Il taglio della differenza [Appendice a “Corpo velato" di Luca Rocco]

I.

La moda […] è in conflitto con l’organico; accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere.

(Walter Benjamin, Passages)


I corpi portano sulla propria superficie segni e iscrizioni che il linguaggio e il potere hanno inferto e applicato loro, segni visibili, segni detti. I corpi si fanno segno, si vestono, si addobbano, si formano attraverso il potere e il linguaggio “comuni”, che li plasmano. Oppure, al contrario, le iscrizioni e i segni del potere e del linguaggio rendono un corpo corpo, lo conducono sotto quella strana luce che permette al pubblico di vederli e di dirli, di osservarli e di parlarne. Strano rapporto dunque tra i corpi, nudi in quanto pelli membranose riempite di organi e fluidi, e i segni che vestono e ricoprono quella pelle. Viene prima il corpo, che da nudo si veste, o viene prima il vestito, che rende il corpo rivestito un corpo antecedentemente nudo (passato, perso, spettrale, fantasmatico e, in definitiva, in quanto prodotto del rivestimento, divenuto così un corpo della mancanza, un corpo mancante)? Mi sembra che queste domande circolino ad una velocità forsennata in quel racconto saggistico che poco tempo fa Luca Rocco ha scritto per questo stesso magazine. Uno dei più belli qui pubblicati, senza dubbio. Non solo per la sua capacità di rendere il punto superfluo, la sua destrezza a concatenare fiabe e storie, volti e cose, quanto soprattutto per la furba proposizione di un problema che, per la durata intera dell’articolo, rimane assente, spettrale. Le domande circolano, ma in filigrana, lontane dai riflettori delle star cinematografiche e i personaggi fiabeschi che le pongono. Di gran pregio, siamo sicuri, è quella scrittura che permette di pensare, che da pensare, che indica la domanda (velandola). Come quel «cretino iper-intelligente», io però ci voglio vedere chiaro. E se il re è nudo magari non lo dico, però lo penso, e lo scrivo. Per questo ho ritenuto necessario chiarire, rispondere, vedere dentro, intuire quelle parole, i loro strati e le loro ombre. Ripetiamo dunque la questione posta e velata dal buon Luca: il corpo è attraversato da parte a parte dai segni. Segni linguistici, segni di visibilità, segni di potere, segni, segni, segni. Ma è, chiedo io, con una punta di smaliziata ironia da alcolista polemico, il corpo che attraverso il contatto si nutre e assimila i segni o, piuttosto, non c’è corpo finché un segno non si traccia – traccia che provoca essa stessa, di rimbalzo, l’apparizione di un corpo supposto antecedente al segno stesso (illusione ipostatica, dannazione della filosofia). Luca sembra rispondere che, in fondo, «non c’è mai corpo nudo, non c’è mai nuda vita». Ovvero: è solo con il segno che il corpo viene alla luce. Eppure, vedete, la questione non è semplice, e come Luca ci si inerpica e tenta di sbrogliarla lo dimostra. Il suo stesso racconto infatti è una fiction, un ricamo sulle cose e sui corpi, sui corpi che si abbracciano e sui morsi che si stringono, sulle fiabe che raccontano di altre fiabe e sulle fiction che raccontano di racconti secolari. Egli ne è evidentemente consapevole, ne gode e ci gioca. Nel testo s’intrecciano dunque le storie, i segni, le iscrizioni, e questi segni si significano, si narrano, si articolano, si rimandano l’un l’altro in un gioco di specchi e di tornelli, di via libera e di rifrazioni. Nonostante ciò, nonostante i giochi dei segni e i segni dei giochi, i corpi nudi (che non esistono in quanto tali, Luca ci racconta, forse anche per stigmatizzare ed esorcizzare lo spettro che fa dello spettro una materia) tornano. Tornano negli occhi del bambino, tornano nella coppia che fa l’amore, tornano carne per carne e tornano infine, ai margini, come spettri, svuotati, fantasmini. I corpi sembrano agitarsi nel racconto come una sorta di linee di fumo: sotto le parole, sotto il trono di San Giovanni in Laterano, dietro i papi e dietro i Re. Movimenti sinuosi al limite del visibile e del dicibile si snodano e si annodano negli interstizi delle frasi. Ma davvero i corpi che si incontrano nel sesso allo specchio sono come quelli di un Papa nudo, privato della sovranità? E se non fosse che i corpi nudi, la vita che pulsa, la vita che striscia e che gode, che perde liquidi e incancrenisce, siano altro, totalmente altro, dai corpi che i vestiti disegnano come loro antenati? La domanda ci perseguita. Nel gioco di fantasmi, comunque, Luca è bravo ad oscillare1. Oscilla infatti nella differenza, tra il vestito e il corpo, tra la parola e il gesto, tra il Papa e la Chiesa, tra l’uomo e la donna. A mio parere, la bellezza di Corpo velato, così titola quel racconto, nasce dalla e abita nella capacità di oscillazione della narrazione, l’uso della differenza che, una volta instaurata, viene fatta giocare in un rimbalzo delle differenze. Tra il corpo e il vestito, Luca pare scegliere il corpo che si sveste e il corpo che si veste, il vestito che si fa corpo, il vestito che disinveste il corpo.

