Su Yves Bonnefoy: poesia, tra due mondi

«Se il poeta si cancella, se alla poesia viene conferito lo statuto di oggetto autonomo e pieno, non vediamo forse crearsi una specie di vuoto? Certo; si tratta però del luogo dell’altro, di ciò cui la poesia tende, ma che non ottiene, di quel che essa desidera e sfida senza riuscire a catturarlo».

Pubblicato da: Board of Regents of the University of Oklahoma, link: http://www.jstor.org/stable/40132178. Pubblicato per la prima volta nell’estate del 1979.

A cura e traduzione di Arlindo Hank Toska

“They look'd as they had heard of a world ransom'd, or one destroyed.”

[Sembravano come se avessero appreso di un mondo riscattato, o di uno distrutto]

Questa frase dell’ultimo atto - la scena del riconoscimento (5.2) - di The Winters Tale funge da iscrizione di Dans le leurre du seuil, che costituisce la parte conclusiva del recente volume di Poesie di Yves Bonnefoy. La collezione precedente, Pierre écrite, ora la terza delle quattro parti riunite nel Poesie, portava anch’essa un’epigrafe presa dalla stessa opera (3.3): “Thou mettest with things dying; I with things new born”. Prese in prestito da un’opera che Bonnefoy ha mirabilmente tradotto e la cui mitica essenza gli è cara, queste epigrafi non implicano la scelta di un punto di riferimento nella grande tradizione poetica dell’Occidente; sono la voce del passato che avverte, che segnala ciò che è attualmente in gioco; e indicano precisamente, mi sembra, in modo emblematico e seminale la predominante e doppia questione sollevata dalla poesia di Yves Bonnefoy. In primo luogo, la parola monde ci dice che si tratta davvero di una domanda sul mondo, o di un mondo dalla totalità coerente, e un insieme di relazioni reali. Ma l’esistenza stessa di questo mondo è in sospeso, in termini alternati posti in opposizione: riscatto e distruzione (ransom’d, destroyed), cose che muoiono e cose appena nate (things dying and things newborn). Il mondo poetico indica quindi la sua originale preoccupazione, il luogo della sua venuta alla luce, che è l’istante del pericolo, dove tutto è bilanciato tra vita e morte, “redenzione” e perdizione. Le epigrafi shakespeariane, nella forza stessa dell’antitesi, raccontano del divario, dell’insicurezza, ma anche dell’ondata di speranza: l’unica sorgente – a parte qualche clamore di una condizione "posseduta" - che Bonnefoy assegna alla sua poesia. Quelle sono le costanti.

L’epigrafe presa in prestito da Hegel, che si trova all'inizio di Du mouvement et de l’immobilité de Douve ha già evocato il confronto tra vita e morte: “Ma la vita dello spirito non ha paura della morte e non se ne mantiene pura. Sopporta la morte e si mantiene in essa”. La domanda sul mondo, a sua volta, era stata posta, ma in modo critico, come l’iscrizione della seconda raccolta, Hier régnant désert, in una frase presa in prestito dal Hyperion di Hölderlin: “«Tu vuoi un mondo», dice Diotima. «Ecco perché hai tutto, e non hai niente»”. Anche in questo caso, l’idea del “mondo” è collegata ad un’alternativa, essa stessa stabilita nella principale opposizione del “tutto” con il “niente”. In un artista così innamorato della lucidità, la scelta di epigrafi equivale a dichiarazioni di intenti specifici, guidando così la lettura e la comprensione, permettendo al nuovo testo di essere afferrato. Il racconto d’inverno è un grande mito di riconciliazione. Dietro le citazioni di Hegel e Hölderlin, si possono rilevare i temi neo-platonici dell'Uno, di divisione e reintegrazione. Questioni la cui urgenza si rinnova per Bonnefoy, al di là di ogni garanzia data all'inizio, sono i discorsi del passato, un incoraggiamento a pensare alla situazione presente del linguaggio come a un momento in cui i rapporti umani devono rinascere, a cominciare da uno stato di dispersione. Il discorso citato è il viatico - alla soglia di un viaggio che si confronta con la terra inesplorata, lo spazio notturno, i luoghi della disunione.

*

Manteniamo l'indicazione: è una questione di mondo. Ed è certamente importante ricordare che l’espressione mondo ha assunto negli ultimi due secoli, specialmente nella poesia, un valore che in precedenza non aveva. Nel suo antico significato includeva, innanzitutto, l’insieme delle cose create, governate dall’ordine naturale; quindi, in senso religioso, la terra qua giù, nella sua contrapposizione con l’“altro mondo”; infine, in senso ancora più libero, un grande spazio terrestre, un continente, “nuovo” o “vecchio”.

Quando Shakespeare parla del mondo “redento” o “morto”, è in senso religioso che usa il termine, e, a lato, nell’ultimo significato qui evocato, quello di continente. Ma come sappiamo, Shakespeare, così come Montaigne, è testimone della crisi della rappresentazione del cosmo. Presto trionferà l’immagine copernicana del cosmo, il calcolo dell’astrazione, l’esperienza disciplinata. Questa nuova immagine del mondo fisico è stata costruita e descritta al prezzo di un rifiuto delle apparenze sensoriali. La testimonianza dei sensi ha dato credito a un universo di qualità sostanziali; ora è revocato dal dubbio, e, d’ora in poi, i segreti della natura saranno svelati solo grazie al “controllo della mente” (Descartes). I corpi celesti, i punti di forza utilizzabili su questa terra, seguono leggi che si conformano alla regola dei numeri e si lasciano quindi prevedere e dominare. E se la testimonianza dei sensi è richiesta nell’approccio sperimentale, il prezzo è l’abbandono della prima regione della vita sensibile. Il progresso della fisica matematica, accentuato da quella della tecnologia, ha subito aumentato la sicurezza materiale degli uomini e spostato la situazione della conoscenza: le forze della natura sono al servizio degli uomini (desideri umani, in questo mondo), ma loro, a causa di ciò, hanno dovuto rinunciare alla contemplazione di oggetti naturali, di cose singolari - lasciando così senza eredità l’intero territorio in cui ciò che ci circonda è percepito nel suo colore, nella sua musica, nella sua palpabile consistenza. Joachim Ritter ha dimostrato che l’attenzione estetica per un paesaggio, almeno in Occidente, è nata nel momento in cui certi uomini hanno preso coscienza del rischio implicito nel rinunciare alla ricchezza della percezione spontanea. Ma ha anche insistito sul fatto che il paesaggio poteva essere percepito solo come oggetto di piacere disinteressato, dal momento in cui le tecniche scientifiche permettevano agli uomini di sentirsi meno minacciati dalla natura, meno schiavi del dovere di semplicemente sussistere.

