Sini legge Dante

La sola filosofia non basta. La pura sapienza, l’elevazione nel concetto che non abbia profonda valenza spirituale, non è sufficiente per comprendere l’intima unità della vita -e di una delle espressioni più ricche e sublimi della vita, nella letteratura mondiale: la Commedia dantesca. Questo il corpo dal quale si sviluppano le prime tre riflessioni di Carlo Sini in Dante (Orthotes, 2019). È poi da queste originalissime interpretazioni della Commedia che si giunge, con magica e coerente armonia, all’ultimo, densissimo capitolo dedicato a “La parola poetica del Paradiso”.

Per iniziare a comprendere la lettura che qui ci viene offerta da uno dei più grandi maestri della filosofia italiana, è necessario, anzitutto, occuparci brevemente con qualche chiarimento di carattere pratico. Si legge infatti nell’avvertenza che le testimonianze riportate sono frutto degli Esperimenti Danteschi, iniziativa organizzata dall’Università statale di Milano durante la quale vari interpreti avrebbero commentato due canti contigui per ognuna delle tre cantiche; da qui il contenuto delle prime tre parti. L’ultima, Il suono dell’invisibile, è invece il prodotto di una conferenza tenuta da Carlo Sini alle Letture classensi organizzate dal comune di Ravenna. Tutto ciò che qui si legge, quindi, è il raccolto di queste mirabili lezioni orali. Si noterà però come -cercheremo qui di riportarlo nel modo più esauriente- pur essendo conferenze legate a momenti differenti, il sottile filo rosso che collega gli interventi qui riproposti in forma scritta, sia in realtà carico di una profonda e coerente unità di senso, per la quale bisogna essere grati tanto a Dante, quanto, naturalmente, alla grandiosa capacità di nobile retorica del filosofo italiano.

Come dicevamo in apertura, la linea di senso che agisce nel testo è inizialmente un’accusa, l’accusa di un’insufficienza. Le quattro parti di cui è composto il libro si ritrovano a puntare il dito contro il medesimo criminale: «l’accusato e il reo è la ragione, la ragione mondana, in quanto esclusivamente rivolta a terra per la sua pretesa autonomia e sufficienza» (p.16). La gravità di queste parole risuona ancor di più quando pensiamo che a proferirle è proprio un filosofo, un tecnico, esperto e amico (philos) della “ragione mondana” (della sophia). Ma sembra esattamente questo il punto decisivo di confronto con la vita che la filosofia deve compiere. Un punto che interessa non solo ogni filosofo ed ognuno di noi, ma che attraversò lo stesso Dante nella sua gioventù e che lo gettò a capofitto nel grandioso compito di redenzione che ha avuto come effetto il mondo descritto nella Commedia. La cura per la Terra (Virgilio) soltanto, anziché -altrettanto bene- per il Cielo (Beatrice) fu, cioè, il peccato del giovane Dante, ciò che lo portò ad assegnarsi un così arduo cammino di redenzione. Accanto a Dante, per intendere meglio questo traviamento, spicca nella prima parte della lettura offerta nel libro, dedicata ai canti X e XI dell’inferno, la figura amicale di Guido Cavalcanti. Con il compagno di vita, infatti, il sommo poeta condivideva infatti il moto inaudito e rivoluzionario, politico e filosofico del Dolce Stil Novo ed «entrambi ritengono che l’ingegno e il cor gentile siano le unità di misura in base alle quali valutare un essere umano» (p. 22). E Guido, “il pervertito della ragione”, appartiene supremamente a questo mondo -averroistico più che tomistico, scientifico-concettuale più che spirituale. La presenza spettrale di Guido all’infermo sta proprio a simboleggiare che con la sola dote filosofica -con la sola ratio- non si giunge alla Grazia, non si vince il peccato originale e non si supera la dannazione, la valle di lacrime in cui ognuno di noi è gettato senza averlo chiesto. In mancanza di Beatrice non si giunge, cioè, al paradiso terrestre. Dacché è proprio la ragione violenta e peccatrice ad essere punita nella città del foco; essa è, anzi, la peccatrice che incarna la più alta forma di seduzione. Cosa tralascia lo sguardo rigorosamente filosofico che rappresenta il peccato supremo? Ancora una volta Beatrice -la Grazia: qualcosa che la fredda ragione mai potrà conquistare. Questi i punti centrali dell’interpretazione siniana del decimo canto. A sostenere l’impalcatura della lettura offerta, si fanno largo tre momenti fondamentali dell’undicesimo canto. Nei primi due Virgilio persuade Dante di tornare a sua scienza; di ritornare cioè all’Aristotele buono, morale, emendato e riletto in chiave cristiana dallo stesso Tommaso. Nel terzo compare invece un motto sovversivo, di sostanziale ridimensionamento del fare artistico proprio dell’umano: «l’arte non è in fondo essenziale nel cammino della salvezza» (p. 37). Completa rivalutazione del fare artistico, questa sentenza ci mette in luce una prospettiva singolare; che, cioè, non si puniscono soltanto le passioni mondane, i moti concupiscenti dell’animo: ad essere punita è anche -e soprattutto- la ragione esclusivamente logica, la bella forma greca.

