Bully - Sex is Violence
Sex is Violence
Per trasporre in forma letteraria Bully di Larry Clark basterebbe ricorrere a una trascrizione del testo di Sex and Violence degli Expoited. Con la differenza che, in Bully, oltre che ad una convivenza, assistiamo a una compenetrazione delle due sfere. “Sex is Violence”, “Violence is Sex”. Bobby non riesce a scindere il sesso dalla violenza che accompagna ogni sua azione. E non perché non voglia, ma perché non può. La pulsione sessuale che anima il suo rapporto con Marty –diagnosticata e riconosciuta da chiunque li circondi– non è mai scevra da una costrizione violenta, dall'instaurasi di un rapporto gerarchico in cui il primo deve sempre e necessariamente schiacciare o frustrare il secondo. Quella “costrizione” non è un’impalcatura arbitraria, bensì l’involucro coercitivo che avvolge l’opera nella sua totalità, il guscio inscalfibile entro il quale Sex e Violence, come flussi chakrici, sono costretti ad agitarsi, scontrandosi nella reciproca commistione di un’eterna, vorticosa danza.
Come il sesso ha i caratteri della violenza, la violenza ha quelli del sesso: il soddisfacimento della pulsione omicida collettiva – atto massimamente violento a lungo procrastinato, come timidamente si farebbe approcciandosi alla perdita della propria verginità – avviene proprio attraverso una serie di penetrazioni falliche. Che queste penetrazioni, a lungo sognate in uno stato di febbricitante eccitazione e incoscienza generale, vengano reificandosi sotto forma di coltellate, poco importa. Basti osservare il godimento di Lisa nel vedere finalmente adempiti i suoi propositi per rendersi conto che il suo era, inequivocabilmente, un desiderio erotico.
Desiderio forse generatosi fin da quel primo, misterioso sguardo dal sedile posteriore scambiatosi con Bobby al volante, durante un amplesso speculare che entrambi esperiscono con la stessa lucidità, con la stessa capacità di astrarsi. Forse perchè entrambi insoddisfatti, mossi da un anelito che la semplice esperienza sessuale non riesce a inibire: + Violence, – Sex.
I coltelli, nonché i corpi altrui, non sono altro che l'estensione materica di un appetito che, originatosi in Lisa, dilaga come un miasma vettorializzando l'azione di un'intera squadra omicida. Per quanto improvvisata e inesperta essa sia. Ucciderlo da sola, con un colpo di pistola alla nuca, non sarebbe stato altrettanto soddisfacente. Altrettanto grande. La pulsione, originatasi in Lisa, si dirama in quello che è un organismo collettivo, una fangosa argilla in continuo ridimensionamento.
Più che di un intreccio – anche se Lisa, con i suoi propositi omicidi, non può che ricordarci la Elsa Bannister di The Lady from Shanghai, insieme a tutte le sue speculari riproposizioni – Bully si costituisce, si nutre, di un agglomerato di carni pulsanti, colto nei suoi spasmi più dirompenti ed eclatanti attraverso una regia che – pur non condotta alle sue estreme conseguenze e inibita da una fotografia squisitamente pop – svolge un'indagine anatomica non solo dei corpi dei protagonisti, ma degli spazi che tra loro si interpongono. I sedili di un'auto, dei fili d'erba che improvvisamente assumono nella composizione del quadro un ruolo primario. Un american bully che fagocita l'immagine, destrutturandola in maniera tanto improvvisa quanto inspiegabile – è forse proprio a lui che il film è intitolato? La mano di Ali che accarezza i capelli di Bobby, un intreccio di gambe. La centralità di qualsivoglia elemento è labile, effimera: tutto ciò che è (in campo) ha la stessa dignità e la stessa insignificanza. Dio manca.
