Intervista ad Anselm Kiefer
Anselm Kiefer è uno dei più grandi artisti viventi. Nell’intervista a cura di Elena Cué qui tradotta, Kiefer racconta le ragioni, le ispirazioni, il “senso” della sua produzione artistica. L’infanzia, l’alchimia, la filosofia, il nazismo, il profondo carattere impolitico dell’arte: questi sono solo alcuni dei materiali mitologici con cui Kiefer costruisce le sue opere. La memoria e la storia, in questo senso, sembrano essere i luoghi dai quali Kiefer estrae i materiali della sua arte, per formare una “mitologia delle immagini”. Nel momento in cui si è sopraffatti, l’arte emerge, nella forma del «nuovo che sorge dalla storia».
Intervista a cura di Elena Cuè originariamente apparsa su alejandradeargos il 23 settembre 2019: https://www.alejandradeargos.com/index.php/en/all-articles/21-guests-with-art/41746-interview-with-anselm-kiefer
A cura e traduzione di Simone Raviola
Con il crepuscolo che iniziava a cadere sul piccolo villaggio francese di Barjac, ho iniziato il mio tour de La ribaute – 40 ettari della produzione dell’artista tedesco Anselm Kiefer – che si sarebbe concluso al tramonto del giorno successivo senza che io fossi riuscita a visitare tutte le torri, i tunnel sopra e sotto terra, le cripte in perenne stato di trasformazione, un anfiteatro e i sentieri disseminati di sculture che fanno questo straordinario luogo, un luogo che è emozionante per la sua grandezza, per il suo spazio illimitato e per il suo inquietante mistero.
Anselm Kiefer è uno degli artisti più importanti di oggi.
Elena Cué: Sono tornata dall’anfiteatro estremamente impressionata. Infatti, sono stravolta da tutto. Mi servirà molto tempo per assimilarlo completamente.
Anselm Kiefer: L’anfiteatro si è sviluppato nello stesso modo in cui lo fa un quadro. Aveva un grande muro dove sono tutti i grandi quadri, e pensavo, perché non avere una piccola grotta all’interno. Così abbiamo fatto alcuni containers, li abbiamo messi insieme per formare una nicchia, abbiamo continuato un piano dopo l’altro e ha funzionato esattamente come un disegno, passo dopo passo.
EC: Sei nato nel 1945 al crepuscolo della seconda guerra mondiale.
AK: Sono nato in una cantina di un ospedale. Là è dove mia madre mi ha dato alla luce e quella stessa notte la nostra casa è stata bombardata.
EC: I tuoi giochi erano rovine e mattoni, che hai continuato ad usare nel tuo lavoro, sia come materiali che come concetti. Giochi ancora con quelle rovine?
AK: Le rovine sono la cosa più bella e siccome i bambini non giudicano, le prendono e ci giocano. Non sono per me una fine ma un inizio. A volte, abbatto una torre smantellando un pezzo solo per vedere come cade, come esita; poi tutto va velocemente e con un grande rumore a terra. La sensazione è comparabile al decollo di un aeroplano. L’acceleratore è inserito a piena potenza. L’aeroplano freme con la potenza che lo vuole portare avanti mentre i freni lo tengono ancora sul posto, la macchina, sempre più veloce, si solleva finalmente verso il cielo.
EC: Al tempo in cui la Germania era spiritualmente e materialmente devastata, quali erano i valori con cui sei cresciuto?
AK: Ho avuto un’educazione molto autoritaria perché mio padre era un funzionario. Da un lato c’era l’autoritarismo della Chiesa Cattolica e dall’altro, mio padre che era anche insegnante. Ma mio padre mi ha anche mostrato i pittori che erano stati ostracizzati durante il Terzo Reich e, nei primi anni della mia infanzia, mi ha condotto a dipingere e disegnare.
EC: Hai detto che costruire Barjac è stato qualcosa che si è ribellato in retrospettiva. Prima è stata l’esperienza e poi il concetto.
AK: Se intendi che il mio lavoro segue un concetto pensato, allora la risposta è: naturalmente. Ho sempre un concetto, altrimenti non sarei capace di iniziare. Comunque, durante il lavoro e nel corso dei giorni, settimane o anni, il concetto cambia. Il concetto è necessario ma non importante.
EC: Cosa senti quando guardi a La Ribaute?
AK: Sento che non è finito.
EC: Quale particolare bisogno ti ha portato a costruire qualcosa di così unico in Barjac?
