Antinomie di vita
Il nome Emil, particolarmente diffuso nell’Est europeo, deriva dal latino aemulus che significa rivale; mentre Cioran, per allitterazione, è molto vicino alla parola rumena cioară, ovvero corvo. Il nome Mircea contiene mir, la radice slava che vuol dire pace, ma anche mondo; mentre Eliade è di origine greca e rimanda indubbiamente a hêlios. Eliade è un pensatore instancabile, in grado di maneggiare con scioltezza le idee filosofiche e religiose di tutte le civiltà; Cioran, invece, si arrovella per una vita intera intorno a poche ossessioni personali, in quanto «le idee non hanno mai fatto sprofondare nessuno», pagando così, in termini di cafard, ogni progresso e caduta nella sua orgia di paradosso e lirismo. Eliade, avendo «un demone, il demone dell’atto» (p. 104) e mostrando una curiosità intellettuale che rasenta il patologico, «era assillato solo dal fare, “dall’opera”, dal rendimento nel senso più nobile del termine» (p. 203), e poteva vergare tante carte scrivendo così per ore senza stancarsi, al fine di creare quel opus magnum su tutte le religioni dal Neolitico ai giorni nostri; per Cioran, tutto ciò non ha senso, poiché creare un’opera significa muoversi in estensione e non in profondità: l’unica giustificazione dello scrivere è la diretta espressione della soggettività attraverso la psicosi dello stile, alquanto evoluta nel Privatdenker, come ricorda lo stesso Eliade nel libro-intervista La prova del labirinto. Incolmabili differenze anche in termini di frequentazioni: l’autore de Il sacro e il profano si incontra con studiosi, intellettuali e accademici, mentre falliti, mendicanti e prostitute sono gli interlocutori privilegiati da Cioran. Il nome, il temperamento, le frequentazioni, le predilezioni letterarie: nessuna differenza “biografica” o divergenza accademica è riuscita fermare la nascita di una grande amicizia, destinata a consolidarsi in seguito, dopo quel primo incontro avvenuto nel 1932, in occasione di una conferenza su Rabindranath Tagore.
A testimoniare l’intesa e la fervente fratellanza di questo irripetibile duo, sono le lettere raccolte da Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortaş per Adelphi (Una segreta complicità) che Cioran ed Eliade si scambiarono tra il 1933 e il 1983. Immagini lontane, descrizioni di paesaggi e città, lamenti, pensieri ed esplosioni si sovrappongono e si adagiano nella memoria, come l’ideale palcoscenico di un’amicizia stellare. Le lettere di Eliade ripropongono sempre il presente come metafora del futuro, in cui, alla deflagrazione e al «disgusto» delle sue parole, spesso si aggiunge un tono profetico dallo sconforto teoretico insopportabile:
Nelle ultime settimane non ho fatto che pensare alla fine apocalittica del nostro evo. Ho la convinzione che tutto finirà, molto presto, forse addirittura in trenta, quant’anni; arte, cultura, filosofia – tutto ciò andrà al diavolo. L’Europa non è in coma. Tutto quello che riguarda la nostra epoca (Kali-yuga), crollerà in modo apocalittico. (p. 15)
Nella medesima lettera ci sono ulteriori passaggi esasperanti che metterebbero in difficoltà anche il più entusiasta ammiratore del Fragmentarium: passaggi che, anche a causa di qualche attorucolo di destra di terz’ordine che si aggira per il palcoscenico della politica italiota, non possiamo guardare con distacco e che, giustamente, giudicheremmo indifendibili:
L’unica cosa importante è che l’Europa sta crepando – di stupidità, di tracotanza, di luciferismo, di confusione. Il mio disgusto dell’Europa assume, talvolta, forme d’alto tradimento. Spero che la Romania non appartenga a questo continente che ha scoperto le scienze profane, la filosofia e l’uguaglianza sociale.
Sono indubbiamente anni di grave incandescenza politica in cui profeti di violenza osannano il valore redentivo della «morte collettiva»; idea, questa, che verrà frequentemente ripresa da Eliade, in particolar modo ne Gli Huligani, uscito un mese dopo la lettera sopra citata, dove viene impostato il profilo della “Giovane generazione”, composta da ribelli e studenti universitari alquanto irrequieti. Nel personaggio di Cezar Tomescu, “dai capelli biondi e linfatici”, “sofferente d’insonnia” e che “ha studiato fino all’esasperazione per evitare il suicidio”, è fin troppo facile riconoscere i connotati fisici e caratteriali di Cioran. Inoltre, tale convergenza è facilmente decodificabile grazie a due sentenze che Eliade ruba a Cioran e mette in bocca a Tomescu: “sono un’esistenza ridicola” e quel “rifiuto definitivo di condividere, insieme alla Romania, un destino di mediocrità”. Questa parodia del profilo cioraniano nasce come rappresaglia per un «articolo straordinario»1 in cui Cioran muove, pubblicamente ma per motivi privati, violenti attacchi personali, giacché ai suoi occhi Eliade si è reso colpevole di aver rotto la relazione con la comune amica Sorana. Inutile sottolineare che la caricatura presente ne Gli Huligani non piace al musicista del frammento, il quale dà avvio a un duello intellettuale che si scandisce a furia di articoli e recensioni: subito dopo la pubblicazione del romanzo di Eliade, Cioran non tarda a pubblicare un articolo per Pagini literare2 in cui si chiede se «per caso qualcuno comprende il destino di Mircea Eliade, che ha scandagliato tutti i problemi postbellici senza risolverne nemmeno uno» (p. 195).
