Continuità e implicazioni

Ci sono libri che solo dal titolo richiamano l’attenzione dei contemporanei: L’automa (Federico Leoni per Mimesis, 2019) è uno di questi. Oggi automa, automazione, automatico, automatismo e via dicendo richiamano l’occhio pigro da smartphone come poche altre cose. Dal senso comune alla filosofia (perfino a tratti quella pop), neuroscienze incluse, vediamo un’inondazione del database mondiale sotto forma di libri, articoli, film che tentano di mettere a fuoco il problema dell’automa. Ecco, prima di leggere questo libro, scordatevi tutto ciò. O meglio, ricordatevene solo alla fine, dopo averlo letto attentamente. L’automa di Federico Leoni si situa infatti su un altro piano. Fuori dalla questione della tecnica, pochi e corsivi i riferimenti a questa, il libro prende di mira tutt’altro problema, un problema di fatto ontologico. L’automa in questo senso, e la quarta di copertina lo racconta, è un nome. Ma nome di che cosa? «Della produzione incessante di differenze» scrive Leoni, ma anche «della risonanza telepatica di ogni cosa in ogni cosa» e, infine, «della solitudine iperconnessa di ogni essere». Questo libro tratta di una sola cosa, o di molte che a loro volta la condividono e che la consegnano al pensiero, ma lo fa, elevando il proprio contenuto a forma, attraverso dei punti di vista che esprimano l’intera situazione di cui fanno parte, e viceversa. Non solo: molti i periodi parattatici dove domina l’uso della virgola, espressività peculiare che produce l’impressione che la scrittura di Leoni replichi su un altro piano, il terzo o il secondo che si voglia, ciò che il libro tenta di indicare e ciò che la forma del libro “rappresenta”. I punti di vista, la dispersione e l’avvolgimento, l’implicazione e la piega dominano il saggio. Ma insomma, che cos’è che nomina l’automa? Che cosa interessa realmente il nostro autore? Vediamo un po’ di capire quali sono i punti fondamentali della questione.

Primo snodo chiave del saggio: l’automa non è la macchina e Leibniz, autore che insieme a Bergson compone il sottotitolo, non è Cartesio.

In un lucido passaggio Leoni individua la differenza tra automa, Leibniz, e macchina, Cartesio: «L’automa si muove da sé. È ciò che si muove da sé, secondo un proprio impulso […] O addirittura secondo una sapienza tutta propria. […] Ogni macchina è mossa da altro, suppone un ulteriorità, attende che un uomo o un dio la mettano in movimento. Quanto a lei, la macchina è fondamentalmente immobile» (p.50-51). È da questa distinzione che dobbiamo intraprendere il nostro cammino, tra macchina e automa sussiste una differenza. Da una parte la piena materia che non richiede altro che sé per muoversi e appunto vivere, dall’altra il corpo morto che per forza di cose, per essere animato, invoca un principio trascendente. Leoni, richiamandosi a Leibniz, vuole a tutti i costi scongiurare un’ontologia che pensi il suo oggetto nei termini di questa seconda modalità. In fondo lo capiamo già dalla collana in cui viene pubblicato questo saggio, Canone minore (diretta, ça va sans dire, da Rocco Ronchi): la trascendenza non ha qui diritto di cittadinanza. Si tratterà allora, con un duplice e complementare movimento che s’installa su differenti piani – ferite, insetti, numeri e sogni – di decostruire il discorso metafisico classico a favore di una pura immanenza.

Qual è per il nostro autore il discorso della metafisica che da Platone in poi domina l’Occidente? Si tratta di quel pensiero che articola la realtà in base al funzionamento del linguaggio e che quindi è costretto (o si costringe) a vedere ovunque macchine, costituite e costituenti partes extra partes. Queste macchine in ogni caso sono nient’altro che la proiezione antropologica del linguaggio (alfabetizzato) sul mondo: soggetti con predicati che si verbalizzano che, una volta caduti nella realtà, diventano essenze con accidenti che compiono atti. Tutto ciò, scrive il nostro autore, si fonda sulla questione, forse più radicale seppur inscritta ancora una volta nella natura del linguaggio stesso, di parte: «Il problema in fondo è tutto qui, è tutto in questa assunzione che sostanza e predicato, sostanza e accidente, soggetto ed evento, siano qualcosa come delle parti, siano descritti adeguatamente dalla parola parte» (p.14). Il linguaggio non solo struttura in base ai tre fondamenti sopra indicati (nome, verbo, predicato). In maniera ancora più radicale esso costituisce il mondo che lo circonda in parti, seziona la realtà, separa, ferma un flusso e un cambiamento costante (seppure minimale, quasi impercettibile) di ogni cosa che c’è. Questo evidentemente crea problema all’interno di una rigorosa analisi filosofica. In primis, questa visione del mondo rischia di non permettere alcuna risposta alla domanda base che essa stessa implica: che cos’è infatti una sostanza (in quanto parte)? Quali sono i limiti che confinano il nome in una sua essenza propria? Dove possiamo reperire un immutabile al quale attribuire dei predicati passeggeri, appunto, accidentali? La questione non è facilmente solubile, in un esempio: «Potrei togliere l’episodio della pallottola [la ferita di pallottolla subita da Joë Busquet, nota mia], ma Joë Busquet sarebbe ancora Joë Bousquet? Quando potremmo affermare che un certo evento è ininfluente su Bousquet, sul suo essere Bousquet?» (p. 11). In altri termini, che cosa mi garantisce che ogni cosa di cui sono fatto non sia essa stessa un accidente in modo che, scavando all’infinito, io non trovi che accidenti su accidenti? Quanto siamo disposti a “togliere” dalla sostanza? Dove finisce una parte e dove ne inizia un’altra?

