"Come se". Intervista a Oliver de Sagazan

Olivier de Sagazan è un performer e artista francese, nato a Brazzaville, in Congo. Ispirato dal lavoro di Antonin Artaud e Samuel Beckett, Sagazan costruisce principalmente performance in cui interviene sul proprio corpo, decostruendolo, disumanizzandolo e applicandogli violenza. In questa nuova intervista di Mirko Preatoni, Sagazan affronta tre temi principali: verità, identità e performance.

A cura e traduzione di Mirko Preatoni

Mirko Preatoni: In uno scritto recente il filosofo italiano Giorgio Agamben ha evidenziato come, in un contesto quale quello attuale che vede l’umanità entrare "in una fase della sua storia in cui la verità viene ridotta a un momento nel movimento del falso” vi sia la necessità che “ciascuno abbia il coraggio di cercare senza compromessi il bene più prezioso: una parola vera”. Quanto oggi può aver senso cercare questa parola vera attraverso l’arte? Può l’arte conservare uno spazio di verità? 

Olivier de Sagazan: L'artista, che si ritira nel suo studio, deve scavare le sue radici più in profondità possibile per trovare elementi di stabilità e aiutarci a pensare il mondo. Siamo mediatori o una sorta di medium per dare la caccia ai non detti e ai tabù della nostra società. Quando passiamo da un "io" per arrivare a un "noi", è senza dubbio il momento in cui entriamo in uno spazio di verità. Ma questo è un processo creativo che sfugge a tutti noi. Mi sento come un cane che va a caccia nel mio studio, un cane che a volte sente come un odore di selvaggina, così scava, scava disperatamente la sua vernice per cercare di tirar fuori qualcosa. Ma il più delle volte si scavano buche in cui vive solo il vuoto. Credo che il tabù più grande, quello di cui non parliamo quasi mai, sia questa allucinazione collettiva in cui tutti noi viviamo e che fa sì che: pur venendo fuori dal nulla, e andando irrimediabilmente verso il nulla, tutti si comportano "come se" tutto questo fosse normale e che contasse solo il nostro conforto e la convivenza.

MP: Nella Sua performance più conosciuta “Trasfigurazione” alla dissoluzione dell’individuo sembra seguire un processo di soggettivazione capace di far emergere inediti modi d’essere. Quanto di ciò che scopre nella sua discese verso l’”innominabile" porta con se nella vita di tutti i giorni? Come, dopo tanti anni, “Trasfigurazione” la ha cambiata?

OdS: Trasfigurazione parte da un'intuizione piuttosto banale: il mio volto visibile è una maschera che ne nasconde molte altre. “L'io” (soggetto) è un altro, miliardi di neuroni risuonano in un unico io (oggetto). Una maschera è più vera delle altre, c'è un generatore di maschere? Queste sono tutte le domande che confusamente arrivano in me quando realizzo la mia performance. Nel corso degli anni, questa performance serve solo a rafforzare il punto di quella prima intuizione. E va detto che il tempo e il successo di questa performance testimonia che questa intuizione è condivisa da molte persone. Questo “Indicibile" che abita dentro di noi, come lo traduce in modo fantastico Samuel Beckett, è ciò che seguo costantemente in tutto il mio lavoro. Rifare questa performance è per me sempre un'immensa felicità perché so in questo momento di essere in uno spazio di verità, perché qui sto toccando un elemento fondante del nostro essere come indica l’etimologia stessa della parola persona: una maschera.

MP: Lei ha parlato della performance in termini di “gesto vitale”, di singolarità ove improvvisamente trova il diritto e il dovere di manifestare lo stupore di esistere. Come è possibile rinnovare l’esperienza di questo stupore? Come coniugare autenticità e replicabilità?

OdS: La questione di ripetere una performance e di rimanere autentici è un problema puramente tecnico: voglio dire che a volte posso sentire che sto riproducendo gesti che ho già fatto ed allora posso temere di essere in una pura ripetizione, ma poi è necessario riposizionarsi in piena coscienza nel tempo di un qui ed ora ed ecco sentiamo che questo luogo è la gente davanti a me, il mio corpo stesso, tutto è nuovo, singolare. Inoltre, la mia consapevolezza dell'indicibile che abito è valida tanto ieri quanto oggi, rimango per sempre uno sconosciuto per me. Infine, nella mia percezione dell'arte e dell'artista, penso di essere una specie di virus e sono ossessionato dal replicare nel cervello degli altri certe immagini che sono apparse in me. Immagini come quella del mio volto totalmente cancellato dall'argilla è per me una rivelazione di chi siamo e voglio che si ripeta ovunque perché si apre su questo campo di coscienza di cui parlavo prima: la nostra allucinazione collettiva.

Indietro
Indietro

"Comme si". Interview with Olivier de Sagazan

Avanti
Avanti

Intervista ad Anselm Kiefer