AK: Quando mi sono trasferito, la mia idea era di non avere più assistenza da nessuno. Non volevo un ufficio, volevo semplificare la mia pratica e fare tutto da me. Volevo fare quadri molto leggeri che potessi arrotolare e portare ovunque. Volevo lavorare da solo, senza nessun assistenza. Era come una rivoluzione culturale. Lasciare tutto alle tue spalle, smettere di dipingere e ricominciare da capo-
EC: Qui architettura, dipinti, sculture, e perfino concerti musicali si riuniscono. Stai cercando di ricreare il concetto wagneriano di opera d’arte totale?
AK: Non uso la parola Gesamtkunstwerk. Ha una connotazione scomoda. Parlerei piuttosto di un lavoro in corso. La cosa più importante non è il risultato ma l’effimero, il sempre fluttuante, ciò che non arriva ad una fine.
EC: Nel 2011, hai disegnato la scenografia per l’opera Elektra al teatro Real a Madrid. Pensi di collaborare in un’altra opera?
AK: Sì, quando la giusta piece, e un direttore con cui condivido un’estetica, si riuniranno. Klaus Michael Gruber, con cui ho collaborato su Edipo a Colono al Burgtheater a Vienna e Elektra a Napoli, è stato per un grande incontro. Sfortunatamente, è morto durante la pre-produzione.
EC: Hai detto che la tua noia infantile ti ha aiutato a diventare un filosofo. Pensi che uno stato di noia possa essere veramente creativo?
AK: La noia è l’inizio della filosofia. Se sei attivo, non rifletti. Heidegger tiene una serie di lezioni sulla noia. Dice che quando sei invitato ad un evento ed è un po’ noioso, diventi cosciente del fatto che sei. Diventa chiaro che cos’è essere.
EC: Con quali filosofi ti identifichi?
AK: Roland Barthes, Johann Gottlieb Fichte, Martin Heidegger, Leibniz, Carl Schmitt, Gustav Radbruch, Feuerbach…
EC: Cosa ti forza normalmente a pensare e creare?
AK: Non dipingo perché i fogli sono vuoti o perché non ho altro da fare. Inizio a dipingere quando ho un shock. Quando sono sopraffatto da qualcosa che mi muove, qualcosa che è più grande di me. Può essere un’esperienza reale con una persona, un paesaggio, una piece musicale o una poesia. I critici dicono che voglio sopraffare ma, in realtà, sono io quello che è costantemente sopraffatto. Ciò è quello che succede quando inizi a lavorare. Se non ti stai sentendo sopraffatto, perché sei vivo? Siamo qui per essere sopraffatti, altrimenti non c’è ragione di essere.
EC: Da dove viene la tua ispirazione?
AK: Se lo chiedi a scrittori, ti diranno che tutto il materiale che hanno viene dalla loro infanzia. Lo stesso vale per me.
EC: Hai detto che sei sempre stato attratto dall’impossibile. Quante volte hai provato a raggiungere l’impossibile?
AK: Non puoi ottenere l’impossibile. Puoi solo sognarlo e provare. La parola ottenimento è difficile perché è sempre un processo. Non potrei mai dire che qualcosa è un ottenimento; è solo nelle nostre teste.
EC: Il tuo lavoro è pieno di riferimenti mitologici dalla Germania, dalla Grecia antica, dall’antico Egitto e dalla Kàbbalah, tra gli altri. Hai trovato un elemento di unità tra loro?
AK: Sì, tutta la mitologia è connessa. Per esempio, la Norse legend of Wayland the Smith, che è stata catturata dal re e non riesce a scappare. La stessa leggenda esiste in Egitto e nella Germania del Nord. Puoi trovare connessioni in tutte le mitologie.
EC: Sei stato etichettato come uno dei più grandi rappresentanti del neoespressionismo. Cosa apporta questo stile artistico che altri non forniscono?
AK: Sono fondamentalmente contro lo stile.
EC: Cosa ti ha motivato a includere oggetti figurativi come i sottomarini, girasoli, tulipani, etc, nel tuo lavoro? Perché hai iniziato a combinare pittura e scultura?
AK: È questione di realtà. Quando introduco un oggetto, non creo nessuna illusione addizionale. Quello che faccio è quello che è. A volte voglio essere diretto. Gli oggetti hanno la propria spiritualità.
EC: Perché hai deciso di dipingere al posto di scrivere?
AK: Non posso dire che sia stata una decisione cosciente. Mi è venuto così. Attraverso la mia carriera ho sempre avuto momenti in cui ho pensato di scrivere un libro. Ho molti concetti per libri nel mio diario ma non posso dire di averne deciso uno in particolare.
EC: Allora è un equilibrio tra lo scrivere e il dipingere?