Se le divagazioni de-antropocentrizzanti di Malick sono mosse, come per Tarkovskij, da quello che qualcuno ha definito “materialismo spiritualista”, dall'istantaneo accorgersi dell'immanenza divina, le divagazioni di Clark sono rotazioni riflessive, che non fanno dello spazio un simbolo, un trampolino verso l'altero, bensì una trivella verso la natura eminentemente organico/corporale del campo, che mai giunge a una trascesi. Alla quale non è peraltro adibito – nel mondo di Bully – alcun non-luogo. Ogni azione di Lisa e compagni non può che essere sterile, ingenerante. La gravidanza della ragazza, di cui non vedremo i frutti, porterà alla luce un nuovo Marty Puccio: il reiterarsi dell'inutile.
Se l'incoscienza dei protagonisti di Badlands (dir. Terrence Malick, 1973) sembrava in fondo momento iniziatico conducente a un diverso “sentire il mondo”, e dunque primo stadio particolare di un cammino verso una gnosi comunque irraggiunta (ammettendone sottobanco la raggiungibilità), l'incoscienza in cui Marty e Bobby nuotano e si impelagano non è altro che la condizione vitale abituale, un liquido fatto di vomito e sperma in cui – ci auguriamo! – sguazzi anche qualche alligatore pronto a divorare le salme delle nostre più maleodoranti atrocità. Una condizione di cui, solo accettando l'abitualità, ci si può eventualmente beare. Con la stessa serenità dimostrata da Donny venendo a sapere che la sua ragazza è stata stuprata. Con la stessa serenità estetica che Clark è forse uno dei pochi ad aver raggiunto, e che lo conduce ad adottare quell'impianto fotografico “estetizzante”, apparentemente inibitorio, cui prima si accennava.
Come Lisa e Bobby, anche lui sa astrarsi, e offrirci l’ascetica scansione – caotica e chirurgica al contempo – del caustico universo di cui Bully è incarnazione.
Kit (Martin Sheen) e Holly (Sissy Spacek) avevano forse frainteso qualcosa del loro stadio di pre-grazia; qui non c'è nulla da fraintendere, nulla da capire.
Rotazioni
I movimenti rotatori sono tipici e ricorrenti in tutta la filmografia di Malick, e il suo esordio al lungometraggio non fa eccezione. È un topos visuale, manifestantesi sia nella in forma filmica che profilmica (pensiamo alle piroette di ogni figura femminile che si sia ritrovata ad abitare il suo universo), oltrechè un ordinamento strutturale a cui il texano ricorre per orchestrare il montaggio delle sue pseudo-narrazioni.
L'attentato alla linearità viene preparato da Badlands e Days of Heaven (1978): il primo con la sua drammaturgia “dadaistica”, un puzzle i cui tasselli vengono connessi arbitrariamente e il cui legame può eventualmente individuarsi nel sopracitato “stato di incoscienza” generale che, schiusosi nella coppia dei protagonisti, giunge a caratterizzare la struttura stessa dell'opera; il secondo con la sua esplosività, la sua instabilità: ogni immagine di Days of Heaven sembra non vedere l'ora di perire e cedere il passo all'immagine successiva.
Schegge, frammenti acquatici.
Dopo il leggendario ed enigmatico letargo a cui Malick ha sottoposto il suo cinema per oltre vent'anni, The Thin Red Line (1998) e The New World (2005) – anch'essi intervallati da una lunga pausa metrica – riconfermano quanto seminale nella dilogia precedente.
