’adeguata cascata dei sensi, delle visioni, degli stordimenti. Dare la spada all’intenzione come momento primo pone immediatamente un quesito: il fiato scucito al diaframma – e il tempo estorto agli astanti – vuole realizzare soltanto l’obiettivo prefisso (esercizio) o ha l’ambizione del situarsi, del porre uno spillo nello spirito del tempo? Siccome non è auspicabile un’arte evirata nel capriccio, una lirica da infanti bisognosi, un romanticismo di psiche grondanti – eppure, eppure! – la logica vorrebbe lo sforzo, lo studio, la soppressione, la critica a priori – eppure, eppure! “Un altro tempo ha altre vite da vivere”: indicare degli uomini che siano più che istanti, prego. E comunque, la chimera della boria, dell’opera fortuita e azzeccata potrebbe trovare qui i propri inginocchiati accoliti: ma risparmiateci, vi preghiamo in punta di lingua, i cilici della vostra originale ebrezza, l’erotismo sgangherato dei concetti nuovi!
Arte intellettuale? Puah! Ma è la ragione a costruirsi degli alibi per la sua insufficienza, e uno spirito monco trova sempre le protesi nelle epoche votate alla materia: il concetto si estetizza. Ma come? Frutto della volontà – idea strabiliante, la mia: arriverà nel mondo! –, quest’operazione dovrebbe porsi per lo meno il dubbio della sua estrinsecazione, di un giusto dispiegarsi nella sensibilità e, proseguendo, di una ricezione. L'abbandono dell'identificazione tra intuizione ed espressione rende obbligata questa conclusione. Se una sensibilità profonda produce rivelazioni efficaci, l’arte è infatti una questione di grado, il bello è faccenda esclusiva; e, se così fosse, ci sarebbero molti più uomini sani che artisti falliti, amen! Il rovescio implica, in seno all’artista, una precisa disposizione intenzionale. Quando è negletta, ecco allora quel torpore che qualsiasi uomo liberato dall’ansia delle strette di mano riconoscerebbe in sé stesso di fronte ai feticci d’arte contemporanea. Qui l’abisso didascalico compie la sua funzione mefitica: non forzare i cancelli della fantasia, è già tutto scritto, illustrato, ça suffit! È cosi facile il disprezzo della tecnica. Ma se l’intenzione troneggia, spesso non ce n’è mai abbastanza – cari maestri, portateli tutti a bottega per lustri, per eoni interi! E, quando l’immagine strepita, è ormai lo sfondo a prevalere, lo sfarfallio, il costume, la cipria – ah, insegnate loro anche la figura, cosa dico: la donna, l’uomo, il bambino! Per quel che vale.
Così il problema della sensibilità rimane nondimeno un dilemma di piacere. Non sarà l’armonia a salvarci, ma neppure il fastidio, la percezione violentata, i disgustati sensi: nessuno ascolta la musica per perforarsi il timpano, se mai per offenderlo. E non si tratta nemmeno di un servizio. L’estetica non dovrebbe prostrarsi all’etica; tuttavia, per chiunque raccomandi questa facile angheria, rimarrebbe ancora un affanno: la responsabilità del pubblico, l’efficacia del messaggio – e quindi del mezzo –, in fin dei conti un’ansia da chioccia, cioè la cura oltre la ricezione, nell’interpretazione, un metabolismo delle menti. Guai a voler ecologizzare le anime. Preoccuparsi del gusto, della reazione, porsi cioè dentro un quadro ermeneutico relazionale, significa però anche, tra le tante cose, assumersi una critica del pubblico: è possibile l’apprensione o l’attuazione (nel caso dell’artista) di un’immagine senza consapevolezza? Se l’esattezza dell’intuizione, nel quid dell’arte, non è assunta, in quale senso ciò che si esperisce è ciò che è necessario portare alla coscienza? Se l’arte, dunque, può essere inattuale – non nel senso di un contenuto eterno, la vera arte lo esige sempre – e perciò fuori luogo e fuori tempo, come giustificare il plauso di fronte al successo infondato, ossia l’evenemenzialità di un’opera che riesce senza (cor)rispondere? Se l’oggetto artistico può ridurre il suo senso alla saldatura completa di didascalia e oggetto, e al contempo evitare il dovere etico dell’opera, cosa dire nel caso in cui quella giuntura, per quanto perfetta, ha come effetto nel pubblico una reazione che ne contraddice il contenuto?
