Brandon Cronenberg si esibisce in un’intervista
Nell’intervista qui tradotta, Brandon Cronenberg racconta “Possessor”, il suo ultimo film. Esaminando il modo in cui le grandi forze del nostro tempo, quali la tecnologia, i social, la pandemia, si infiltrano nel mondo del cinema, il regista affronta la sua complessa visione dell’esistenza: c’è un modo per smettere di esibirsi ed essere davvero noi stessi o tutto è una performance?
Intervista a cura di Jason Zinoman originariamente apparsa il 13 ottobre 2020 su NYtimes: https://www.nytimes.com/2020/10/13/movies/brandon-cronenberg-possessor.html?auth=linked-google
A cura e traduzione di Arianna Locatello
Il regista del provocatorio Possessor sostiene che nessuno di noi è mai veramente se stesso: «C'è una performance interna che ci coinvolge tutti.»
L’elegante nuovo film horror Possessor parla di una società che dirotta i corpi e le menti delle persone per scambiane il corpo con quello di un assassino che ne ucciderà altri prima di suicidarsi. Suona stravagante? Ditelo al regista, Brandon Cronenberg, e lui vi racconterà la storia di forze armate private e delle neuroscienze che stanno dietro al controllo della mente. La tecnologia è in anticipo sui tempi, mi assicura, ma è ancora radicata nel mondo reale.
Parlando tramite Zoom dalla sua casa di Toronto, Cronenberg, che ha ricevuto ottime recensioni per il film, il secondo dopo Antiviral del 2013, ha detto di aver ambientato il suo film (nelle sale ora) nel recente passato perché era meno interessato a prevedere il futuro che ad illuminare ciò che la tecnologia ci sta facendo oggi. L’uso della violenza macabra da parte di Cronenberg e la sua attenzione provocatoria e indagatrice rivolta alle relazioni tra mente e corpo, così come al sesso e la violenza, si sono guadagnati il confronto con i film di suo padre, David.
Nel corso della conversazione sembra disinteressato a parlare del suo lignaggio horror, anche se il suo approccio intellettuale al pubblico invita a farlo. Alla domanda sul perché i fan trovino bello il sangue versato, Cronenberg ha risposto che il liquido rosso viscoso rende le immagini sorprendenti, aggiungendo: «Può anche essere metaforicamente commovente, portare fuori ciò che è dentro di noi e farne arte». Ecco alcuni estratti della nostra conversazione.
Jason Zinoman: Hai fatto uscire un film dell’orrore durante una pandemia. Il Covid-19 cambierà ciò che spaventa la gente?
Brandon Cronenberg: Certamente una generazione ne sarà terrorizzata. Ci sarà assolutamente un’ondata di film sui virus. Mi chiedo se la gente vorrà vederli. Forse dobbiamo avvicinarci alla realtà della vita virale da un livello più metaforico e far sì che qualcosa si sostituisca al virus. Perché di solito, ovviamente, il virus negli horror rappresenta qualcos’altro, una metafora per altre paure.
JZ: Quindi la pandemia cambia i film pandemici perché i virus non possono essere altro che intesi letteralmente?
BC: Non si può prendere come una metafora. È solo la realtà. È come prendere la colazione come una metafora.
JZ: Possessor, un film su corpi infiltrati e costretti ad uccidersi, è una metafora della nostra democrazia?
BC: Assolutamente sì. Se si guarda all’interferenza russa nelle elezioni americane, siamo tutti veramente hackerabili in questo momento. Siamo tutti aperti a un’influenza invisibile in un modo che prima suonava come una teoria cospirazionista, ma ora suona come una verità. Le fughe di notizie di Snowden sono avvenute all’inizio dello sviluppo del copione. Questa è stata la radice di molta della satira tecnologica [in Possessor], ma è stata declinata rispetto al controllo comportamentale. Questo è il nostro prossimo grande problema: i modi più invisibili in cui la tecnologia sta plasmando la società attraverso i social media.
JZ: È per questo che non sei più sui social?
BC: Non mi piace il panorama psicologico dei social. Non mi piace chi sono e non mi piace chi sono i miei amici. Trovo che queste persone che amo assolutamente diventino dei completi alieni sui social. È solo la pressione di quella struttura comunicativa.