Al vecchio problema del corpo e del vestito, la Bibbia risponde in maniera netta: in origine il corpo era nudo2: «Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna». Doveroso sottolineare come fin da subito, al principio, nel sacro spazio della nudità, già si accenni alla questione della vergogna. Nonostante sia solo poi, una volta mangiata la mela dall’albero della conoscenza, che Adamo ed Eva proveranno vergogna e si copriranno, la nudità viene caratterizzata immediata insieme ad un’ipotetica futura vergogna. Attraverso l’uso del passato, il testo suggerisce la vergogna futura, la vergogna che viene. Come se la vergogna retroagisse sulla nudità: va segnalato che il corpo nudo, prima della vergogna, non provoca vergogna. Ma non vi pare un po’ strano? Perché mai installare, in negativo, la vergogna nel corpo nudo che, in quel momento, vergogna non ha? L’azione della mela qui è già in atto, sta già funzionando come cappio futuro del giardino divino passato. Il “taglio-mela” produce un passato puro, nel quale la vergogna non esiste, caratterizzato dall’assenza della vergogna (assenza di natura evidentemente spettrale, perché destinata ad attualizzarsi). Il morso taglia un passato di purezza, la nudità dei corpi, dal futuro della caduta - della vestizione (in cui la nudità si articola nel senso di una vergogna). Allora, erano nudi, e non provavano vergogna; ora si vestono, perché provano vergogna. Una volta cacciati dal paradiso, comunque, i due verranno vestiti: «Il Signore Dio fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e le vestì». Ma cosa succede tra la nudità senza vergogna e la vestizione ad opera del padreterno? Capita che i due si attorciglino sulla conoscenza, imparino a “vedere”. Un lento afferrare, un feroce mordere, un succoso succhiare: «Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture». Tra il corpo e il vestito affibbiato da Dio si collocano le foglie di fico, rudimenti naturali e tecnici, anteriori e posteriori alla conoscenza, occhi artificiali che rendono la nudità tale, e il vestito che verrà il vestito di una nudità. Ecco il taglio e la differenza, foglie che si fanno cinture, cinture che si fanno foglie. Il taglio di un processo, il taglio che è un processo, la separazione che si sta separando e che separa: corpo e vestito si stringeranno inutilmente, essi non saranno ma più riconciliabili. O con il corpo o con il vestito, o con il segno o con la cosa. Le parole e le cose. Gli enunciati e le visibilità. Ma se noi stiamo in quel taglio, in quel processo di differenziazione, e ci dimentichiamo dei due che, lanciati sulla terra, non si incontreranno mai più, possiamo risolvere la domanda che tanto ci assillava e, a mio parere, assillava anche Luca. Si tratta di abitare quel taglio, per capire che in fondo non c’è passato idilliaco che tenga: il taglio è ora, il taglio è in ogni momento. Oggi, come nel Big Bang, io sto mangiando la mela, mi sto vestendo, mi sto tagliando, sto facendo la differenza.