Bene. Torino, Teatro Astra, 26 ottobre 2023. Il Terzo Reich di Romeo Castellucci. Svariati e avariati minuti in cui l’intero elenco dei sostantivi italiani è sparaflashato a velocità supersonica con tanto di musica assordante – tappi forniti all’entrata, della serie: soffrirete – e entrée di performance servita con salsa di microfono aperto su vestito gracchiante, contorno di strusciamenti al suolo e candela flambée per illuminare l’azione e impiattare la metafora. Tema: “Lo spettatore, esposto a questo trattamento, subisce la parola umana sotto l’aspetto della quantità”; “Il Terzo Reich è l’immagine di una comunicazione inculcata e obbligatoria, la cui violenza è pari alla pretesa di uguaglianza. Qui, il linguaggio-macchina esaurisce interi ambiti di realtà, là dove i nomi appaiono uguali nella loro serialità meccanica, come fossero i blocchi edilizi di una conoscenza che non lascia scampo”. Che se qualcuno, in preda all’amor di conoscenza, leggesse a caso il dizionario per trovarci dei blocchi utili a ‘costruirsi’ una cultura, già sarebbe granché di questi tempi. Ma il punto è: cosa si è visto?
Partiamo dal lato dell’intenzione. Innanzitutto qualcosa di trito e nitrito: la critica al regno della quantità è vecchia almeno quanto una nonna che rimprovera di aver preso venti pomodori a caso invece di cinque ‘bboni’. Aggiungiamo un po’ di “linguaggio-macchina”, perché tanto l’IA va di moda, e un po’ di spicciolo impeto luddista, che comunque la “serialità” e il capitalismo selvaggio ogni tanto bisogna offenderli. Il focus è sulla propaganda? Che il panorama mediatico italiano lasci a desiderare lo sanno perfino i muri (certo, però, che farlo capire ai muri… ma non sarà che invece sono bravi ‘sti giornalisti?). C’è poi da dire che lo stesso ammiccamento del titolo al regime nazista non sta in piedi. Nulla dell’incredibile forza della ‘macchina’ nazional-socialista sarebbe stato infatti possibile senza l’indiscutibile genio comunicativo di Goebbels: un’impresa del genere non può compiersi se l’amorfo campo nominale di una lingua non è animato da uno spirito vivificatore, sintetico, orientato, tale da realizzare nel linguaggio un’opera sintropica di “scelta o discernimento” – per quanto, in questo caso, nell’orizzonte dell’orrore. È chiaro, quindi, che il grattacapo della propaganda è in ricezione, nel popolo, nelle ‘maggioranza silenziose’, poiché sarebbe totalitario impedire a spiriti così competentemente dotati di elevarsi nel gotha mediatico. A meno che non se ne faccia una questione di educazione morale, sia nei confronti di questi ultimi che nei confronti di una massa “aggredita militarmente dalle parole”, verso la quale è inoltre ovviamente implicita una necessità di alfabetizzazione cognitiva. Apro parentesi. Ma siamo sicuri, oltre tutto, che questa “pretesa di uguaglianza” sia riflessa nel cittadino medio? Non è piuttosto l’eccessiva segregazione delle bolle informative e dunque del vocabolario, segni dell’irriducibile libertà umana alla preferenza e al santissimo pregiudizio, a costituire un sintomo trattabile sì da un’indiscutibile educazione critico-organica, ma principalmente da un mero ampliamento, in un accesso espanso, infine, nella quantità? – “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo.” Chiusa parentesi. Di conseguenza, non si può evitare di ricondurre una tale intenzione artistica nel campo dell’etica (tenere a mente); e il fare del Terzo Reich l’emblema di tutto questo è utile soltanto a trascurare quanto di ricorrente e attuale ci sia nei rischi di un problema così reale. Non mi sembra che, dal lato dell’intenzione, emerga tanto altro, sia nella didascalia sia nel suo minimale adattamento sensibile. Si potrebbe segnalare un sadico desiderio di giocare con la “capacità retinica e mnestica” dello spettatore. Non si dovrebbe perdere troppo tempo a segnalare l’inutilità di indurre qualcuno a sognarsi di notte un ‘pellicano’ letto “nel baleno di un ventesimo di secondo”; e se invece fosse il caso di ‘torturatore’, ‘stupratore’, ‘duce’, ‘tirannosauro’? Immagino che l’obiettivo educativo ne uscirebbe certamente favorito. Il mondo onirico sia una diga sacra: l’arte non è una dream-machine.