AK: Sì, ma non è scrivere, è piuttosto sperimentare con se stessi. Non scrivo racconti o poesia. La poesia è qualcosa di diverso; organizzi le parole in una certa combinazione che non è mai stata vista prima.
EC: E cosa riguardo il dipingere?
AK: È egualmente una ricreazione.
EC: Ti rispecchi meglio dipingendo che scrivendo?
AK: Scrivere ci aiuta ad analizzare quello che abbiamo fatto. Inoltre, è una forma di auto-valutazione.
EC: Ti chiedi se sei soddisfatto?
AK: Tutto il tempo.
EC: Come ti senti quando leggi il tuo stesso lavoro?
AK: I miei scritti sono per me un modo di ricordare. Il nuove sorge dalla memoria.
EC: E quando guardi ai tuoi dipinti in retrospettiva?
AK: Esattamente come Paul Valery, a volte penso che sono meravigliosi, altre volte mi fanno sentire disperato.
EC: Hai detto che l’arte è la più vicina alla verità. Potresti spiegare questo concetto?
AK: L’arte è ancora più vicina alla verità. È verità.
EC: Pensi che attraverso l’arte tu sia capace di esprimere chi veramente sei?
AK: Io non sono importante. Sono talvolta me e poi molti altri.
EC: L’olocausto è molto significativo nel tuo lavoro. È descritto attraverso un’ampia gamma di simbolismo. Qual è il tuo obiettivo con la rappresentazione del momento più buio della storia della tua nazione?
AK: Quando stavo crescendo, l’olocausto non esisteva. Nessuno ne parlava negli anni ‘60. Sentivo che c’era qualcosa nascosto. Per errore, ebbi tra le mani un disco con le voci di Hitler, Goebbels e Goering. Era fatto dagli americani per educare i tedeschi. Ero così affascinato da Hitler che ho iniziato a studiare. Volevo sapere di che cosa si trattasse.
EC: Era la necessità o la curiosità che ti ha portato ad investigare oltre?
AK: Era curiosità. Quando inizi a studiare quello che avvenne durante quegli anni, è così orribile che è difficile da immaginare. Solo nel 1975 in Germania iniziarono a mostrare esattamente quello che era successo durante l’olocausto. Da quel momento i tedeschi sono stati abbastanza bravi a rivelarlo. I francesi lo stanno ancora nascondendo molto. A quell’epoca, gli austriaci non volevano nessuna relazione con i tedeschi. Un giornalista australiano si lamentava con me perché mettevo austriaci e tedeschi nella stessa categoria. All’epoca Hitler era sorpreso, come se pensasse che avrebbe dovuto combattere l’Austria per unificarla. Venne fuori che tutti loro la volevano già. Erano forse più efficienti e accurati dei tedeschi con le loro liste degli ebrei. I francesi mandarono forzatamente circa 100.000 persone a lavorare nell’industria delle armi tedesca. Non ho mai creduto che ci fosse un grado zero. La democrazia è stata per la prima volta portata dagli americani.
EC: Durante il discorso di apertura della serie di letture al Collège de France, hai detto che hai imparato molto dell’arte leggendo The Thief’s Journal di Jean Genet. Potresti spiegare perché?
AK: Ero così sopraffatto dal suo scritto. Ha letteralmente rivoltato tutto sottosopra. Avrebbe preso la cosa più onorevole che si possa fare e l’avrebbe fatta sembrare retrograda, mentre la cosa più orribile, ad esempio uccidere qualcuno, l’avrebbe considerata un’opera d’arte. Ha rivoltato ogni cosa sottosopra e ciò è fantastico per me.
EC: Hai detto: «L’alchimia di trasformare l’abietto in arte è la vera magia». Perché sei così attratto dall’alchimia?
AK: L’alchimia è il primo passo verso la scienza, la chimica e la fisica. È l’insegnamento della trasmutazione. È anche un movimento spirituale. Le persone dicono sempre che gli alchimisti tentano di trasformare il piombo in oro, ma i veri alchimisti non vogliono farlo. È un’immagine che trasforma te stesso in un altro livello. Gli alchimisti sono i primi scienziati naturali.
EC: Sei stato fotografato vestito da donna per l’opera Jean Genet. Hai dipinto donne in Les femme de la Revolution, Les Reines de France, Les Femmes de L’Antiquitè, en Margarethe y Shulamith. Cosa rappresentano le donne nel tuo lavoro?
AK: Sono sempre sopraffatto dalle donne e penso che siano più connesse con le radici della terra. Sono più potenti dell’uomo.