L’arte, la poesia, ricevono così, come loro diritto, questo dominio abbandonato dalla ragione calcolatrice, squalificato da un punto di vista scientifico che costruisce un mondo di relazioni algebriche: l’arte ha, d’ora in poi, come compito quello di ripopolarla, di distinguere al suo interno le virtualità della felicità, per perseguire anche una sorta di conoscenza, fondata su altre prove e prendendo il suo essere da un’altra legittimità. La conoscenza scientifica “prende le sue istruzioni da sistemi isolati” (sto citando Bachelard) e rimane scientifica solo nella misura in cui riconosce se stessa come dipendente dalla scelta dei propri parametri; d’altra parte, l’attività estetica assume l’antica funzione della theoria tou cosmou, della contemplazione del mondo come totalità e significato. La poesia, caricandosi sulle spalle il mondo delle apparenze, non si limita a raccogliere l’eredità del mondo sensibile da cui il pensiero scientifico si allontana. Il trionfo della fisica e della cosmologia matematica ha comportato la scomparsa delle rappresentazioni religiose legate all’antica immagine del cosmo: non c’è più empireo, al di là delle orbite planetarie, non c’è più dimora per gli angeli o per Dio. Niente lassù, nell’universo, differisce da ciò che è qui sotto: il mondo profano è l’unico beneficiario dell’applicazione della razionalità scientifica. Il sacro, se non deve scomparire, si rifugia nell’esperienza “interiore”, è legato all’atto di vivere, alla comunicazione, all’amore condiviso - e quindi sceglie come dimora il sensibile, il linguaggio e l'arte.

Tale è, mi sembra, la condizione paradossale in cui la poesia si è trovata per almeno due secoli: una condizione precaria, perché non dispone di un sistema di prove che potrebbe assicurare l’autorità del discorso scientifico, ma, allo stesso tempo, una condizione privilegiata in cui la poesia assume consapevolmente una funzione ontologica – intendo, al tempo stesso, sia un’esperienza dell’essere che una riflessione sull’essere – il cui fardello e la cui preoccupazione non ha mai dovuto sopportare nei secoli precedenti. Ha alle spalle un mondo perduto, un ordine in cui è stato incluso e dal quale, si sa, nulla può tornare in vita. Porta in sé la speranza di un nuovo ordine, un nuovo significato, di cui ne deve immaginare l’istituzione. Usa tutto ciò che è disponibile per accelerare l’arrivo del mondo non ancora espresso, l’insieme delle relazioni viventi in cui potremmo trovare la pienezza di una nuova presenza. Il mondo così preso dalla poesia è pensato in termini di futuro, come ricompensa del lavoro poetico. Rimbaud, uno di quelli che hanno maggiormente contribuito a imporre questa nuova accettazione dell’espressione mondo, osserva: “Non siamo nel mondo”, ed emette un’invocazione: “Oh mondo! e il chiaro canto della nuova infelicità”. Il Weltinnenraum designa uno spazio analogo, verso il quale ruota il pensiero di Rilke, in attesa del più sensibile dei mondi.

Il lavoro di Bonnefoy ci propone oggi uno degli esempi più impegnativi e ponderati di questa moderna vocazione della poesia. I suoi scritti come poeta e saggista, il cui accento personale è così marcato e in cui l’“io” di affermazione oggettiva si manifesta con forza e semplicità, hanno come oggetto il nella sua relazione con il mondo e non nelle sue riflessioni interne.

Questo lavoro è uno dei meno narcisistici possibili. È interamente rivolto verso l’oggetto esterno che conta e la cui singolarità, il cui carattere unico, implica sempre la possibilità di condivisione. L'affermazione soggettiva è quindi solo il primo termine di una relazione la cui forma sviluppata è un'interpolazione; il “thou” che si rivolge a un altro (la realtà al di fuori di me), ma anche il “thou” in cui il poeta trascrive una citazione che gli è rivolta – entrambi insistono almeno quanto l’“io” dell'affermazione personale. L’“io”, potremmo dire, è tenuto sveglio dalle preoccupazioni del mondo, per le quali è responsabile attraverso l'uso del suo proprio linguaggio. Avendo fatto ricorso al vocabolario dell’etica, Bonnefoy ci dice che la posta in gioco è un bene comune – un bene che deve necessariamente essere realizzato e testato attraverso l’esperienza individuale, ma non per il solo beneficio dell’individuo. Il soggetto, il sé così fortemente presente nell’atto dell’enunciazione, non rimane sulla scena di ciò che sta enunciando: crea un posto ampio per l’altro, per ciò che richiede compassione, e accetta che la coscienza individuale, faccia a faccia con il mondo, si pieghi ai requisiti di una verità di cui non può disporre arbitrariamente. Il solipsismo di tanti “discorsi poetici” dei tempi moderni è ciò che Bonnefoy sfida con più vigore. Non è il sé, ma il mondo che deve essere “redento”, o più esattamente: il sé non può essere “redento” a meno che non lo sia stato anche il mondo. Su questo punto, l’epigrafe scelta è perfettamente rivelatrice.