La caduta nel tempo non è in un passato remoto, da reintegrare, da cui allontanarsi, o verso cui essere indifferenti. La caduta nel tempo è qui e ora, è in ogni istante: stiamo solo cadendo, verso la morte, ma anche, per il tempo di qualche sigaretta, verso la vita. La differenza tra il corpo (nudo, in quanto un corpo come tale è nudo) e il vestito, tra la foglia e la cintura, è esattamente il luogo topico in cui è possibile reperire la dimensione problematica, e forse un superamento, della questione vestizione e svestizione. Forse diremo, allora: non c’è che un vestirsi e uno svestirsi dei corpi che differenzia i corpi dai vestiti e i vestiti dai corpi. La transizione è sempre in atto e, solo poi, avremo i due poli che si richiamano l’un l’altro sempre negandosi. Li avremo perché parliamo da un polo, quello dei segni, e li avremo come opposizione irresolubile (né il realismo ingenuo né una pratica idealista risolvono la questione segno-cosa, vestito-corpo). Il corpo e il vestito si stanno facendo, si fanno tra loro perché sono l’ultimo residuo del loro farsi intermedio – mai totalmente corpo, mai totalmente vestito. Lì sulla mia pelle e sul filo di lana del mio maglione si decide ad ogni istante, attraverso un taglio, la differenza tra la mia pelle e quel filo di lana del mio maglione. La differenza è allora una relazione che anticipa i relati, essa è una differenza che si sta differenziando, non perché lega o separa poli ma perché sta già da sempre creando quei poli: è la mela che crea il corpo e il vestito, è quel morso, quel taglio, quella microdifferenza che fa: il corpo e il vestito, la foglia e la cintura.

A partire da questa differenza, le differenze iniziano a crearsi, a differenziarsi, a farsi segni infiniti di corpi infiniti, semiosi infinita di proliferazione vegeto-minerale infinita. In questo quadro frastagliato, i corpi nudi delle amanti rimarranno sempre ai margini, illuminati da lampioni e lampade semirotti. Da lì però, dal margine, dal riflesso di uno specchio opaco di vapore, un bagliore si muove, un denso lampeggìo lampeggia. Le differenze si muovono sotto-traccia, sotto-pelle come i demoni di Cronenberg. Infestano le città, gli hotel, spingono, spingono. La disseminazione è totale e inapparente. Vincent Cassel ci raccontava che il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Forse, abbiamo imparato che non è vero, che la caduta di un acrobata non è quella di un muro, che la caduta di un uccello in picchiata non è quella di un uomo che si lancia dal quinto piano, che la caduta della goccia di stalagmite non è la caduta di una civiltà. La caduta non sarà il problema, ma sicuramente è la questione. Le cose cadono, ma nel cadere muovono, spostano, tagliano, differenziano, articolano, guardano. E ogni singolare modo di cadere, di muoversi, spostarsi, tagliare, differenziare, articolare, guardare, è unico, decisivo, fondamentale e, al contempo, intersezionale, avviluppato e invischiato a mille altri modi. Si tratta allora, forse, di cartografare questa incessante produzione di cadute, di differenze, di tagli, nel loro differenziare/si e nella loro specifica capacità di differenziare/si (da)gli altri modi della differenza. Fare una mappa, mapparsi.

II.

Nessun profitto. Solo il velluto

che cresce sotto il velluto, come foglia nascosta

al sicuro in una foglia, luce nell’ombra.