Un’amicizia, quindi, che assume ben presto i contorni burleschi della competizione e della polemica: «benché io provi per te un’infinita e non smentita simpatia, a volte sento il desiderio di attaccarti, senza argomenti, senza prove e senza idee» (p. 21). Sono attacchi che forse nascono a causa di un’incomprensione di fondo, giacché Cioran non “capisce” l’attrazione che l’aspetto oggettivo delle religioni esercita su Eliade: egli è interessato unicamente alle modalità personali ed esistenziali dei singoli santi e mistici. D’altra parte, Eliade non “capisce”, come si legge ne Le lettere a un provinciale, la tanatologia ossessiva ed ossessionante di Cioran e quelle idee funeree che gli facevano prediligere le tenebre alla luce.
Concluso questo gossip che, tuttavia, permette di seguire meglio le vicissitudini che attraversarono la loro amicizia, constatiamo, grazie alle lettere, come Eliade sia stato ulteriormente influenzato da Cioran; non solamente nel suo lavoro di scrittore continua ad ispirarsi al pensatore di Sibiu (“mi sono messo a scrivere un dramma: Uomini e pietre. Racconta di due amici che esplorano una grotta, immensa, scoperta da loro. Il primo atto è di un pessimismo sfrenato. Quando l’ho letto ai miei conoscenti romeni di Lisbona, Brutus ha esclamato: «Questo è Cioran!» (p. 56)), ma anche nelle sue epistole è possibile ravvisare la malinconia tipica della scrittura aforistica di Cioran: se non fossimo aiutati dal nome del destinatario, ci risulterebbe alquanto difficile riconoscerne il mittente:
Ho sofferto di malinconia come un dannato, e nessuna delle mie migliaia di pagine ne fa parola. Quando mi “prende”, dimentico di essere uno scrittore, dimentico tutto – tranne la tragedia di essere nato. (p. 55)
Avendo un cuore in mi minore, possiamo invece facilmente riconoscere le 96 lettere di Cioran presenti in questa raccolta: lo stile e l’ironia rimangono costanti e si adeguano perfettamente alla sua “opera”. Tuttavia una cosa sbalordisce fin dall’inizio: l’affetto e la tenerezza che Cioran mostra per Eliade e, più in generale, per tutti i suoi amici. Non assistiamo così a quei classici Dies irae che caratterizzano i suoi capolavori, ma ad espressioni che sembrano scritte e pensate per una donna amata:
Penso a te con molta simpatia e rimpiango di averti incontrato così di rado finora» (p. 13), o ancora, a un amico lontano: «Sono felice di poter essere qui da solo, terribilmente solo, e di essere lontano dai Balcani, dove soltanto tu giustifichi il sorgere del sole.3 (p. 41)
L’amorevolezza di Cioran veniva indubbiamente corrisposta da quell’anima pia e misericordiosa che era Eliade. Oltre a consigli di carattere erudito, che venivano rigettati in malo modo (M.E.: «Ti prego di occuparti di San Paolo»; E.C.: «mi riesce difficile scrivere sul galoppino elettorale del cristianesimo» (p. 15)), Eliade cercava di lenire i malanni fisici e spirituali di Cioran inviandogli spesso sigarette Lucky Strike, tè e soldi, affinché l’amico potesse perfezionare i suoi vizi; consigli più pratici servivano al dilettante Cioran come soluzione a dubbi di carattere mondano:
Pur disponendo per la prima volta in vita tua di denaro, non sai come impiegarlo. Eccoti una soluzione: comprati dei libri (p. 38);
Se hai smesso di bere caffè, perché non provi a sciare?» (p. 101);
e ancora:
Non hai un po’ di oppio a portata di mano? (p. 25).
Cioran, dal canto suo, non potendo sdebitarsi con il vile denaro, ricambiava le gentilezze del suo caro con i mezzi di cui disponeva:
Mio caro Mircea, il documento allegato l’ho rubato a uno dei nostri connazionali. Custodiscilo gelosamente. È unico (p. 80).
Tra consigli, lettere di raccomandazione (p. 67) e favori materiali, i due continuano a non risparmiarsi nulla sul piano teoretico. La quaestio rimane sempre la stessa: come è possibile approcciare il sacro e le religioni in modo erudito, senza avere uno spirito religioso? «Un dio esiste per essere adorato o ingiuriato. Non ci si immagina un Giobbe erudito»: è questa l’ultima sciabolata che Cioran scaglia contro Eliade, ma, purtroppo, l’amico non potrà rispondere. Il destino ha deciso di interrompere questo battibecco che durava ormai da più di mezzo secolo.
Eliade si trova nella sua casa di Chicago e legge gli Esercizi di ammirazione di Cioran, fresco di stampa. La moglie Christinel lo vede sorridente con il libro in mano: lo chiama diverse volte ma Eliade ha perso i sensi. Viene immediatamente trasportato in ospedale ma morirà due giorni dopo, senza aver ripreso conoscenza. La sorte ha voluto che il libro dell’Amico Cioran, contenente anche un furioso ma brillante ritratto di Eliade stesso, fosse l’ultima cosa letta in vita da Mircea. È il 1986: Cioran conclude il suo ultimo libro (Confessioni e anatemi), che uscirà l’anno successivo, e decide di non scrivere più.