Dopo aver perseguito, durante la sua giovinezza, la matematica, la storia della scienza e della logica, Bonnefoy conosce, per esperienza, l’attrazione del pensiero astratto, la gioia che l’uomo può provare nella costruzione di un edificio di concetti e di pure relazioni. Ma come Bachelard, di cui ha seguito l’insegnamento scientifico, sa che il rigore della conoscenza richiede il sacrificio di prove immediate, di immagini primarie – e non si può rassegnare a questo. Anche Bachelard, dopo aver esaltato l’ascetismo scientifico, si è innamorato di ciò che si era rifiutato: le convinzioni del sogno, la configurazione che il desiderio dà allo spazio, le virtù immaginarie che prestiamo alla materia. Contrariamente a Bachelard, Bonnefoy non sentiva il bisogno di una dimensione dell’immaginario per salvaguardare il fuoco necessario alla vita, ma piuttosto una realtà semplice, piena e significativa: quella di una terra (terre), dirà con insistenza. Non che l’immaginario e il sogno non abbiano esercitato nella mente di Bonnefoy una seduzione persistente: i pochi anni in cui simpatizza con il surrealismo lo testimoniano. Ma ha sentito molto presto ciò che si rivelava nel “meraviglioso” surrealista, che non era lo sfondo dell’esperienza sensibile, con la ricchezza non percepita della ragione ordinaria, ma la “presenza nera in cui ciò che è diventa assente nel momento in cui appare davanti ai nostri occhi, chiudendosi alla nostra lettura”. Rileggendo il testo in cui Yves Bonnefoy spiega la sua rottura con i surrealisti, è chiaro che ciò che ai suoi occhi avrebbe dovuto prevalere contro l’immagine, in cui brilla “l'idea di un'altra luce”, è la realtà (“che è più che il super-reale”), “cose semplici”, “l’immagine del nostro luogo” o, infine, il “mondo”.

Non c’è presenza reale a meno che la simpatia, che è conoscenza nel suo atto, non sia stata in grado di passare come un filo non solo attraverso alcuni aspetti che si prestano alle fantasticherie, ma attraverso tutte le dimensioni dell'oggetto, del mondo, assumendole, reintegrandole in un’unità che io, da parte mia, mi sento garantita dalla terra, nelle sue evidenze, la terra che è vita.

Il rimprovero che Bonnefoy rivolge al surrealismo, simmetrico ma anche contrario rispetto a quello che rivolge alla scienza, è di aver abbandonato il luogo, il mondo a cui siamo assegnati, in nome di un altro ordine di realtà, che si rivela solo in modo fuggitivo, in esseri e istanti privilegiati; l’aura che segna improvvisamente un certo essere o oggetto – secondo l’esperienza surrealista – ha l’effetto di persuaderci “che una parte della nostra realtà, questo oggetto, porta ... nel suo essere le tracce, per lo meno, di un realtà superiore, che prende valore dalle altre cose nel mondo e dà la sensazione che la terra sia una prigione”. Questo è, per Bonnefoy, il segno di un atteggiamento gnostico: un atteggiamento che, per giustificare il suo rifiuto delle apparenze del mondo, fa appello al concetto di unità perduta, della Caduta, della ricerca necessaria per la salvezza in un’altra regione del reale. Ma la presenza del mondo e la presenza al mondo, la cui necessità Bonnefoy sente così intensamente, dovrebbe, secondo lui, essere mantenuta contro tutti i sogni e tutte le convocazioni che chiamano la nostra mente verso regni separati. Il surrealismo, con la sua propensione per l’astrologia, per l’occultismo (accentuato negli scritti postbellici di André Breton), propone solo una versione prescientifica e “magica” del discorso stesso della scienza deterministica: la ricerca del segreto non ha rimosso il surrealismo dall’immediato, dal “semplice”, dall'esistenza concreta.

Osserviamo qui che il mondo, il cui darsi Bonnefoy cerca di assicurare, assume il suo intero significato solo nell’opposizione su cui si basa: è il mondo riconquistato dall’astrazione, il mondo disimpegnato dalle acque notturne del sogno; ma questo implica sforzo, lavoro, viaggio. Il mondo, anche se si deve finalmente dire che era già lì, è prima di tutto assente e deve riunirsi con lo sguardo e la parola, a partire da una situazione di divergenza e di privazione. Tutti gli scritti di Bonnefoy – poesia, prosa, saggi – comprendono una serie di momenti, paragonabili a quelli di una traversata, in cui permane un desiderio condiviso tra memoria e speranza, tra il freddo della notte e il calore di una nuova luce, tra la denuncia del “richiamo” e la tensione verso la meta. Sono situati, per così dire, tra due mondi (nella storia personale, come nella storia collettiva): c’era un mondo in essi, una pienezza di significato, ma questi sono stati perduti, distrutti, dissipati.

Per chi non si lascia ingannare né dalle chimere né dalla disperazione, ci sarà ancora una volta un mondo, un luogo abitabile. E questo luogo non è “altrove”, né “laggiù”; è “qui”, proprio in questo posto, ritrovato ancora una volta come una nuova sponda del fiume, sotto una nuova luce. Ma questo nuovo argine è esso stesso prefigurato, inventato dalla speranza. In modo che questo spazio, tra due mondi, possa essere considerato come il campo in cui si sviluppa il discorso di Bonnefoy – un campo necessariamente aperto su immagini di percorso e di viaggio, che a volte determinano la narrazione, con tutte le “avventure” che intervengono nei racconti della ricerca: vagabondaggi, trappole, strade false, l’ingresso in città o edifici. Ma questa proiezione nello spazio è solo un’immagine, una virtualità allegorica, contro la quale Bonnefoy sa che deve difendersi. Tra due mondi: il viaggio è essenzialmente di vita e di pensiero, è costituito dal cambiamento della relazione di oggetti ed esseri attraverso lo sviluppo di un’esperienza di linguaggi.