La seconda figura capace di farci comprendere la manchevolezza del sapere mondano compare nel terzo canto del Purgatorio. Il purgatorio, è importante avanzarlo, è descritto da Sini come il luogo del capovolgimento. Un capovolgimento che vedrà un inetto cittadino di Firenze, della Firenze di Dante, dare suggerimenti al Poeta stesso. È infatti il pigro Belacqua, che canzona il sommo chiedendogli: andar in sù, a che porta?. Riprendiamo allora il messaggio centrale e interroghiamolo alla luce di questa nuova apparizione. L’unione delle volontà singolari nella volontà di Dio, nella luce del sole -allegoria della grazia e della bontà divina- non può fondarsi sulla ratio “isolata” che «da sola, non è all’altezza del compito, non ce la fa, ma per di più cade, in modo un po’ ridicolo, nella colpa involontaria, e tuttavia imperdonabile, di dimenticare la sua vera funzione» (p. 50). Ogni giravolta estetica, ogni intuizione poetica è cioè subordinata al messaggio di salvezza che il cammino di Dante vuole far emergere. Tutte questi stilemi letterari che noi moderni celebriamo esistono per giovare alla novella. Non solo. Il grande pigro, che ha ascoltato la lezione pedagogica di Virgilio all’inizio del canto, ritorna a pungolare Dante ed è come se dicesse: «fratello, tutto il tuo sapere qui non vale niente. Molto più saggia è la mia pigrizia, che sa che per salire non si dipende dall’altezza dell’ingegno ma da tutt’altre virtù» (p. 60). Dobbiamo in ciò vedere un’apologia alla pigrizia, che il sommo poeta mette in bocca ad una macchia fiorentina del suo tempo? Tutt’altro. In queste parole, infatti, è contenuto il sigillo del Purgatorio dantesco, che possiamo riassumere con il termine latino humilis. Il Cristo, ci ricorda il filosofo italiano, è la più alta e concreta incarnazione di questa particella semantica così ricca di significati; è il Cristo che, attraverso il rovesciamento delle virtù pagane, cercando di farsi uomo, si lascia umiliare, schernire, crocifiggere. Nel cammino della redenzione, e ancor di più nel capovolgimento del purgatorio «l’arte, la filosofia e la religione sono un aiuto, ma anche una tentazione e un impedimento, un pericolo dal quale continuamente guardarsi, sino a che la dolcezza del Purgatorio non trasformi la sconfitta di Adamo in un cammino di umile e luminosa gloria» (pp. 68-69).

