Assenza, estimità, aimance. Le lacrime di Lacan
Solo due volte Lacan fu visto piangere. Per la morte della primogenita Charlotte e per la scomparsa di Merleau-Ponty: amico, fantasma, irriducibile altro in-compreso. Ma qual è il modo di darsi dell’amicizia? Fu, la loro, un’amicizia inscritta sotto il segno della fenomenologia? Quale la centralità dell’assenza, in fenomenologia e in amicizia?
Nel suo ultimo saggio (Le lacrime di Lacan. Fenomenologia di un’amicizia, Orthotes 2020) Giorgio Rimondi contorna i bordi di un’assenza, quella di Merleau-Ponty nella vita di Lacan, indagando come il buco nella presenza, l’eccezione nell’abitualità del “rapporto” previsto, sia sorgivo per l’aimance, stato originario di amore-amicizia, che già Derrida mirabilmente intuiva in Politiques de l'amitié (1994).
Le lacrime di Lacan, versate la sera del 3 maggio 1961 per l’arresto cardiaco che colse l’amico, sono anche le lacrime della psicoanalisi quando la filosofia muore (p.120), o minaccia di morire. Una dose importante del riconoscimento del proprio lavoro, Lacan la cercò nei filosofi. Il sostrato testuale del discorso lacaniano non si sosterrebbe senza la filosofia. Rimondi innesta quest’amicizia fulgida e alimentata dall’assenza su uno sfondo di ricezioni, debiti intellettuali, eredità con cui fare i conti, che rispecchia l’articolazione problematica dei saperi nell’archivio.
La psicoanalisi è accolta dalla Sinistra francese, in particolare dal Partito comunista, come ideologia reazionaria; Merleau-Ponty diffida a lungo dell’inconscio, prima di approdare a una “filosofia della promiscuità” che dialoghi con esso per (im)pensarsi; Ricoeur tenta di inglobare la psicoanalisi in un capitolo della storia dell’ermeneutica, Heidegger liquida gli Écrits di Lacan come “palesemente barocchi” e rifiuta di leggerli. In più, le mode dell’epoca sono la neofreudiana attenzione al controtransfert e una ferencziana forma di alleanza terapeutica (l’“analisi reciproca”), distanti dalla dissimmetria del setting lacaniano, che punta ad abiurare l’analista come altro delle identificazioni immaginarie: l’analista, per Lacan, deve incarnare nient’altro che il desiderio.
Un sapere spurio, scomodo, dissimmetrico e discrasico come la psicoanalisi tenta di prender posto nell’istituzione dell’archivio, provocandovi l’immistione di un’alterità radicale: un buco nel sapere stesso e un soggetto mancante che si sostiene su un’etica del desiderio.
L’ipotesi di Rimondi è che la filosofia debba fare i conti – se vuole pensarsi – con dinamiche di transfert. Il setting analitico è all’origine della filosofia: Socrate sostiene il discorso filosofico su un buco del sapere; non sa nulla, ma sa come funziona: “Alcibiade, tutto ciò che hai appena rivelato parlando di me tu l’hai detto per Agatone” (Platone, Simposio, XXXVIII); sa custodire l’agalma, l’oggetto del desiderio al cuore del linguaggio: in lessico lacaniano, l’object petit a.
Lacan e Merleau-Ponty hanno scritto il desiderio nella filosofia, ciascuno con la propria lalangue ossia con un’invenzione singolare che eccede rispetto ai codici del significante ordinario. Dopo di loro, Rimondi ci consegna con Le lacrime di Lacan una scrittura desiderante, mai segnata dalla condanna dello stesso, del definitivo, dello storicamente “dato”, del non questionabile. Dietro la precisione delle ricostruzioni storico-biografiche, soggiace quella che in termini derridiani è un’“impazienza assoluta di un desiderio di memoria” (Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema 2005, p. 3).
La memoria non è sedimentata in pagine che ritessono i fili di un’amicizia storica ma è scompaginata da vuoti nei cui solchi abita il desiderio di ri-narrare diversamente, après coup, con un’azione retroattiva, posteriore, tardiva, sul luogo della perdita.