EC: Hai detto che l’arte dovrebbe essere sovversiva e disturbante. Cosa pensi della relazione tra arte e società?
AK: Mi riferirò a Jean Genet di nuovo. Lui è sovversivo perché predica che rubare e uccidere sono le migliori cose; che devi diventare un traditore. L’arte non può mai essere moralista. L’arte non può essere un giudizio della società perché le morali sono connesse alle epoche. Torniamo all’epoca della democrazia greca. In quei giorni si potevano avere schiavi. Anche Aristotele ha detto che per essere un buon filosofo devi essere ricco e avere degli schiavi. È tutto connesso ad una certa epoca. Gli artisti non dovrebbero essere connessi ad un comportamento morale specifico.
EC: Hai parlato ampiamente dell’artista come un distruttore e un creatore. È la chiave nel tuo lavoro. Potresti approfondire questo concetto?
AK: L’artista è un iconoclasta, lui o lei distrugge tutto il tempo. C’è l’arte e l’antiarte. Se l’artista non è un iconoclasta allora non è veramente un artista. Puoi vederlo nel corso della storia dell’arte. Io distruggo quello che faccio tutto il tempo. Poi metto le parti distrutte in containers e attendo la resurrezione.
EC: L’idea di infinito è implicita nel tuo lavoro e provoca un senso del sublime. È una tua intenzione?
AK: Eichendorff nella sua poesia manda la sua anima fuori nel mondo e poi essa torna a lui. È un ciclo che non finisce mai. Io seguo il sistema filosofico che include emozioni, volontà e riflessione. Eichendorff descrive un globo come una sfera; una sorta di sfera che ti dà l’immunità. Prima che tu nascessi, condividevi la sfera con tua madre, tu eri connesso nell’utero. Questa è la prima sfera. Poi la sfera si allarga quando incontri più e più persone. La sfera romantica è senza fine. Va verso l’infinito e torna indietro.
EC: Il paesaggio con le tue figure nel mezzo della stanza de Les femme de la Rèvolution mi ricorda il paesaggio di Friedrich e il concetto di sublime. Cerchi il sublime?
AK: Non è veramente il mio mondo. Chi ha inventato la parola sublime?
EC: Il primo ad usare questo termine fu un greco dell’epoca ellenistica, ma è diventato popolare all’inizio dei nostri tempi, e tra gli altri Kant, che ha scritto un libro sulla bellezza e il sublime.
AK: C’è una magnifica citazione di Kant: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me».
EC: Ci sono cose che sono emerse in superficie attraverso il tuo lavoro che avresti preferito tenere nascoste?
AK: No. C’è così tanto che è nascosto. Puoi rivelare quanto vuoi e ancora non arrivare al centro.
EC: Qual è la tua opinione del primo Documenta e la Degenerate art nazista?
AK: Ho guardato in mezzo a tutti i dipinti e architetture naziste e non ho trovato un quadro decente. Li ho studiati tutti. Ho pensato che ci potesse essere qualcosa nascosto ma erano tutti privi di senso. In ogni caso, l’architettura era differente. Non era architettura Nazi per sé, era l’architettura dell’epoca perché era connessa alla tradizione. Puoi vedere lo stesso tipo di architettura a Parigi e a Roma. Le persone vedono erroneamente quel tipo di architettura come nazista. Per esempio, dicono che l’architettura non debba sopraffare le persone. Ma perché no? Siamo sopraffatti tutto il tempo, guarda alle stelle, per esempio. Un architetto deve mostrare questo. Mi piace Karl Marx Allee a Berlino.
EC: Qual è la tua relazione con i libri? Quale significato hanno i libri nella tua vita e nel tuo lavoro?
AK: I libri che ho fatto rappresentano il sessanta percento del mio lavoro. Ho ancora la maggior parte dei miei libri precedenti perché non sono mai stati veramente in vendita.
EC: E in relazione al dipingere?
AK: Un dipinto è diverso da un libro perché puoi starci di fronte e vedere un’impressione di qualcosa. Quando leggi un libro, giri le pagine; è connesso al tempo. Mi piace scrivere libri perché posso mostrare il processo. Quando dipingo, ho sempre una guerra nella mia testa. Ad ogni tappa del quadro ho cento differenti possibilità tra cui scegliere. Per esempio, quando Picasso si bloccava durante il processo creativo, era abituato a dire a sua moglie, Francois Gilot, di copiare il quadro così che potesse trovare un’altra soluzione. Quando stai dipingendo devi sempre prendere delle decisioni. Come scegli di andare in un certa direzione, rinuncia a centinaia di altre possibilità.