L’estrema esigenza di Bonnefoy, in merito all’autenticità del secondo mondo con cui spera di finire, determina una serie di avvertimenti e di motivi, concernenti qualsiasi cosa che rischi di allontanarci da esso o di sostituirlo a buon mercato. Arriviamo fino al punto di dire che, a causa della sua proiezione nel futuro, davanti al punto in cui la nostra ricerca ci ha portato, il secondo mondo è definito meno dal suo stesso carattere (che potrebbe essere rivelato solo dalla sua venuta) che dal rifiuto di mondi illusori o parziali che vengono proposti al suo posto.

La dimensione del futuro e della speranza è di capitale importanza. Per quanto intenso sia il sentimento di un mondo perduto, Bonnefoy non permette allo sguardo verso il passato, al pensiero nostalgico, di prevalere. Molte volte, a dire il vero, lascia capire che nel passato delle culture umane c’era un’alleanza sacra con la terra, la cui testimonianza è stata raccolta dalle mitologie: ma il discorso mitico, ora silenzioso, non può nascere esattamente come era. Indica solo una possibilità di “pienezza” di cui l'esistenza umana è stata capace, in un mondo anteriore alla scissione che separa il linguaggio della scienza (del concetto) da quello della poesia. D’ora in poi la poesia, o almeno una nuova pratica del linguaggio, deve inventare una nuova relazione con il mondo – una relazione che, per quanto considerevole possa essere la memoria, non sarà la ripetizione dell’antica alleanza. Se in Bonnefoy la luce dell’unità restituita sembra brillare, in modo labile, essa non deve mai lasciare spazio per un sogno ad occhi aperti, ristoratore o regressivo, che potrebbe accogliere in sé il simulacro di un ritorno: Bonnefoy si limita a evocare, fortemente ma senza insistenza, una prima intimità con un’innocenza naturale. Ma la rottura, o la “Caduta”, è per lui troppo evidente per consentirgli di impegnarsi in un’attività di pura restituzione: i sogni ad occhi aperti dell’Età dell’Oro e il lirismo dell’idillio gli sono estranei. Una simile “fissazione del rimpianto” non può essere immaginata se non da colui che vorrebbe risparmiarsi complicazioni e accontentarsi di una “immagine” piuttosto che di quel “reale” mancante.

Nessuna passione, quindi, sebbene un certo passato (difficile da definire) appaia privilegiato rispetto alla nostra condizione attuale. Il primo mondo non può più servirci come rifugio. Se succede che Bonnefoy usa parole (in particolare verbi) che sono contrassegnate dal prefisso della ripetizione per “ri-animare” o “ri-centrare” il discorso, “per ricominciare una terra”, “per ritrovare la presenza” – ci fa sapere che non è mai per suggerire il ritorno ad un’antica pienezza o per attribuire ad essa un’autorità incontrovertibile: si tratta di definire il secondo mondo, come lo spazio di una nuova vita, un’altra plenitudine, una diversa unità, attraverso il quale la perdita del primo mondo possa essere, per così dire, riparata. Contrassegnando la sua distanza con il cristianesimo e Hegel, Bonnefoy rimane comunque attaccato a una certa immagine di trascendenza che spera di trovare, infine, in una forma infinitamente arricchita grazie al mondo della mediazione (che è giudizio e morte), con ciò che è stato perso o lasciato alle spalle all’inizio. Lo sguardo all'indietro, certo, non è negato: opere, lingue, miti invocano mediazione e ascolto, ma per nutrire la speranza e orientare la mente verso ciò che è ancora sconosciuto.

Affidare questo compito al linguaggio, alla poesia, significa, per Bonnefoy, porre come principio che il secondo mondo ha il suo fondamento nell’atto di quel discorso che nomina le cose (e che forse fonda l’“essere”), nella comunicazione vivente con l’altro, nelle vicinanze. Bonnefoy definisce questo compito, nei suoi testi sull’arte e la poesia, principalmente per viam negationis, denunciando il pericolo connesso all’esercizio del linguaggio, quando si verifica una rottura con il mondo, e soprattutto con l’altro, e si vanta con orgoglio della propria perfezione autonoma. Bonnefoy ha spesso ricordato a se stesso – e i suoi commentatori, a partire da Maurice Blanchot, gli hanno prestato molta attenzione – tutti gli argomenti da usare contro quelle seduzioni che potrebbero allontanarci dalla ricerca del “luogo reale” per “intrappolarci” (un'espressione chiaramente indicativa di una infelice immobilizzazione finale) in un universo separato. Questo avvertimento non è solo teorico; non è un articolo di dottrina estetica (o anti-estetica) che definisce una sorta di “morte dell'arte” come condizione di accesso al secondo mondo. Leggendo L'arrière-pays, che testimonia il progresso personale, osserviamo che si tratta di un pericolo avvertito internamente nella tentazione gnostica di un “altrove”, nella febbre suscitata dagli inviti, “laggiù”, di un “luogo vero”, ma che è solo in modo illusorio il luogo reale, perché richiederebbe la diserzione del qui, della realtà in cui il poeta stesso si sente decentrato ed esiliato. Separare è una colpa: ed è la colpa che coloro che “dicono parole” commettono quando abbandonano il “reale” per semplici nozioni; quando il sogno si allontana verso la distanza; quando l’immagine, in tutta la sua gloria, ha la precedenza sull’umile presenza delle cose; quando il libro o l’opera sono isolati nella loro perfezione chiusa, a lato, nella purezza “astratta” della loro struttura.

