38 TFF – Botox, di Kaveh Mazaheri (Torino 38)
Akram e Azar sono sorelle. Entrambe mentono sulla scomparsa del fratello raccontando a tutti che è fuggito in Germania. Con il tempo la bugia diventa sempre più ingestibile, arrivando a condurre le protagoniste in luoghi oscuri e misteriosi.
Nazione: Iran, Canada; Anno: 2020; Durata: 97'
Notte, pioggia scrosciante. Immersa in un’oscurità tutt’altro che confortevole, Akram (Sussan Parvar) è ipnotizzata da un episodio di Wile E. Coyote and the Road Runner. Non sembra divertirsi particolarmente, anzi.
Con una singola inquadratura, quella di apertura, Kaveh Mazaheri è capace sintetizzare e preconizzare gli aspetti fondamentali di Botox. Attraverso Wile E. Coyete è introdotta quella commistione tra violenza brutale e comicità che si rivelerà essere componente essenziale di una slapstick comedy sui generis. Mazaheri rinuncia sia ad un’esuberanza stilistica orientata ad una spettacolarizzazione degli eventi sfacciatamente intrattenente, sia ad un’invisibilità del decoupage à la Hawks (crf. Bringing up Baby, 1938; His Girl Friday, 1940). Opta piuttosto per un’impostazione fotografica marcatamente artificiosa, in cui le forme e i tempi dei piani (spesso autonomi) si irrigidiscono marmoreamente. Una fotografia (a cura di Hamed Hosseini Sangari) freddissima, geometrizzante; spesso -nella misura in cui mai enfatizza emozionalmente ciò che riferisce- insensibile al suo referente. Una relazione discrasica -quella tra il soggetto guardante e l’oggetto del suo interesse- già in nuce nel modo in cui Akram si pone nei confronti dei Looney Tunes, prefigurazione cartoonesca della tragicommedia di cui sarà protagonista.
Akram rimane in piedi, statuariamente impassibile alla caccia agonica di Wile, finché una voce maschile la richiama a sé con violenza. Si tratta di Emad (Soroush Saeidi), suo fratello. Un uomo la cui tracotanza e imbecillità, copulando, generano frasi come «se devo finire in galera, preferisco fare le cose in grande». Il suo piano (allucinato) consiste nell’istituire un racket che gestisca coltivazione e spaccio di funghi (allucinogeni). L’unico imprevisto che non calcola è la rabbia di Akram, una donna autistica che da anni sopporta ogni sopruso e carenza affettiva, covando interiormente una forza distruttiva indicibile. Akram esplode quando meno ce lo si aspetta, scaraventando giù Emad dal tetto della serra in costruzione con un poderosissimo calcio. Azione che è inevitabile percepire come pacifica e sostanzialmente ininfluente rispetto agli equilibri familiari, e questo per via della soluzione registica adottata. Mazaheri gira il brutale omicidio impiegando un campo lunghissimo che ironizza visualmente su ciò che riferisce. Esso privilegia le linee oblique della tettoia alle figure umane, il colore bianco e asettico della neve a quello del sangue. L’improvvisa dipartita di Emad per mano di Akram, un fratricidio improvviso, frutto di un processo di incubazione (lo possiamo immaginare) decennale, non merita la benchè compartecipazione emotiva. E, di conseguenza, neanche che un’inquadratura gli venga specificamente riservata. Neanche Azar (Mahdokht Molaei), l’altra sorella, si scompone più di tanto scoprendo quanto accaduto. Si rammarica piuttosto dello stendino che quello sbadato di Emad ha distrutto sfracellandosi al suolo. D’altronde, parafrasandolo, «se bisogna comprare un nuovo stendino, tanto vale fare le cose in grande».
A differenza di Akram, però, si preoccupa di come risolvere logisticamente l’inconveniente. Mentre Emad esala i suoi ultimi, pesantissimi respiri, Azar dà indicazioni alla sorella su come avvolgerlo nel telo in cui verrà sepolto.
Akram e Azar sono killer inerziali. La prima agisce in balia di una psiche incapace di assimilare le violenze cui è sottoposta; la seconda in quanto sorella della prima e perché, tutto sommato, accetta di buon grado il massacro delle carni fraterne. Laddove gli incompetenti Carl Showalter (Steve Buscemi) e Gaear Grimsrud (Peter Stormare) di Fargo (dir. J. Coen, 1996) erano assassini di professione, Akram e Azar sono inaspettatamente professionali nel loro essere assassine per sbaglio. Con i Coen Bros. Mazaheri condivide quello sguardo costantemente ironico, de-mitizzante, che caratterizza tutto il loro cinema. Con i protagonisti di Fargo, invece, Akram e Azar condividono, curiosamente, il gelo di un mondo perennemente innevato, in cui gli omicidi sono (soprattutto) goffe e mediocri messinscene.