(Adam Zagajewski, Dalla vita degli oggetti

Composto nel 1940, La vestizione della sposa è un quadro di Max Ernst, conservato al Museo Guggenheim di Venezia. È un quadro molto divertente (e inquietante), dalla natura surrealista e, in qual certo modo, naturalista o verista (di una precisione del ritratto notevolissima). Al centro del quadro si erge una fanciulla, di cui vediamo solo i seni, le mani, un piede, il ventre e le gambe ma di cui leggiamo molto bene la figura sinuosa, nascosta, spettrale, rimandata. Il corpo della ragazza, che seguiamo dai seni fino al piede sinistro, è ricoperta da una vestaglia di tessuto rossastro che però è di tale tessuto, in maniera esplicita, solo all’inizio, al fondo della vestaglia. Man mano che alziamo lo sguardo seguendo i fils rouges, la vestaglia comincia ad essere ricoperta di “muschio” o “pelo”, dietro i quali il tessuto vero e proprio sparisce. Una volta che abbiamo raggiunto le spalle, capiamo che si tratta di pelo di gufo. Al posto del volto della fanciulla, infatti, troviamo la barbosa presenza di una testa di gufo, con occhi e becco annessi. La struttura-figura così creata diventa un ibrido, un lento scambiarsi di gufo e di donna, di vestaglia e di pelo (pelliccia?). La vestizione viene così a configurarsi in uno strano modo: la fanciulla sta venendo vestita con una vestaglia di gufo, ma essa stessa è il gufo, il gufo è la sua vestaglia e lei stessa è quel gufo. Le labili distinzioni tra gufo, vestaglia, corpo della fanciulla, collassano in questa figura centrale in un gioco di rimandi: a seconda di come ripercorriamo il quadro e la figura che lo domina, sarà il corpo della fanciulla a farsi gufo, oppure il gufo a farsi fanciulla, il “vestito” a farsi corpo, o il corpo a farsi “pelo”. Il gufo, il corpo della donna, la vestaglia coesistono e si appartengono reciprocamente, e si formano anzi su quella sottile linea che li separa, che li spedisce ad essere quel che poi sono effettivamente. Facciamo un esperimento visivo. Proviamo ad ingrandire il bordo della vestaglia nel momento in cui si incontra con il corpo della donna. Tagliamo via la testa del gufo, lasciamola fuoricampo. Ora, cerchiamo di disimparare l’apparente semplice e banale fatto che i vestiti coprono i corpi. Non vi sembra che da quella linea di separazione tra il rosso e il color carne, si separino due forze centrifughe che “fanno” (letteralmente) la vestaglia e il corpo? Non c’è corpo dietro la vestaglia, che ci sarebbe nascosto. Piuttosto, la linea tra vestaglia e corpo fa della vestaglia un vela-corpo e del corpo un corpo-senza-veli. In quella linea, dove si vede e si coglie la differenza tra corpo e vestaglia, si fanno il corpo e la vestaglia, si decidono l’un e l’altra, si secedono, si separano – pur nell’unità della loro differenza. Inoltre, il fatto che la vestaglia non sia propriamente una vestaglia, ma che il tessuto si confonda con il pelo, ci mostra quanto poco la stessa differenza tra foglie e cinture, tra natura e cultura, rischi sempre di collassare sul suo differenziarsi ontogenetico. L’implicazione delle opposizioni collassa sul limite, vi rimbalza e torna ad oscillare tra i due mondi che da esso traggano la loro esistenza. Quella stessa vestaglia sta divenendo, al contempo, tessuto e pelo, muschio e seta, vestaglia e corpo. La combinazione testa di gufo-corpo di donna rilancia l’indecidibilità e nello stesso implica un continuo taglio per il quale si deve sempre decidere, separare ciò che è gufo da ciò che è donna, ciò che è vestaglia da ciò che è pelo. La decisione, impossibile poiché instabile come la particella e l’onda, oscilla e lo sguardo non può che inseguire l’indecisione decidendola. Sul limite di questa separazione, lo sguardo viene disarcionato e vola dietro, dietro la figura della donna-gufo.

Alle spalle della mariée, troviamo uno specchio. Luogo del raddoppio per eccellenza, lo specchio rilancia semioticamente tutto quanto è stato detto fino ad ora. Come un algoritmo, lo specchio raddoppia la puntata del gioco, eleva alla seconda. (Evidentemente non si tratta di uno specchio, ma di un quadro. Eppure la differenza tra il quadro e lo specchio qui decade, in virtù del raddoppiamento del soggetto operato in contemporanea a una variazione sul tema). Il quadro gioca su uno sfondo pulito, e ricordando per qualche strana affinità elettiva un certo Klimt, fa proliferare e infestare la vestaglia, che arriva ad occupare gran parte dello spazio totale. Inoltre, al gufo e al pelo sembrano sostituirsi materiali minerali o quasi viventi, spugnosi, spettri che s’aggirano – in una paradossale proliferazione senza movimento - nel buio degli abissi marini. L’animale diventa minerale, o quantomeno solo vivente – incapace di muoversi. Nel quadro-specchio si radicalizza la problematica differenza: non più uomo-animale, ma uomo-vegetale o uomo-minerale. Lo sfondo chiaro, pulito, azzurro canta la sua totale estraneità alla decadenza mineraria del vestito che si cristallizza. (Trascrivo dalla descrizione Guggenheim: «Allo stesso modo la scena centrale è in contrapposizione anche con il “quadro nel quadro” in alto a sinistra. La sposa vi appare nella stessa posa mentre avanza in un paesaggio con rovine classiche». La vestaglia e le spugne sono in realtà rovine classiche. Il vivente si fa città, e la colonia si fa classica. Il micro e il macro s’incrociano, nel quadro dentro al quadro).