Abbiamo toccato il fondo: la tesi fondamentale del saggio allora è quella che non esistano parti, che viga nel mondo una continuità reale a cui si oppone una discontinuità che è solo nominale. O meglio ancora, che non esistano parti fuori dalle parti, ma che ogni parte sia parte interna ad ogni altra parte. Si tratta allora non di opporre all’immutabilità della sostanza il divenire degli accidenti, quanto di mandare all’aria tutto il piano su cui questa opposizione s’installa. La crociera ha levato gli ormeggi.

Fino a qui sostanzialmente tutto bene, la crociera è per definizione ciò che va liscia sul mare toccandolo appena (almeno nella percezione del passeggero). Eccoci però giunti in terre straniere, all’orizzonte si profila l’altra via. Da ora in poi però si viaggia su un piccolo motoscafo ad una velocità impazzita. Perché se la decostruzione non è poi così difficile, al momento di attuare questo ribaltamento metafisico le cose diventano complicate: l’operazione che dobbiamo compiere sarà quella di porre l’automa a fondo della nostro ontologia, contro la filosofia della macchina.

Dobbiamo insomma capire, secondo Leoni, come mai «L’organismo, quanto a lui, è una variazione pura, una variazione che non ha tema o ha un tema vuoto, un tema che non dice nulla, anche se un nulla singolarissimo»(p.28). Per spiegare cosa accade quando lasciamo il paradigma dualista classico, sostanza e accidente, e pensiamo quell’evento unico che è il costante mutamento, la variabilità assoluta, Leoni prende quattro esempi differenti: l’esistenzialismo di una ferita, la biologia di un insetto, la matematica del calcolo infinitesimale e il sogno di un fantasma. In tutti questi passaggi ad una cosa tende il nostro autore: a mostrare con decisione che esiste un «tratto grigio» capace di fare comunicare immediatamente, in un non-rapporto, le cose del mondo. Ogni cosa sarebbe costituita e costituente, implicata ed esplicata, in ogni altra parte dell’universo. E non perché vi sia da pensarsi una comunità anteriore, un’identità postulata da cui si possa poi fare derivare le differenze, ma perché ogni parte contiene la genesi dell’altra parte a cui si oppone, e viceversa; queste parti si implicano e si con-costituiscono con un gesto assolutamente comune, gesto che è fatto di una continuità che si dà istantaneamente in un momento qualsiasi (e in un luogo qualsiasi) e che compie la genesi della differenza stessa. L’uno, l’unità tanto ambita dalla filosofia, non viene pensato come separato dalle cose del mondo; e forse nemmeno banalmente coincidente con i molti: esso si esplica in ogni singolarità (tendenza “automatica” di un ente), la quale avvolge e subisce ogni altra singolarità. Con le parole di Leoni: «ogni cosa fa automaticamente ogni altra ed è fatta automaticamente da ogni altra» (p. 47) Esempio: non c’è corpo e non c’è pallottola, ma c’è ferita, punto di vita, ed è dalla ferita che si genera la pallottola come fondamento genetico del corpo e viceversa: «Ogni punto di vita è un prendere ed essere preso, un implicare in sé e un essere implicato in altro, cioè un esplicare altro facendosene estensione intanto che si fa dell’altro la propria estensione ed esplicazione, la propria materia quasi inerte, il proprio lontano incipiente cadavere» (p. 59).

Il rapporto così costituito tra gli enti non è di separazione, partes extra partes, ma di continuità, segnata questa da gradi di intensità piuttosto che da qualità distinte. La domanda della filosofia non sarà più allora “Che cos’è Joë Bousquet?”, per riprendere l’esempio che ponevamo qualche paragrafo più sopra, ma piuttosto: “Quanta pallottola c’è in Joë Bousquet?” , dove evidentemente non si tratta di una quantità estensiva (peso, grandezza, etc) quanto intensiva. La domanda è stata mutuata e, forse, ora possiamo cominciare a risponderle.

Seguendo ciò che è stato detto è allora evidente il fatto che «Se si assume questo schema [sostanza-accidente, soggetto-predicato, nota mia], questa mappa, la filosofia è impossibile. [o meglio] la filosofia è possibile solo nella forma dell’esplorazione infinita della propria impossibilità, è possibile solo come infinita rivisitazione della propria aporia» (p.13); questo libro è dunque (anche) una sorta di volontà, volontà di tornare - iniziare, continuare, a seconda di come si guardi la questione - a fare speculazione filosofica.

Simone Raviola

Ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige la rivista sovrapposizioni ed è socio dell’associazione di produzione d’arte Landescape. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

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