JZ: La tua protagonista, Tasya Vos (interpretata in modo agghiacciante da Andrea Riseborough), è un’assassina che sembra molto più a suo agio nella pelle delle altre persone rispetto alla sua.
BC: Il film nasce in maniera molto personale. Mi interessa molto il modo in cui ci esibiamo per noi stessi e il rapporto tra la percezione di sé e la performance. E il film affonda le sue radici nella mia banale esplorazione di queste cose, nei momenti in cui mi sento disconnesso dalla mia vita o devo interpretare un personaggio, che penso siano esperienze comuni che dicono molto su cosa significhi essere persone.
JZ: Vos, una donna bianca, entra nei corpi di una donna nera e di un uomo bianco. Perché questi corpi?
BC: In una prima versione, Vos era un uomo. Facevo corrispondere le mie esperienze fallimentari ad un personaggio maschile. Alcune cose sono cambiate. Avevo già creato un protagonista maschile [in Antiviral] e tutti abbiamo visto film su mariti che hanno visto troppo sul posto di lavoro per relazionarsi con la famiglia. Abbiamo visto Hurt Locker. Il contrasto tra i corpi era più interessante. Improvvisamente si sta esplorando il genere. Il che è più intrinsecamente interessante se lei ha un pene.
JZ: Hai detto che il tour di interviste per la stampa del tuo primo film hanno ispirato questo.
BC: Quando si viaggia con un film per la prima volta, è incredibilmente surreale. Stai costruendo questo personaggio e interpreti questa versione di te stesso che diventa un sé mediatico che senza di te ha una sua vita bizzarra.
JZ: Qual è il rapporto tra te che mi parli in questo momento e chi sei?
BC: Un’intervista è un’interazione incredibilmente artificiale e strana. Non mi interessano le interviste, ma ovviamente nessuno di noi due si sta comportando come persone in questo momento. Non parleremmo così se ci incontrassimo in un bar. Ci stiamo esibendo. D’altra parte, non credo che sotto la superficie si possa mai arrivare al punto di essere davvero se stessi. C’è una performance interna per cui tutti noi ci impegniamo quotidianamente e una performance per gli altri. Né l’uno né l’altro sono reali. È tutta una performance.
JZ: Se la vita è tutta una performance, significa che non si tratta tanto di cercare chi sei quanto di scoprire il personaggio adatto?
BC: Credo di sì. Penso che ci costruiamo costantemente, e il problema è che chi siamo di riflesso può non essere sincronizzato con la nostra percezione di noi stessi - e chi siamo è molto deciso dal nostro ambiente e dalle forze esterne.
JZ: Sei cresciuto circondato dal cinema. Credi che essere vicino ai set di tuo padre da bambino abbia influenzato il tuo lavoro?
BC: Stare vicino ai set demistifica il processo di realizzazione dei film. Frequentando la scuola di cinema, le persone che non hanno avuto queste esperienze hanno trovato i set più “magici”. Ma quando ci sei tu, in realtà, è piuttosto noioso. In un certo senso, l’ho assorbito.
JZ: I recensori di Possessor hanno fatto molti paragoni con i film di tuo padre. Sei d’accordo?
BC: Mi fanno spesso queste domande e la verità è che sto girando film che sono interessanti per me e onesti nei confronti dei miei impulsi creativi. Prima di entrare nel mondo del cinema, una delle cose che ho cercato di fare era dedicarmi alle arti figurative – e ci sono stati paragoni con mio padre. Penso che alla gente piaccia pensare secondo questi schemi ed è qualcosa a cui non si può sfuggire.
JZ: Entrambi i tuoi film sono violenti, viscerali e inquietanti. È questo lo scopo o è solo dove ti portano i personaggi e la storia?
BC: Mi interessano di più i film che mi spingono fuori dalla comfort zone. Quando guardi un film come quelli, stai esplorando un aspetto dello spettro emotivo umano in cui potresti non trovarti [ogni giorno]. Non voglio conforto quando sono seduto a guardare qualcosa. D’altra parte, c’è il pericolo di concentrarsi troppo sull’inquietante, perché potrebbe sembrare infantile o vuoto se il contenuto inquietante non è si trova al servizio di altre idee.
JZ: Ricordi la prima volta che hai avuto paura?
BC: Il mio primo ricordo è quello di essere nella culla e di aver fatto un sogno in cui un pipistrello mi atterrava sul viso.