Infine, il mostro. In basso a destra, una figura mostruosa si staglia sul pavimento a scacchiera. Eccoci, i cretini super-intelligenti, «quelli che capiscono tutto, dicono sempre la cosa giusta, ma al momento sbagliato e nel posto sbagliato: dicono il vero, ma non capiscono le regole contestuali, il meccanismo di funzionamento del gioco». Negli angoli delle fiabe, fuori-luogo, fuori-tempo, a rivendicare idee su articoli che vivevano benissimo di luce propria. Il monstrum è questa appendice stessa, che trasforma il volto pulito del Corpo velato in un artificio terrorizzante, in una macchina del terrore ontologico. Questa appendice dunque è, secondo l’etimologia latina di mostro, un prodigio, un segno divino, un monito. Come quel piccolo mostricciatolo, questo testo segnala indica – si situa nel luogo dell’avviso e avvisa dell’avviso, transita tra ciò o chi che è da avvisare e ciò di cui si avvisa. Dentro e fuori il gioco dei rimandi che compone la vita dei segni, dentro e fuori le differenze della vita che pulsa, ai margini, noi meditiamo, ci facciamo mostri - rappresentiamo il collasso delle differenze, le forme disfatte, gli abomini della natura (di cui la natura è figlia cadetta). Il mostro, ha scritto Arianna Locatello in riferimento alla figura presente nel quadro di Ernst, «è una figura ibrida di colore verde, ermafrodita e deforme, [che] riassume in sé qualità umane, animali e del mondo inanimato: un suo braccio è costituito da una sorta di corteccia d’albero o da una roccia, ha quattro seni, il sesso maschile, un ventre gonfio e prominente, piedi grandi e palmati». Luogo della differenza al suo apice, il mostruoso rappresenta il collasso e l’articolarsi delle differenze, la loro nascita, il loro stesso avvisarsi – come divine, primordiali e attuali al contempo. Nel mostro, dove natura e cultura, uomo e donna, minerali e viventi, vestito e corpo, si incontrano, Zeus fa segno – lampeggia – nel cielo stellato: il taglio sta avvenendo, qui e ora. In ogni momento una saetta separa ogni cosa, ed è nel mostruoso che questa separazione collassa e si mostra all’occhio della scrittura.

Al papa e alla chiesa dunque, al vestito e al corpo, all’uomo e alla donna, noi opponiamo il mostro, l’Antipapa, costruzione inquietante e terribile. Le figure delle differenze vivono e parlano al limite del corpo, al limite del vestito – nel sito della loro mostruosità, soglia mostruosa in divenire. In questa casa, nel mostruoso, dove domina l’Antipapa e dove ciascuno si veste e si sveste in una vorticosa danza infinita, le differenze si fanno (si bucano, si drogano, inalano sostanze psicotrope, cadono nei vortici delle dipendenze). È un luogo terribile, ma è l’unico in cui sappiamo respirare: un attimo prima dei corpi, un attimo prima dei vestiti.

1 Rileggo giusto ora l’articolo di Luca, e ricordo che ricordavo male. Luca oscilla infatti tendendo verso il vestito, il segno, a sfavore del corpo, della cosa. O, forse, consapevole com’è della co-costituzione di corpo e segno, sa bene che un discorso sul segno è sempre possibile, dato che risulta essere segno che fa segno verso un segno (una perfetta consonanza); ma un discorso sulla cosa, dal momento che è già discorso, deve rimanere un non-discorso, una chiacchierata tra fantasmi, un sotto-testo che s’agita. Come i corpi stanno «ai bordi delle strade», così i discorsi sui corpi sono e devono essere relegati ai margini, “ai bordi dei racconti”.