Esiste nel linguaggio un potere mortale – quando esso mostra la realtà nascondendola, sostituendola con l’immagine, col riflesso inconsistente. Quindi deve essere riportato in silenzio. Ma nulla può far sì che il linguaggio non sia anche portatore della nostra “speranza di presenza”. È quindi nella stessa scrittura che viene presentato il pericolo che stabilisce un “mondo morto” o un “mondo redento”. Se esistesse da qualche parte un “essere” minaccioso, Bonnefoy non afferma di rimanere intoccato da esso e non lo incolpa solo di un discorso malvagio che gli suonerebbe strano: l’epoca, la società, le ideologie ingannevoli. Accetta la sua percezione nei segni tracciati dalla sua stessa mano, negli oggetti la cui bellezza rivaleggia il suo sguardo, nella falsa strada “gnostica” dove il suo sogno di salvezza corre il rischio di perdersi.

Per Bonnefoy, esiste non solo una prima perdita del mondo, una prima scissione (in cui, come abbiamo visto, il “concetto” ha la sua parte di responsabilità), ma, soprattutto, la perdita è raddoppiata quando la liberazione è cercata in un “mondo-immagine” attraverso ciò che Bonnefoy chiama “concetto”, ma, questa volta, il termine è usato per designare le opere purificate, le essenze verbali, le forme sognate. Il mondo-immagine è il prodotto di una frattura aggravata, anche se, alla sua fonte, si deve riconoscere una vera speranza di unità, il movimento desideroso di pienezza: ma questo movimento è fissato come una “maschera” e costruisce l’ostacolo che si interporrebbe tra il nostro desiderio e la sua finalità – la presenza reale. A dire il vero, questo mondo-immagine, questa mondo-maschera è la negazione del mondo impoverito e “disassemblato”, dove viviamo in uno stato di attesa; ma queste parole, queste essenze, nate dal sacrificio dell’immediato, dall’attuazione dei primi doni dell’esistenza, non danno vita al secondo mondo: brillano con tutto lo splendore della morte. L'esistenza di cui si rende portavoce Bonnefoy (un'esigenza etica o piuttosto ontologica, piuttosto che estetica) rivendica una seconda negazione, una seconda morte, una negazione della negazione: una negazione “esistenziale” della negazione “intellettuale”, il cui prodotto era l’opera – l’immagine chiusa in cui la “Bellezza” era solita isolarsi deve essere distrutta, consumata e frantumata, quel sistema (il mondo verbale) in cui il linguaggio o, meglio, l’opera come linguaggio imprigionato – che, da questa morte, dovrebbe nascere come discorso traslato, l’atto vivente della comunicazione.

Vorrei aggiungere immediatamente una cosa su questo punto: è perché gli organismi concettuali, nel loro orgoglio espansivo, nella loro “fredda” radiosità e anche attraverso un potere di occultazione, assumono l’immagine del mondo, termine che nella maggior parte dei casi lascia spazio ad altri quando si tratta di designare quello che abbiamo definito il “secondo mondo”: Bonnefoy preferisce parlare di “Seconda Terra” (“Terre seconde”, il titolo di un saggio in Le nuage rouge) o di “paese” "(pays); o, ancora, “luogo vero”. Il termine mondo (monde), carico di antiche reminiscenze, dove il cosmo ha come attributo il ​​carattere stabile dell’armonia, non parla sufficientemente della finitudine, della condizione mortale, del tempo dato negli istanti di passaggio, che sono il lotto della vita terrena, a cui dobbiamo aderire. E vediamo Bonnefoy ricorrere regolarmente al termine mondo per parlare di mondi intelligibili, di linguaggi.

La terra ritrovata, ancora una volta, grazie al discorso (une parole) che potrebbe riunire, reassemble. Questo verbo, spesso usato da Bonnefoy nei suoi saggi e che appare alla fine di Dans le leurre du seuil, appartiene alla suddetta categoria di termini che iniziano con il prefisso della ripetizione che, tuttavia, non indicano un semplice ritorno. Riassemblare (il più delle volte coniugato nel condizionale, il modo della speranza che non include certezza) significa realizzare questa “co-presenza” che il concetto aveva promesso ma che non aveva veramente realizzato.

Annuncia una comprensione simultanea: con-cipere o be-greifen, che una relazione etimologica rende quasi equivalenti al riassemblaggio. Tuttavia, se ascoltiamo Bonnefoy, il concetto universalizza il pensiero dell’oggetto, sebbene manchi l’oggetto stesso nella sua presenza finita. L’orgoglio della comprensione spirituale agisce contro l'incarnazione: a questo proposito Bonnefoy insiste sul termine escarnazione. Al contrario, il riassemblaggio, come è definito in alcuni dei testi più avvincenti di Bonnefoy, serve a tenere insieme, alla luce dell’istante, esistenze precarie sostenute dal significato, aderendo all’essere per la grazia del linguaggio che è stato in grado di aprirsi, per preferirli a se stesso, in confidenza e compassione.