I canti XIII e XIV del Paradiso sono dedicati, come è ben noto, al cielo del Sole. Esso è il luogo nel quale la luce stessa viene messa in questione; luogo nel quale si mostrano a Dante gli spiriti sapienti a cui egli pone alcuni interrogativi. In primo luogo rispetto la Sapienza di Salomone, sapienza di principi terreni, non ancora illuminata dalla luce del Sole; dopodiché Dante domanda circa la veste dei beati -un domandare che raccoglie la luce delle vesti la quale si manifesta sempre insieme al canto, alla parola e alla danza. Quest’ultima questione ci permette di entrare nell’ottica dell’ermeneutica siniana che inizia a muovere i suoi passi proprio dalla questione della luce. Anche qui, la indubbia energia estetica che ci è suggerita dal poema non è fine a se stessa, non è un semplice espediente, ma sempre un rimandare. La cosmo-teologia medioevale è invero governata in gran parte dalla dottrina della luce che è qui presentata poeticamente. In Dante, che legge gli scritti di Aristotele sulla natura in forza della mediazione araba e della traslazione neoplatonica in voga al tempo (si ricorda, ad esempio, sul nome di Avicebrom), riecheggia la sapienza per la quale Dio si presenterebbe nella sua essenza come un «punto luminoso e inesteso, un punto assolutamente semplice» (p. 79). Come lo sfero parmenideo, esso non si sviluppa nello spazio; è lo spazio che, a partire da esso, si estende e comincia il suo gioco cosmico. L’accenno all’insegnamento agostiniano, e particolarmente le speculazioni sul tempo, è qui immediatamente tangibile. La questione della luce è allora presentata come centro, perimetro e area essenziale di tutta la rivelazione del poema. L’energia luminosa è intesa come corpo immortale, come puro divenire -principio formativo di tutte le cose. Lucifero, il portatore della luce, l’angelo ribelle, è l’incarnazione antipodale del buio cosmico in cui regna, colui che si capovolge in forza della negazione che avanza al creato. Qual è il messaggio che, nel luogo della luce, attraverso le parole di Tommaso, “l’Aristotele Cristiano”, la punta di diamante della sapienza umana (e quindi della sapienza di Dante); qual’è, allora, il messaggio che salva? Che «si arriva dalla sapienza, ma non si resta alla sapienza» (p. 86). La conoscenza delle cause è un passaggio necessario per la salvezza, ma pur sempre una tappa del cammino, una fermata che è lì per essere superata. Il pellegrino che si è perduto per il suo peccato luciferino, per la sua scienza poetica, per la sua superbia intellettuale, oltrepassa la semplice filosofia, “l’epicureismo”, e, come un Christus triumphans, vince sulla morte e sulla bestia che anche egli porta dentro sé. L’insegnamento primario e vitale è appunto questo: che il bene non è la sapienza “in sé”, bensì -insieme- la Salvezza cosmica e la Grazia. Non la verità, ma l’amore conta, perché «l’amore è la verità: è la via, la salvezza e la vita» (p. 94).

L’argomento in questione nell’ultimo capitolo -a sé stante ma, in ogni caso, come ricordavamo, profondamente coerente con il resto del discorso- è il suono dell’invisibile: un tentativo ermeneutico della parola poetica del Paradiso. Tramite la potenza figurativa di alcune tra le scene più suggestive della terza cantica, si sviluppano tre forme della mousikè -qui intesa, alla greca, come l’unità delle arti del movimento; unità di parola, danza, canto e armonia. Le figure in gioco sono dunque: la luce, il suono, il movimento. Durante l’anabasi dantesca verso cielo estremo dell’Empireo, si è spettatori di un crescendo di luce e suono; questi elementi, in contrasto con il senso comune, non devono mai essere scissi, devono anzi essere considerati come luce sonora e suono lucente -in un contempo. Gli abitanti dei cieli «non fanno che cantare, esprimendo in modo sonoramente luminoso, sia la loro passione caritatevole nei confronti di Dante, sia il loro amore nei confronti di Dio» (p. 113). Nella simbologia cosmologica dantesca il movimento (dynamis) articola l’unitarietà di luce (phõs) e suono (phonè). Così, cioè, si deve intendere la totalità articolata di senso del dire/cantare, di questo far-luce paradisiaco - non come una trasposizione o come una figura retorica che renda comprensibile quell’indicibile che è il movimento del Paradiso; ma, anzi, come «l’elemento attivo della corporeità […] quella illuminatio divina che fa dell’uomo il microcosmo entro il macrocosmo della natura: cellula intelligente dell’universo che può appunto conoscere e comprendere la creazione» (pp. 132-133).

Giacomo Berengo

Giacomo Berengo si forma nella traccia della filosofia tardo e post-moderna. Scrive di una scrittura atipica e mista, privilegiando temi legati alla filosofia della voce, all’estetica del contemporaneo e all’ermeneutica del linguaggio, del testo e del suono. Parallelamente, dal contatto con diverse realtà politiche e di ricerca artistica e musicale, delinea uno schizzo d’indagine sulla potenzialità poetica della TAZ nel poliedro che squadra e unisce spazio, potere, mistica, terrorismo, suono e scrittura.

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