2 Nel suo Nudità (Nottetempo, Milano 1993), il filosofo italiano Giorgio Agamben afferma che, al contrario, prima del peccato, Adamo ed Eva non erano nudi ma vestiti dalla grazia divina: «Prima della caduta, essi, pur non essendo ricoperti di alcuna veste umana, non erano nudi: erano coperti di una veste di grazia, che aderiva loro come un abito glorioso». E ancora: «Prima della caduta, l’uomo esisteva per Dio in modo tale che il suo corpo, anche in assenza di ogni veste, non era ‘nudo’. Questo ‘non esser nudo’ del corpo umano anche nell’apparente assenza di vesti si spiega col fatto che la grazia sovrannaturale circondava la persona umana come una veste. L’uomo non solo si trovava nella luce della gloria divina: era vestito della gloria di Dio». Il fatto che, all’interno della teologia cristiana, il corpo non sia nudo nemmeno antecedentemente al peccato sembra testimoniare una tendenza al rinnegamento della nudità tout-court. Infatti, il denudamento coincide con il peccato, e anticipa la storia della caduta. In quest’ottica, il peccato è pensato in quanto taglio della differenza che conduce da veste (divina) a corpo nudo, corpo che richiede a sua volta una vestizione profana (il vestito). Per queste ragioni, Agamben affermerà che «Una delle conseguenze del nesso teologico che nella nostra cultura unisce strettamente natura e grazia, nudità e veste è, infatti, che la nudità non è uno stato, ma un evento. In quanto oscuro presupposto dell’addizione di una veste o subitaneo risultato della sua sottrazione, dono insperato o improvvida perdita, essa appartiene al tempo e alla storia, non all’essere e alla forma. Nell’esperienza che possiamo averne, la nudità è, cioè, sempre denudamento e messa a nudo, mai forma e possesso stabile. In ogni caso, difficile da afferrare, impossibile da trattenere».



Appendice di un’Appendice (di Luca Rocco)

Dentro il nostro cervello, come elminti a milioni,

formicola e si scatena un popolo di Demoni.

(Charles Baudelaire)