La terra, il luogo, il semplice, non hanno quindi bisogno di dispiegare per noi un mondo completo: è sufficiente che, con poche parole necessarie, abbiano dato la loro prova di verità. La “seconda terra” non si trova nel caos delle immagini sensoriali, nell’infinito “cattivo” dell’enumerazione delle cose (a meno che, secondo una delle qualità di Saint-John Perse che Bonnefoy ammira, ogni parola, carica del ricordo del reale, sia capace di risvegliare divinità istantanee, a volte incontrate nell’infanzia, nel cuore del mondo naturale). L’intuizione fondamentale di Bonnefoy non lo porta verso il lusso verbale, quelle grandi figure lessicali di abbondanza, la polifonia della percezione – anche se attribuisce al linguaggio rigenerato il crescente potere dell’onda – “le acque che sollevano”, “l'onda senza limite o riserva”. L'arca che costruisce non è quella dell'esaustività. Nella poesia dovrebbero rivivere solo quei termini che hanno attraversato (per la coscienza del poeta) il giudizio del significato, che sono stati strappati al freddo e all'inerzia, al fine di unirsi grazie ad un legame vivente.

Non è, per Bonnefoy, la molteplicità degli oggetti indicati che conta, ma la qualità della relazione che li pone in una presenza reciproca – una relazione che potremmo definire sintattica, se la sintassi non si esaurisse nell’ordine che istituisce: Bonnefoy spera in un movimento che stabilisca (o ristabilisca) un ordine, che attraversi e apra – essendo la metafora dell’apertura in grado di riconciliare la fedeltà (di ritrovare nuovamente il mondo o almeno per ricordarlo) e la funzione incoativa che ricade sul discorso (per iniziare a vivere secondo il significato).

Il progetto che Bonnefoy ha espresso molte volte è quello di “chiarire” alcune delle parole “che ci aiutano a vivere”. Un desiderio apparentemente limitato, ma che si carica di un’energia dominante grazie all’immagine dell’alba (“questo barlume che appare ad Est, nella notte più fitta”) o della fiamma che diventa un fuoco. Il compito assegnato alla poesia è di rianimare “alcune grandi parole in modo che esse possano aprirsi insieme su una radiosità infinita”. L'infinito è nello splendore, no, nella molteplicità delle parole. Oppure, come dice un testo più recente:

Non “aboliamo” il caso, come ci consentono le parole, ma al contrario, assumiamolo, e la presenza dell’altro, a cui viene sacrificato l’infinito e la nostra presenza a noi stessi, che ne è la conseguenza, aprirà una possibilità per noi. Gli eventi, che punteggiano il destino, si distaccheranno come eventi significativi dal campo delle apparenze mute. Alcune parole - il pane e il vino, la casa e persino la tempesta o la pietra - parole di comunione, parole di significato, stanno allo stesso modo in procinto di liberarsi dalla rete dei concetti. E da questi presupposti e da questi simboli, verrà creato un legame che, sebbene non sia nulla nella sua ultima sostanza, sarà la nostra forma di uomo completo, la cui unità nell’atto è l’avvento dell’essere, nel suo assoluto. L'incarnazione, quella al di fuori del sogno, è un bene vicino.

Altri testi, orientati lungo queste righe, attenuano l’aspetto di Parousia o di Utopia, che non è mai completamente separato dall’avvento della “seconda terra”: per lo meno insistono sull’idea che non sia mai stata raggiunta una volta per tutte. Questi testi affermano la responsabilità centrale del soggetto (spesso promosso al “noi” collettivo) che realizza il progetto del linguaggio.

Se ci si dedicasse alle parole che designano il focolare, l’albero, il sentiero, il vagare, il ritorno, non sarebbe necessariamente una liberazione; anche in un mondo sacralizzato lo spirito di possesso può rinascere, facendo della presenza, ancora una volta, un oggetto; di una conoscenza vivente una scienza, e immediatamente impoverita: ma chiunque voglia lavorare, libero da contraddizioni interiori, per riassemblare ciò che l'avarizia disassembla, sarebbe riformato in questa co-presenza dove la terra diventa parola e dove il cuore è placato perché alla fine può ascoltare e persino mescolare la sua voce a quella degli altri. Il mondo di quelle poche parole non ha davvero alcuna struttura se non grazie a noi, che lo abbiamo costruito con la sabbia e la calce viva prelevata dall’esterno.

L'evidenza di quella convinzione, portata da una scrittura che si fa voce ardente, non ha bisogno di essere confermata da una testimonianza esterna. Tuttavia, non posso fare a meno di menzionare qui quello che ho letto in uno dei migliori filosofi contemporanei. Nel suo Logique de la philosophie, che amplia e reinterpreta il pensiero hegeliano, Eric Weil dispone della categoria di “significato” (sens) e insiste sulla “presenza” (présence).

La poesia è creatrice di significato concreto. Dove non c'è questa creazione (che può essere, e in certi momenti della storia può soltanto essere, una creazione contro un significato esistente, una creazione distruttiva), la poesia non è, ed esiste ovunque appaia un significato, qualunque possa essere la sua “forma”. ...In questo senso più ampio o più profondo,.... la poesia non è solo un affare di persone dotate e di talento: è l’uomo stesso…. La poesia è presenza. ...È l’Unità immediata, e il poeta non sa .... se ha parlato di se stesso o del mondo.