Traversata del fantasma e lavoro sull’assenza sono i significanti che guidano Lacan nei vent’anni in cui sopravvive a Merleau-Ponty: la sua scrittura, secondo Rimondi, è una problematica elaborazione del lutto (op cit., p. 118). Sebbene Merleau-Ponty abbia rivitalizzato un dialogo sulla psicoanalisi che, nel dopoguerra, “freudianamente parlando, versava nel semialfabetismo” (p.104), non è sul piano dell’arricchimento intellettuale, del con-sentire o del “reciproco beneficiarsi” che si dispiega la fenomenologia di questa singolare amicizia. Diverse le concezioni del corpo, il modo di stare nell’istituzione: Lacan peregrino sempre in cerca di una sede, in rotta con le associazioni di psicoanalisi, perpetuamente fonda e dissolve; Merleau-Ponty inserito al Collège de France, all’Università, all’École Normale Supérieure. Diverso il pensiero sull’intersoggettività e la trasmissione, nonché sulla portata dell’inconscio (p. 44). Una filìa che ha incluso il polemos, alimentandosi di una conflittualità muta, diventata spesso dramma dell’incomunicabilità. Lacan, attraversando il fantasma della morte dell’amico, insiste, rimugina, ripete: si illude che, se fosse vissuto ancora, “ci saremmo avvicinati, lo avrei indotto ad abbandonare il campo della percezione”, dischiudendogli “una nuova dimensione di meditazione sul soggetto, che l’analisi ci permette di tracciare” (p. 111). Ma dell’altro non si ha alcuna certezza, se non della sua estraneità radicale.
Il polemos che separa, cementandola, la philia dello psicoanalista e del filosofo è quello di due corpi animati da diverse tensioni: Rimondi oppone il corps propre merleaupontyano come “sistema di corrispondenze” che rende conto dell’“universale delle percezioni” al corpo lacaniano: libidico, pulsionale, corpo del godimento, pervaso dall’angoscia come segnale del Reale (p. 114).
In Merleau-Ponty permane il miraggio di un’intersoggettività dialogante, nonché di un’esperienza reale comunicabile, che in Lacan non può realizzarsi neppure nell’orizzonte ristretto della Scuola, i cui membri sono “sparsi scompagnati”, Uni singolari che non fanno comunità: sorge il problema della trasmissione. Rimondi traccia il limen che consente-impedisce a Merleau-Ponty di addentrarsi nel discorso psicoanalitico: se per lui Freud ha colto “i rumori della vita” (p. 32) – dunque una filosofia che voglia dirsi “del corpo vivente” deve dialogare con l’inconscio – tuttavia l’inconscio merleau-pontyano è sempre “altro lato”, mai “altra scena” (p. 44); ricondotto filosoficamente all’esperienza indagabile, è latenza che va slatentizzata e trasposta nel discorso cosciente.
Altro snodo decisivo dell’argomentazione di Rimondi riguarda le dinamiche transferali messe in gioco dall’amicizia, e dalla filosofia come forma di philia, e quindi la scelta di un maestro. Lacan era “estasiato” dai Seminari di Alexandre Kojève sulla Fenomenologia dello spirito tenutisi dal 1933 al 1939 presso l’École des hautes études, e dalla ricezione squisitamente francese di uno Hegel “del desiderio”. A sostenere il transfert di Lacan “maestri eccezionali” quali Alexandre Kojève (“qui fut mon maître, vraimant le seul”, p. 45), Hegel per il tramite kojèviano, Merleau-Ponty, soggiacente all’arbeit lacaniano come motore di una scrittura dell’assenza, e Martin Heidegger. Rimondi apre squarci dalla pregnanza immaginifico-descrittiva sulla Parigi del mecenatismo culturale di Gertrude Stein, il cui salotto riceve folate di una temperie cosmopolita, e delle librerie delle donne, quali Sylvia Beach, per poi spostarsi in Rue de Lille 5, storico studio di Lacan, e nella quiete de La Prevoté, casa di campagna a Guitrancourt, dove Lacan ospitò Martin Heidegger per un soggiorno che conferma le malentendu che sta al cuore del linguaggio: i fili dell’amicizia si allacciano così a un “terzo” criptico e silente, che fu Heidegger, e all’analizzante omosessuale Jean Beaufret.