Passiamo alla riva dell’immagine. “Si tratta di comprimere lo sguardo sul punto critico di fusione, poco prima della perdita dell’aggancio percettivo, nello sfarfallamento che sfugge alla netta distinzione dei singoli termini. Il frenetico e liminale susseguirsi delle parole fa sì che alcune di esse rimangano impresse nella corteccia visiva di ciascun spettatore; altre – la maggioranza – andranno perse”. Nei pochi minuti consumati in quel teatro (leggasi camera di tortura), l’unico punto critico di fusione raggiunto è stato quello tra traduzione plastica e fastidio nervoso, forse una delle esperienze più pericolose per le fibre mieliniche eccettuati i dieci giorni di silenzio di un ritiro Vipassana (consigliato a tutti, artisti, pubblico e lettori). Come dimenticare! L’altezza sonora del martello pneumatico nelle meningi che variava con la lunghezza delle parole: sublime, “apodittico”! L’unico elemento non conforme è stata “l’azione simbolica di ‘accensione del linguaggio”, palesemente una trovata per ficcare un po’ di corpo affinché lo ‘spettacolo’ non fosse fin da subito additabile come un’esposizione da ultima saletta a destra di un museo qualsiasi di idolatria coeva (come finirà per accadere, si spera per il minor tempo possibile); e, a volerla dire tutta e maliziosamente, un misero escamotage per fare sì che il prodotto in questione occupi una programmazione in sala – tanto la produzione, oh magnetismo venale della fama, è Societas, è Castellucci –, togliendo, nel pratico, la possibilità di guardare qualcosa di veramente sorprendente e, perché no, di anonimo e visionario. Ma l’autentico svarione selvaggio consiste nel credere che la Parola possa essere incendiata da qualcuno, e in tale ridicola e oleografica maniera. Tutti i Suoi sacerdoti sono servi opachi. Rammentare: “Tutto ciò che vedete è fuoco congelato in transito tra fuoco e fuoco”.
A voler mettere insieme queste due riviere, intenzione e immagine, didascalia e oggetto, cosa si ha?
La supremazia dell’estetica è qui negata, altrimenti avremmo di certo meno parole. E la cosmetica usuale, pappa reale di buona parte del teatro contemporaneo, è qui ridotta a mera spettacolarità, con plateale scopo terroristico (tenere a mente) a fin di intenzione, dunque fallita. L’elucubrazione speculativa è invece carente, inopportuna e, quantunque fosse attuale, affondata da un’incapacità immaginativa risolta in una trasposizione archetipicamente faziosa e retoricamente fallace. “Il nucleo del linguaggio ritorna al rumore bianco, che riporta al caos”: sfondo, appiattimento bidimensionale, uniformità; dov’è lo sbalzo, la figura che scardina in brividi la pelle? Viene voglia di dubitare, inoltre, che l’opera possa servire, ovvero che serva qualcosa. Dal programma del Festival delle Colline Torinesi: il tema è confini-sconfinamenti, con l’attenzione rivolta “anche alle contaminazioni linguistiche tra arte e teatro”. Più che al servizio dello spirito dei tempi, di una critica, sembra un esercizio, dove la coerenza interna tra didascalia e oggetto sia tautologicamente funzionale al riempire all’occorrenza una casella nel milieu delle rassegne culturali; e pertanto, se non un’operazione di mercato, un’attività di convenienza, al servizio specifico della logica ‘bandistica’ del circuito artistico odierno, aggravata dalla concussione del Nome. La coesione di questo nesso, poi, arriva a incidere nel solco dell’esibizione d’intenti? Ovvero: ammesso che non siamo di fronte all’ennesimo trastullo formale di un’arte concettuale ormai logora e impotente, si può affermare che il riverbero di una tale azione artistica produca la risposta emotiva o il mutamento coscienziale in grado di scrostare il denunciato stato di cose presenti?