Quando Simone Raviola mi inviò lo scritto che avete appena finito di leggere, ne rimasi profondamente colpito. Corpo Velato, il racconto che scrissi un po’ di tempo fa per questa rivista, non aveva la pretesa di essere capito, io per primo non lo capii affondo e lo lasciai lì, senza fondo, che si inabissasse da solo. Era nato da delle immagini e delle impressioni sfuocate, scolorite, umbratili, come quelle che si presentano agli occhi di chi, come il sottoscritto, soffre di una forma acuta di miopia genetica e le consegnava al lettore con tutto il loro alone di fumo e opacità. Tra chi leggeva, a quanto pare, c’era qualcuno che quelle immagini le avrebbe messe a fuoco, le avrebbe sfregate una contro l’altra, le avrebbe incenerite, gli avrebbe dato fuoco. Le categorie dei lettori di fronte a un testo sono pressoché infinite: c’è chi resta indifferente e chi si commuove, chi si lascia trasportare e chi detta la direzione, chi legge solo le prime righe e chi legge e rilegge, chi gode delle impressioni e chi ne è annoiato, chi corre e si nasconde tra le tende della narrazione e chi le squarcia, chi al fondo non ci arriva, chi non ci vuole arrivare e chi ci si spinge a tutti i costi. Simone punta al fondo, vuole vederci chiaro, getta la sua rete il pescatore Simone, una pesca a strascico che raschia il fondale, che lo cambia, lo deforma e lo riforma: un’azione illegale e mostruosa. La sua appendice ha il pregio di saper pescare, catturare e far emergere la logica sottintesa a Corpo Velato, ma questo non è tutto, è solo la parte meno interessante, certo, ci vogliono delle capacità per capire a fondo la logica di un testo che si sforzava continuamente di velarla, ma l’azione davvero rilevante è quella successiva: ci pensa sopra. E una volta fatta sua, la usa contro il testo, lo completa, lo trasforma e, ancora una volta, lo deforma, prolungandolo e spingendolo più a fondo, tra i mostri dell’abisso. A ben vedere, nel suo testo, dopo la pesca c’è l’immersione. E chi la compie, a sua detta, è un mostro. L’azione mostruosa del raschiare il fondo si trasforma nella mostruosità di chi si immerge, o più propriamente cade, oltre il fondo, in un fondo più fondo del fondo, nel luogo della crisi e del collasso, dove non ci sono altro che vortici. I richiami a Cronenberg e Ernst ci introducono nello spazio di questa nuova atmosfera, in cui lo spettro si è fatto mostro, il Papa Anti-Papa, la nudità deformità, il testo appendice. Appendice. Qui stiamo parlando di segni e corpi, di testi e organi, di vestiti e carne. Che cos’è un’appendice? Dal latino appendix-icis, derivato di pendēre «pendere». L’appendice è una parte aggiunta ad un’altra, pendente da quest’ultima, ne è un supplemento, un prolungamento, una sporgenza, uno sperone. È un termine complesso che ha molti utilizzi in diversi campi, all’interno dei quali assume particolari configurazioni; a noi, per il momento, ne interessano soltanto due, perché il movimento che intercorre tra questi due usi del termine è, a mio parere, illuminante nel mostrarci l’oscillazione e la tensione che percorrono lo spazio in e tra Corpo Velato e Il taglio della differenza. L’appendice può essere riferita ad un testo e in questa accezione ne costituisce un’aggiunta finale con lo scopo di chiarirne alcuni punti, di sbrigliare alcuni nodi e di abbozzarne e svilupparne degli altri. Siamo nel campo dei segni, dei vestiti e dei testi, siamo nel sottotitolo e, in un certo senso, nella prima parte dello scritto di Simone. Ma l’appendice è anche qualcosa di un po’ più mostruoso e carnale, è, allo stesso tempo, un piccolo mostriciattolo: appendix vermiforme. Percepite il movimento, ci stiamo spostando verso il campo dei corpi, degli organi e delle secrezioni, verso la seconda sezione del testo di Simone. Quella parte dell’intestino che prende il nome di intestino cieco, non è del tutto cieco, è un vicolo cieco in cui, nella parete che lo chiude, si apre una piccola fessura, un prolungamento cilindrico mediamente lungo nove centimetri, che come tutti gli organi, le membra e le viscere, a me, ha sempre fatto un certo senso. La cosa interessante di questo vermiciattolo è che, ad oggi, non sappiamo ancora quale sia la sua effettiva funzione: essa infatti, a differenza di tutto il resto dell’intestino, sembra non avere alcun ruolo nell’assorbimento degli alimenti. C’è chi sostiene che la sua funzione sia quella di filtro e dunque che prenda parte al processo di eliminazione dei rifiuti organici, chi invece la considera una sacca di riserva e di produzione di batteri e microbi che hanno un importante ruolo nel buon funzionamento della digestione e nella prevenzione di infezioni. Ma aldilà delle questioni mediche, c’è una posizione nei confronti dell’appendice che a noi interessa particolarmente e ci dice: l’appendice non serve proprio a nulla. Secondo questa prospettiva l’appendice sarebbe un residuo, uno scarto organico, di un non ben identificato passato remoto dell’uomo, che nel tempo ha perso completamente la sua funzione originaria. Sotto questa luce l’appendix vermiforme è detta vestigia filogenetica. Attenzione al passaggio. Vestigia, plurale di vestigium, in latino significa tracce. Termine che ha un’origine oscura, e non poteva essere altrimenti. Termine che in italiano antico è anche utilizzato per indicare le vesti, gli indumenti. Termine che denota anche le rovine, i resti e i ruderi di un passato perduto. Segno del passaggio di qualcuno. Bisogna in-vestigare, seguire le tracce, mettersi sulle tracce di un’appendice che oscilla e che pende, che si differenzia e lascia segni, dobbiamo percorrere lo spazio di questa oscillazione tra il testo e l’intestino, captarne le vibrazioni, le nubi, i fumi. Fumées in francese sono i fumi, i gas, i fumi della sbornia, ma anche gli escrementi, i resti, gli scarti organici della selvaggina che i cacciatori usano come tracce. Pensare questo scarto, questa spaziatura, questo pendolare da cui scaturiscono vestigia filogenetiche e tessili, organiche e semantiche, significa pensare all’appendice di un’appendice.

Simone Raviola

Ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige la rivista sovrapposizioni ed è socio dell’associazione di produzione d’arte Landescape. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

Indietro
Indietro

Nimic, di Yorgos Lanthimos – Imitazione, annichilazione

Avanti
Avanti

Assenza, estimità, aimance. Le lacrime di Lacan