Ciò che un pensatore votato al rigore concettuale dice, è scritto e fissato qui una volta per tutte, in forma definitiva. Ciò che caratterizza l’approccio di Bonnefoy, in una visione convergente, è la molteplicità di forme e figure metaforiche attraverso le quali evoca il possibile avvento di presenza e unità. Prendendo in considerazione solo i saggi e la prosa di Bonnefoy, ho potuto citare una dozzina di passaggi analoghi a quelli che sono stati parzialmente appena trascritti, testi in cui si trovano, a dire il vero, parole identiche e lo stesso uso del condizionale della speranza, ma il cui ritmo, il cui sistema di immagini viene rinnovato ogni volta per raccontare di una stessa trasfigurazione che è l'illuminazione del reale, una volta che ogni forma concettuale è stata messa da parte. Bonnefoy ripete la promessa di questo avvento variandolo incessantemente, come se volesse abolire l’immagine che aveva dato in un testo precedente, come se volesse renderla realizzabile attraverso una mobilità, una libertà infinita, la rottura della forma. Non è sufficiente vedere in esso la testimonianza di una tenace speranza che coglie ogni occasione per rendersi esplicita e che lo fa generosamente, ardentemente, in uno scoppio di energia che non è mai lo stesso, sebbene sempre orientato verso lo stesso obiettivo. È necessario un instancabile rinnovamento, nella speranza enunciata, in quanto la “presenza” aspira a disimpegnarsi e a distinguersi da tutto ciò che è fissato in una scrittura. Affinché la “presenza” non sia nascosta dalle immagini che la nominano o che semplicemente la convocano, queste immagini devono essere fluide, temporanee, in grado di scivolare, per così dire, l’una sull’altra; e la dimora, la terra, il fuoco e il momento devono poter scambiare il loro potere simbolico.

Questo aspetto dei saggi e dei testi sull’arte li collega intimamente con le stesse Poesie. L'affermazione critica, in queste pagine, segue la voce che parla nelle opere poetiche. La poesia costituisce la messa alla prova di ciò che, nel saggio, è designato solo a distanza; l’orizzonte comune, visto attraverso i saggi e le poesie di Bonnefoy, è (per assumere un termine che usa spesso) un luogo identico. Il suo approccio si annuncia in una crescente luminosità, nel sentimento di semplificazione e riconciliazione – in un’altra dizione, in cui l’accento di consenso ha la meglio su quello della lotta, mentre anche nella sintassi si estende la rete dei vincoli formali.

Ma la molteplicità degli impulsi che, nei saggi di Bonnefoy, porta ai confini della presenza finalmente ritenuti possibili, richiede ancora un altro commento: questi impulsi devono essere rinnovati incessantemente, perché una volta dichiarata la speranza, è essenziale tornare al mondo – o piuttosto all’assenza di mondo a cui la storia ci ha destinato; è essenziale ritornare al nostro luogo di vagabondaggio e attesa, nello spazio tra due mondi. E da lì ripartire ancora una volta. Dopo aver salutato l’alba, celebrato anche il nuovo giorno, siamo ricondotti al grigio e al freddo – non, ovviamente, senza una certa conoscenza, non senza un avvertimento sulle trappole da evitare, le illusioni in cui il desiderio potrebbe smarrirsi. Ancora una volta, rinasce la tentazione di mondi separati, la convocazione di immagini, il soccorso richiesto dalla scrittura e le sue forme prigioniere. In modo che la necessità di allontanarsi da questo “mondo-immagine” si imponga ancora una volta, e che si evochi sul “lampo” consumante – in modo che i nostri occhi possano aprirsi sul “vero luogo”. Il ricominciare è diventato, nelle riflessioni di Bonnefoy, un tema centrale.

Un momento di vera luce su un sentiero roccioso seguirò una mattina, una sera: questo sarà abbastanza per proiettare sulla scrittura questa illuminazione, sfiorandola a malapena per rivelare gli inutili rilievi e le fessure abbandonate. E questa verità superiore mi aiuterà, quindi, a correggere il mio desiderio e a semplificarlo – per un altro sogno, ovviamente, ancora in un’altra scrittura – non si può snodare il cerchio – ma questa scrittura sarebbe allo stesso tempo più elementare e più avvolgente, un luogo in cui un altro sarebbe già meglio accolto e la finitudine meglio compresa.

Scrivere, certamente – chi è mai stato in grado di non farlo? Ma anche per annullare la scrittura, in un’esperienza complementare alla poesia, nella maturazione che solo essa consente, questi fantasmi e chimere con i quali il nostro passato oscurerà la nostra vista…

Il ricominciare è assunto qui come la condizione stessa di un progresso. Ma si affermano due tempi distinti, e ci viene detto che devono ripetersi: un momento in cui la speranza trova i suoi vocaboli nel mondo delle parole che essa stessa ha costruito; e la rottura, “più avanti”, che sacrifica le parole per un futuro abitato da una verità più grande. Lasciare il mondo arido per “scrivere”, quindi lasciare la scrittura (quell’inevitabile colpa) per il “luogo”. Anche questo può solo scrivere se stesso e sfuggire al pericolo scrivendosi ancora una volta in un altro modo, in opere rivissute come meno opache.

Il progresso attraverso nuovi inizi e rotture è forse più evidente ora che le quattro raccolte poetiche di Bonnefoy sono riassemblate in un unico volume, Poèmes. Ognuna delle quattro parti costituite traccia una strada, organizza la sequenza dei suoi elementi, orientandoli nella direzione del “luogo reale”. Posizionati fianco a fianco, riassemblati sotto una copertura, ogni conclusione perde l’assoluta qualità alla quale saremmo stati tentati di rendere omaggio, diventa provvisoria, come la cresta di un’onda destinata a cadere ancora una volta, a cui ne seguirà un’altra. E per il lettore della raccolta che ne segue lo svolgimento correttamente, cioè da un’estremità all’altra, è evidente che per gradi la strada tra due mondi viene tracciata con più latitudine, con un tratto meno ansioso, in una trasparenza che accetta in maggior numero le forme del visibile. La quarta parte, Dans le leurre du seuil, inizia con un’osservazione sul declino: la forza di riassemblaggio (che si era irradiata) è stata dissipata; siamo di nuovo nella notte.

La negazione è ancora una volta presente, nella sua posizione iniziale: “No, ogni volta / L’ala dell’impossibile si dispiega / Ti svegli con un grido / Da quel luogo, che è solo un sogno”.