Scrittura, malinteso, silenzio, fantasma sono significanti testimoni della scomodità dell’abitare il linguaggio, che per il proprio malinteso fondamentale assume nel saggio una condizione litorale – in continuità con Lituraterre – per dar forma a un discorso che non sia del sembiante. Rimondi dischiude le invenzioni singolari, “lelingue”, “leslangues”, tanto dei grandi maestri, come Martin Heidegger, quanto degli allievi che scelgono il “privilegio esclusivo del farsi influenzare”, come Lacan che, conscio della potenza del transfert instaurato coi propri maestri, fece sparire le tracce della propria biblioteca, “sicché nessuno potrà mai conoscere davvero gli autori e i libri su cui si è formato, né tanto meno valutarne le sottolineature e le note a margine” (p. 118). Tra lalangue heideggeriana e quella lacaniana intercorrono trasposizioni, scivolamenti, eredità foriere al contempo di vicinanza e dissidio (p. 66): transita l’Abgrund (abisso) come béance (mancanza), la Riss (frattura) torna in Lacan in veste di coupure (taglio) e la Zerklüftung (fessura) in quanto faille (faglia). Nel ricostruire le trame dei debiti concettuali di Lacan nei confronti di “maestri” e “amici”, Rimondi coglie la specificità di un discorso, quello lacaniano, che ha deliberatamente e provocatoriamente scelto di rovesciare la settima asserzione wittgensteiniana del Tractatus logicus-philosophicus, per cui “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, ampliando invece gli orizzonti del dire, proprio sulla scorta di quel “pensiero poetante” dell’ultimo Heidegger che aggira l’impasse della metafisica: l’amicizia tra Heidegger e Lacan è quella che Rimondi definisce un’ “amicizia nel dire” (p. 66). Significa forse che si esaurisce sul piano del linguaggio, dell’ordine significante? Al contrario, essa è, per usare un’espressione di Jacques-Alain Miller, estima (intimamente esterna e esternamente intima); è un’amicizia che trascende il piano dei detti suggerendo il più ampio piano del dire. È, cioè, una philia che ha nel suo cuore il polemos e che tenta di ricomporre in unità la discrasia tra il piano dell’enunciato (detto) e quello dell’enunciazione (dire), mantenendo tuttavia l’ “acutezza delle loro tensioni”. Poco importa, dunque, che Heidegger risponda col silenzio al domandare lacaniano: d’altronde in psicoanalisi «ogni parola chiama risposta. Non v’è parola senza risposta, anche se non incontra che il silenzio»[1]
Tale silenzio è la risposta del dire heideggeriano: equivoci, appuntamenti mancati, impassibilità di Heidegger quasi morente a Friburgo dinnanzi a Lacan giunto a visitarlo e al suo profluvio sulla nuova teoria dei nodi. Rimondi mostra come il silenzio abbia sgombrato il campo dall’ovvietà dei detti, affinché qualcosa di un Reale impossibile – che, da definizione, “non cessa di non scriversi” – acconsenta a scriversi: si tratta della traduzione lacaniana di Logos – testo di Heidegger in due versioni (1951 e 1954) – forse il maggiore incontro di filosofia e psicoanalisi, perché risultato del potenziamento di un ascolto, ossia dell’ascolto di un ascolto. Lacan ascolta Heidegger che ascolta il Logos originario.
Rimondi ha così ricomposto le trame di assenza, riprendendo con eleganza l’operazione derridiana per cui non è possibile parlare degli amici ma solo agli amici, da una posizione paradossale di prossimità e distanza. Ancora, l’ascolto di un ascolto. Rimondi ascolta Derrida di Politiques de l’amitié che ascolta “il detto che Aristotele aveva molto familiare”: “O amici, non c’è nessun amico”. Così, al centro del sapere il buco che lo smentisce rendendolo a se stesso insaputo; al centro dell’amicizia l’ambiguità irrisolvibile dell’assenza dell’altro: nel luogo merleau-pontyano dell’invisibilità del visibile.