Patocka e la vita nell’ampiezza
Praga 1973, siamo a ridosso dello sgominato tentativo ceco di instaurare un socialismo dal volto umano di cui fu promotore Alexander Dubcek. Come da copione Jan Patocka uno degli intellettuali più significativi del ‘900, allievo di Husserl e Heidegger, viene travolto dai fatti storici ed è costretto al pensionamento anticipato. Ma non si arrende, continua a scrivere, continua a insegnare. Decide di resistere, di tenere delle lezioni private per i suoi studenti più affezionati. Lezioni e saggi che racchiudono lo scibile umano, a cominciare dall’essenza dell’essere che ha continuamente da rendere conto di sé. «Ma che cos’è l’uomo nella sua essenza? […] Questo nucleo essenziale dentro di noi è dunque psyché» (pp. 29-30). Pertanto, esiste per noi la possibilità, interrogandoci ancora su di essa, di riappropriarci dell’areté ovvero di una possibile forma di autenticità? La risposta consiste nel rimanere sulla soglia dacché «la nostra psyché è tra il vero e il non-vero»(p.31); tra la regione visibile e lì dove tutto tutto sommato è Uno; tutto è uguale per tutti. La tecnica è la realizzazione-risposta concreta che offre l’uomo alla sua assatanata volontà di potere e demoniaca mania di possesso. Colei - la téchne - che ci ha avvicinato a ciò che un tempo era appannaggio dei divini e che ci rende sempre meno e allo stesso tempo sempre più mortali. Giacché, in forza della sua essenza ci mette ad ogni passo continuamente nel duplice pericolo della perdita, della zoé e del bios. In primo luogo, assoggettandoci alla vita dell’equilibrio che nel terzo saggio dell’opera intende come: «quella vita che trattiene la luce monotona del giorno ordinario e innalza la visione diurna contro la sperimentazione notturna del proprio opposto» (p. 68) Una concezione che ci dà ad intendere l’impoverimento dell’umano sapere e dalla sua applicazione tecnica ad esso. La vita diventa porzionamento razionale frutto di un calcolo che tende ad eliminare gli elementi incomprensibili seppur necessari. Il ripiegamento nella comodità di una vita sinottica rende inattuabile la possibilità della sua controparte. Questa è la vita nell’ampiezza «laddove l’uomo lascia dietro di sé il livello ordinario dell’incantesimo della vita quotidiana […] è laddove l’uomo incede con volto sereno per porsi innanzi a ciò di fronte a cui la nostra paurosa limitatezza sfugge» (p. 72). Cosa ne è dunque del sacrificio autentico per l’autentico? Intendiamoci: questo non è quello del fondamentalismo che secondo Patocka è uno sacrificio dell’ente per l’ente il quale «è per così dire, uno scambio: guardo a me stesso, in un certo senso oggettivamente, come una certa forza, accettando il dispendio di questa forza per conto di uno scopo piuttosto che di un altro»(p. 150). In termini a noi ben più comprensibili anche l’essenza del sacrificio è diventato funzionale all’apparato di funzionamento tecnico: esso viene eseguito sotto il segno del rendimento e del dominio dell’essere. Per dare prova dell’esperienza del sacrificio Patocka cita i casi di due uomini del suo tempo che, secondo il filosofo céco, hanno compreso fino in fondo cosa esso voglia dire. Si parla di Sacharov e Solzenicyn i quali dimostrano che il sacrificio è qualcosa di oggettivo e di essenzialmente negativo la cui negatività però mostra in ciò il suo polo positivo. Appare chiaro quando due uomini di due posture contrapposte – l’uno iper-moderno l’altro tradizionalista – esprimono in modi differenti che il sacrificio autentico è qualcosa per cui «non vi è profitto, in quanto si tratta del fatto che l’essere si mostri come tale [e come tale va accettato fino in fondo], come ciò che domina» (p.150). La libertà forse non è volontà di potenza ma, di nuovo, «qualcosa di negativo, una negazione, uno sforzo, e che l’umano non si dà solo nell’esigere, nel volere sempre di più, ma esattamente nel contrario».
«A cosa ci siamo abituati nell’epoca tecnica? A esigere costantemente» (p.152-153) qui ed ora, guardando al futuro come possibilità per continuare ad esigere.
Nel 1973 in un altro saggio dal titolo Platone e l’Europa Patocka scrive che la storia d’Europa è il tentativo di realizzare la cura dell’anima. L’incisività di questo pensiero ci dà la possibilità di comprendere il fil rouge che attraversa la raccolta di saggi – La cura dell’anima, appunto - edita in Italia per Orthotes. Il titolo a causa della sua genericità può essere fuorviante per chi cerchi un senso che non sia quello strettamente e unicamente filosofico. Ma questa raccolta si compone non solo di scritti su autori e temi tra i più disparati ma mette insieme, ricalcandolo, quell’arco temporale che va dagli anni ’30 del ‘900 fino agli anni ’70. Dunque, abbiamo già due piani di lettura diversi: cronologico e tematico – e viceversa. Ciò che ci lascia intravedere se scorgiamo frettolosamente l’indice è che si comincia con Platone. Al di là dell’apparente ovvietà, con questo incipit l’autore ci suggerisce che il percorso intrapreso tra queste cinque decadi deve essere pensato di nuovo a partire dalla filosofia platonica e dalla profondità insuperata dei risvolti politici che il pensiero del filosofo greco porta con sé. Il sostrato poi, su cui il suo pensiero si radica è in generale non solo l’Europa come culla geopolitica ma ancora e di nuovo la Cultura occidentale nella sua ampiezza totale, da intendersi perciò, nel suo senso più profondo come complessa e inesauribile flusso concettuale che racchiude tutto il pensiero sull’essere. Quell’essere però che, heideggerianamente, non è un ente: L’essere-Europei. Questo essere europei significa qualcosa come marchio, pietra miliare che ci segnala ontologicamente il quale è già da subito gettatezza all’interno della polis ovvero, l’esser ipso facto nel mondo con gli altri. Da qui segue la ricerca di senso di questo esser-nel-mondo. Una profonda operazione di scavo che comincia al contrario. Dalle nostre sovrastrutture ormai diventate più che mai l’imperativo del verbo latino moneo che ci impongono ancora una volta la catabasi giù fino alle nostre origini. Un processo complesso che comincia dallo scoramento, dallo scuotimento di noi stessi. Dalla criticità del dopo che si fa domanda sulle sue criticità. Un percorso che non parte più dalla meraviglia platonica – il thaumazein - ma dallo scabroso e dallo scandalo. Il lungo arco di tempo nel quale questi saggi vengono redatti rappresentano, giacché di fatto lo è, il periodo di maggiore pericolosità per il vecchio continente: l’anno dello scoppio della seconda guerra mondiale e il post-’68 che in Cecoslovacchia ha poi portato ai fatti della primavera di Praga, l’ennesimo monito di un mondo che in quel momento storico ha reso palpabile l’imminente apocalisse.