Il reale è appena percepito non nella sua presenza incarnata, nella sua finitudine, ma solo come il riflesso di un mondo situato altrove: “Il pavimento che sembra dipinto sull’aria, / La massa di calcare nel burrone, / - Difficilmente si agitano, potrebbero essere il riflesso / di altri alberi e altre pietre, in un fiume”. Dire che l’apparenza è solo il riflesso, è, secondo Bonnefoy, l’eterna tentazione “platonizzante” che tormenta il pensiero occidentale. Lo ricorda in un recente studio sull’haiku, opponendo al reale due riflessioni.

E io che desidero mostrare la scintillante nuvola di tempesta, la nuvola bianca in cui tutto viene assorbito e dissipato, io sono proprio in questo istante, per mezzo del mio pensiero, in uno dei nostri villaggi sulle montagne, con le pesanti case di pietra calcarea , uno di quei posti che il Giappone non ha, fatto per mantenere l’assoluto nella nostra esistenza come un fuoco viene preservato tra le pietre del focolare: e io esco da una casa mezza in rovina, ma trattenendo in essa una vita, e io guardo all’orizzonte, in Occidente, mentre una nuvola rossa accende il cielo con la sua luce, chiedendomi sempre se non sia il riflesso di qualcosa d’altro.

Nel futuro stesso, si ripeterà l’“impulso verso l’impossibile”, ci dice questo recente testo, mentre alla fine di Dans le leurre du seuil, rispondendo al secondo verso del lungo poema (dove l’ala dell’impossibile era spiegata), l’unità fu dichiarata tra le cose presenti – “ala dell’impossibile ripiegata di nuovo”. Quindi il passo in avanti non è mai fatto. Dobbiamo ripartire ancora una volta dal sogno e ancora una volta negarlo. Negarlo? Forse, finalmente, Bonnefoy arriva a una specie di tregua armata. Forse, senza perdere la speranza di un “luogo vero”, accetta che lo spazio della parola è quello che si dà tra due mondi, intrappolato tra questo miraggio e il “giardino della presenza”. Forse dobbiamo acconsentire all’immagine, alla forma, alle strutture delle “lingue” (che sono esilio concettuale) per accedere al “discorso” (parole) e alla presenza, che non è una seconda trascendenza ma un ritorno consenziente alla precaria verità dell’apparenza. L’immagine può condurci ad essa, nonostante la sua “freddezza”, se evitiamo di solidificarla, se sappiamo come farle confessare la sua precarietà. Alla fine di Dans le leurre du seuil i mondi (dove io leggo mondo-immagini) si formano di nuovo, dopo essere stati dissipati.

Cendre

Des mondes imaginaires dissipes,

Aube, pourtant,

Ou des mondes s'attardent pres des cimes.

Us respirent, presses

L'un contre l'autre, ainsi

Des betes silencieuses.

Us bougent, dans le froid.

(Cenere

Mondi immaginari dissipate,

L’alba, tuttavia,

Quando i mondi indugiano vicino alle vette,

E respirano, schiacciati

L’uno contro l’altro, come

Animali silenziosi.

Si muovono, al freddo.)

Le due volte – di un rifiuto dell’immaginario, poi di un ritorno di quell’immaginario ma pluralizzato e ancora una volta “respirante” – sono qui contrassegnate, a mio modo di vedere, nel modo più chiaro. Tutto accade come se l’immaginario, accusato di aver nascosto il reale, di avere apparenze calunniate, di essersi costituito un mondo separato, fosse finalmente accettato come parte legittima di un più vasto mondo riconciliato. Bonnefoy discerne una linea di separazione molto delicata che segna, all’interno di un breve poema (l’haiku), la divisione tra due mondi.

Ascoltando più intensamente, si sentono due suoni sotto questo aspetto di stelle fisse, due suoni allo stesso tempo distinti e molto vicini, come il grido del gufo, e questa unione, indifferente nella sua breve durata, è la dialettica stessa della distrazione e del ritorno. . . . Nozioni, sì, e prima questa struttura tende ad esistere non appena ci sono parole nelle nostre bocche, con questo scambio di fulmini nell’intelligibile. ... Al momento di questa escarnazione, sempre virtuale nel linguaggio come se fosse la sua colpa originaria, succede il grido dell’incarnazione. Un grido minimale, a volte come una foglia secca che cade, ma di cosa d’altro si necessita, che di poche rughe sull’acqua, per l’idea dell’istante di turbare la pace dell'essenza?

I due momenti – e la divergenza tra due mondi – sono qui estremamente vicini, stabilendo una “dialettica” condensata nella “breve durata”. Un esame attento mostrerebbe che questa “dialettica” è all’opera, in ogni momento, nel tessuto stesso di Dans le leurre du seuil, in modo che il tra-due-mondi non si faccia sentire solo all’apertura e le righe finali, ma in ogni momento, fino alla conclusione.

Parole come il cielo

Oggi,

Qualcosa che raccoglie, che disperde.

Parole come il cielo,

Infinito

Eppure contenuto in questo momento nella piccola riserva

Il doppio elemento è ovunque: il mondo-immagine delle parole e lo spazio aperto del cielo; un tempo di riassemblaggio, immediatamente seguito dalla dispersione; l’infinito catturato nella “piccola riserva” (un riflesso e un’immagine legittimati, in ragione della loro stessa precarietà, della loro brevità); lo spazio in alto, dove passano le nuvole temporalesche, e il suolo terrestre, dove l’acqua abita semplicemente nella riserva. In queste semplici parole il conflitto è placato, ma la soglia non è stata superata: la pace stabilita lascia ancora la divergenza tra i mondi, l’opposizione senza la quale l’unità non avrebbe alcun significato.

Indietro
Indietro

Patocka e la vita nell’ampiezza

Avanti
Avanti

Antinomie di vita