Nimic, di Yorgos Lanthimos – Imitazione, annichilazione

In metropolitana, un violoncellista professionista conosce una sconosciuta. Questo incontro avrà conseguenze inaspettate e profonde sulla sua vita.

Nimic, diretto da Yorgos Lanthimos. Germania, Stati Uniti, 2019. 12’

A separare nimic (“niente, nulla”) da mimic (“imitare”) è un misero grafema la cui esiguità, ancor prima di differenziare i due vocaboli, ne suggerisce l’affinità. Annichilazione e imitazione coincidono, e questo avviene già sul piano estetico nella misura in cui i due termini si imitano vicendevolmente, assumendo uno (pur se imperfettamente) la forma dell’altro, e si annichilano eludendo la differenza grafico-fonetica che ne caratterizzerebbe l’autonomia, dissolvendosi in una dimensione entropica, in-differente.

Con Nimic Lanthimos racconta specificamente questa indifferenza tra processo imitativo e annichilente, realizzando una parabola che ne divenga exemplum. Il personaggio di Matt Dillon -che resta, significativamente, innominato, e dunque privato di quel valore differenziale primo- vive una vita scandita cronometricamente dall’abitudine. Risveglio; bollitura di un uovo per 4’15’’ (il cui scorrere si attende in stato catatonico davanti al pentolino); conseguente ingerimento della pietanza rimanendo in piedi, appoggiato al muro; prove con l’orchestra d’archi; ritorno a casa via metropolitana. L’uomo sembra prigioniero di questo meccanismo da tempo immemore. Ogni suo sguardo al mondo circostante è anenmpatico, ogni movimento trascinato da un’atavica inerzia: l’abitudine, intesa come copia inesausta di se stessa. Nel suo adeguarsi, imitativamente, ad un mondo i cui processi sono determinati meccanicamente, egli è già espropriato della sua individualità. È già nulla, nimic. 

La natura annichilente dell’attività imitativa emerge in tutta la sua potenza attraverso il personaggio di Daphne Patakia, anch’esso -come, a ben vedere, tutti gli abitanti di Nimic- senza nome. L’incontro tra Dillon e Patakia avviene in metropolitana, e a legarli è il più imbecille dei giochi infantili. 

«Excuse me. Do you have the time?»

«Excuse me. Do you have the time?» 

Alla richiesta del primo, la seconda risponde imitandone le parole. Non senza che tra le due domande -egualmente irrisolte- intercorra un momento di silente assimilazione da parte della donna. Quello che si rivelerà essere un ineluttabile processo di annichilazione trova qui il suo momento scatenante.

La donna comincerà a seguire il suo modello in ogni suo spostamento, a copiarne ogni azione, parola. Ma anche ogni precisa localizzazione spaziale e, sul piano compositivo, figurativa: Patakia occuperà, con pochi fotogrammi di distanza, lo spazio visuale inizialmente deputato a Dillon.

Se in una prima sezione del processo imitativo tra originale e copia si interpone un fisiologico tempo di elaborazione, uno iato che consenta a Patakia di osservare Dillon e di modulare le sue azioni di conseguenza, le cose cambiano con la penetrazione della donna nella dimensione privata dell’uomo. Una volta insidiatasi nella sua abitazione, e dunque infiltratasi non solo nel suo spazio linguistico/visuale ma nella sua rete relazionale/affettiva, di cui immediatamente si approria, la copia aderisce con perfezione assoluta ad un modello che, perciò, perde il suo statuto di originarietà. Compresente al modello: nello stesso tempo, nello stesso luogo. Le loro parole vengono ora pronunciate all’unisono. Il rapporto tra i due termini è ora sincronico, e, di conseguenza, a-gerarchico.

Questo di fronte allo sguardo interdetto di moglie (Susan Elle) e figli, incapaci di giudicare. In Nimic il corpo (inteso specificamente in quanto carne, singolarità conformazionale) non ha alcun valore differenziale e, dunque, semiologico. Egualmente ininfluenti sono il timbro vocale, l’odore. La famiglia di Dillon è impossibilitata a giudicare nel momento in cui i due corpi occupano la stessa dimensione spazio-relazionale, e parlano -pur con un timbro ed una musicalità differente- la stessa lingua, proferendo le medesime parole. Non viene percepita alcuna difformità fisionomica.

A essere messa alla prova dal nucleo familiare non è la veridicità identitaria della figura paterna, quanto la sua fungibilità, l’adeguatezza alla rete relazionale in cui si inscrive. Il padre diviene quindi Patakia, perché il suo piede meglio si incastra in quelli della madre. Perché il suo abbraccio meglio ne cinge i fianchi.

Ella si appropria di ogni abitudine del padre precedente. Anche del modo in cui mangiava le uova, appoggiato al muro. Persino, con precisione chirurgica, del tempo di bollitura: 4’15’’. Nonché della sua professione, quella di violoncellista. Che la donna non sappia suonare, poco importa. Nessuno, in platea, pare anche solo lontanamente accorgersi della sua totale incapacità. Ciò che conta è la sua capacità di farsi inglobare da un sistema sovrastante. L’orchestra sottomette il singolo, lo standardizza, forzosamente.

Il vecchio padre, ormai obsoleto, espropriato della propria identità, pare accarezzare nel finale l’idea di immergersi attivamente in un nuovo processo imitativo, nel quale ricoprirà stavolta il ruolo di copiatore-carnefice.

Aprendoci a tale prospettiva, ecco irrompere l’inquietante ipotesi secondo cui il processo imitativo si attua da tempo immemore, falcidiando identità che di volta in volta vengono espropriate del loro valore e assimilate a mere funzioni, nel perpetuarsi di un meccanismo di annichilimento dell’individuo in favore di un macro-meccanismo in cui a contare è sempre è soltanto la relazione tra le parti, e mai la singola componente. Ecco in che senso imitazione e annichilazione, mimic e nimic, coincidono. La copia (sincronica) si sovrappone all’originale, spodestandolo. Ma il dominio della copia è instabile, necessariamente provvisorio: essa può essere destituita da un momento all’altro, in una sequela infinita di massacri. La famiglia di Dillon, che istintivamente interpretiamo come nucleo granitico la cui corruzione è possibile solo in virtù dell’arrivo di Patakia, è più probabilmente frutto di un gioco di sostituzioni da sempre vigente. La posizione marginale assunta dal padre al momento della colazione mattutina, il suo sguardo vacuo illuminato da lampi di paranoia: elementi che suggeriscono la consapevolezza della propria instabilità, una propensione accettante allo scambio. La stessa Patakia, quando aggredisce, è con tutta probabilità reduce di un processo speculare a quello che condurrà all’annichilazione di Dillon.

Nulla esiste, solo le funzioni persistono. Tutto è frutto di una filiazione semiotica indifferente alla propria progenie. Anche i titoli di testa e coda, in cui ogni parola si appropria delle membra della parola precedente, fagocitandone il senso.

Niccolò Buttigliero

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

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