E qui si è costretti a lasciar trasparire il vizio più pesante, che si agita a prescindere da una dottrina dell’estetica. Il Terzo Reich, infatti, non va al di là di una retorica artistica maggioritaria avente il suo fulcro nella categoria della rappresentazione e che fa del Potere – e delle polarità prodotte: Oppresso/Oppressore, Padrone/Servo, Sovrastruttura/Struttura, Stato/Popolo, Autore/Pubblico, Idea/Teatro, Linguaggio/Vita – un’istanza assiderante. Indicare il potere, rappresentando i conflitti in un parmenideo essere che non può non essere, significa incastrarli in una norma, avvolgere l’universale drammaticità di ogni contraddizione tra individuo e società (tra diversi individui, tra diverse società) in un’algida contrapposizione svuotata di dinamicità, di variazione, di scivolamento. Lo spettatore è qui sottoposto a un “trattamento”, dove “i nomi del vocabolario così proiettati, sono le bandiere piantate in una terra di conquista”. Riproducendo, in questa precisa forma estetica, un motivo di oppressione, Castellucci fa del pubblico l’ennesimo oggetto di esperienza di un sottinteso potere dell’arte, adespota per definizione. Sottoposto all’“affastellarsi frenetico delle nominazioni” in cui “ogni pausa è abolita, occupata”, il pubblico è coagulato in nome, bruta sostanza solidificata e espropriata dal suo Verbo, irriducibile fonte in minore di libertà e movimento: innalzato, denudato il potere della Massa, l’atomo di Potere è immolato.
Lì, allora, nel buio, nella penombra, cosa c’era? Gambe ferme, minuti immobili, durata interrotta. Gli spettatori, presunti destinatari di un messaggio di avvertimento, di accortezza, di liberazione, hanno subito e forse per osmosi riprodotto in sé stessi – ineducati o ineducabili? – l’attesa sterile di un’escatologia senza storia. Se si avesse avuta l’arditezza di stupire attraverso un dispositivo relazionale, tuttavia pur sempre meccanismo, si sarebbe potuta introdurre la possibilità – questa sì miracolosa – di un’interruzione dell’imperante e impersonale quantità tramite una testimonianza incarnata di qualità. Pensiero stupendo, banale esempio: se dieci persone lasciano la sala, la proiezione termina. E sarebbe il minimo. Di fronte a una tale insopportabile cacofonia, il pallottoliere degli enigmi ha segnato la quasi totalità degli astanti rimasti fino alla fine dei 50 minuti (sì, avete letto bene). Si capisce quindi come una critica del pubblico emerga naturalmente. Se l’intenzione era quella di sensibilizzare all’oppressione, quale ironico destino li ha inchiodati ad attendere l’evento, la suprema speranza nella fine, a librarsi nell’empireo del compiacimento tramite l’applauso alla propria prigionia, a schivare l’oggettivo e impellente realismo di un libero atto di evasione innanzi alla barbarie più evidente?
Infine, la critica al critico: cosa dovrebbe fare un povero uomo fremente, folgorato dalla lucidità di un fatto puro e tremendo, invece di consegnarsi alla trasparenza pubblica della fuga verso l’annunciato ludibrio di prosecco a gratis, appena fuori dalla porta, e servito da avvenenti donzelle? Se l’ambizione di un’opera è quella di farsi antica, di essere storicizzata, allora il miglior disprezzo sarebbe tacere. Oh suprema serietà, perdono! Non ho la forza del silenzio che insegna. Forse un critico dovrebbe mostrare l’ombra della fiamma, la cera sporca sotto la malva, e impiccare il trucco urlando lo stoppino. Ma io non ho la pazienza. E, come già fu detto, preferisco morire di vodka che di tedio.