La linearità, scalfita finora con una certa gradualità, giunge però alla frantumazione più drastica e (apparentemente) irreversibile solo nel 2011, con il cosmico The Tree of Life. Un film che è un flusso mnemonico, dove la memoria individuale – che fa di un figlio il tassello metonimico del proprio nucleo familiare – coincide con quella più ancestrale che la Terra ha della cosmogonia nella quale – anche in questo caso come semplice tassello – si inscrive. Un film che finisce laddove inizia, nella grandiosa parentesi di due inquadrature gemelle. Alla linearità cronologica è succeduta la circolarità di un tempo altro. Di Aion, il “tempo assoluto”, in cui l'istante è un centro gravitazionale capace di assorbire il passato più remoto e di, improvvisamente, rilasciarne le scorie.[i]
[Incipit ed excipit di The Tree of Life]
Niente di analogo, superficialmente, in Bully. Se è pur vero che l'opera in questione consiste in una divagazione compulsiva intorno a quell'agglomerato muscolare di cui prima si delirava, il cui svolgimento non ha nulla di lineare, non è d'altra parte corretto attribuirle il rigore geometrico di una circonferenza. È una corda vibrante, spasimante: un caotico ibridarsi tra andamento rettilineo e incursioni di bidimensionalità.
Prendendo però in esame due movimenti “rotatori”, il primo estratto da Badlands, il secondo dal film di Clark, ed identificandone la sostanzialità, potremmo cogliere al contempo la similitudine e la discrasia dei due sistemi filosofici che – così come dirigono il movimento particolare in questione – costituiscono il nucleo delle due opere e ne connotano dunque l'estetica complessiva.
Entrambe le "rotazioni" in questione sono scopicamente centrifughe. Irradiandosi da un nucleo centrale capace di generare lo sguardo (la mdp), inseguono un soggetto che attorno a tale nucleo orbita, o è circolarmente disposto.
Nel caso di Badlands il soggetto (Sissy Spacek) è pedinato da un continuo movimento panoramico correttivo; nel caso di Bully, al contrario, non preesiste un punto di riferimento; e assistiamo anzi al momento della sua ricerca, al nevrotico trapasso da un soggetto all'altro, ad quella che potremmo definire come metemscopia.
Pur nella loro diversità, sia Malick che Clark optano sul piano registico per una rotazione della camera su se stessa, cercando di far fluire e respirare ciò che al soggetto è circostante piuttosto che ingabbiandolo in una composizione che lo stigmatizzi interrompendone il fluviale scorrere la cui restituzione è invece per entrambi l'obbiettivo primario.
La differenza tra i due momenti proposti, come già accennato, consiste nella trattazione del soggetto, e non nel moto visuale adottato (il quale è al contrario sintomatico di una profonda somiglianza tra le opere in questione): Sissy Spacek rimane la protagonista indiscussa del quadro, peraltro – in una significativa mise en abyme – appropriandosi ella stessa del movimento rotatorio attraverso l'atto ludico, e dunque esplicitando la sua funzione di “spugna”, di corpo capace di veicolare l'esplorazione del mondo; la sua centralità nel modus componendi garantisce la coagulazione dell'attenzione spettatoriale in un punto determinato.[ii]
Siamo dunque di fronte a un moto sì centrifugo, ma figurativamente centripeto, rivolto verso un centro, verso quel Dio assente in Bully: lo sguardo è lo spirito a riunire guardante e guardato, in un vicendevole condizionarsi dei due termini in causa. Dal centro, verso il centro.
Un cinema teleologico, in cui l'irradiazione primigenia – l'origine – coincide con il proprio pleroma che, paradossalmente, orienta il moto del proprio progenitore. L'effetto è la causa della propria causa, la causa effetto del proprio effetto.
L'essere delle cose finite in quanto tale è quello di avere come proprio in sé il germe del trapassare, l'ora della loro nascita è l'ora della loro morte.[iii]
Alla luce del passo hegelliano appena proposto, è interessante rilevare come siano due figure “anulari” a sigillare The Tree of Life. Il varco, la soglia attraverso cui – salvo parto cesareo – ogni vivente è necessariamente introdotto alla vita, è al contempo l'immagine scelta da Malick per troncare, uccidere, il proprio film. Un regressus ad uterum, un ritorno alla “Grande Madre” a cui gli eterei voice over a cui il cineasta ricorre sempre anelano.
L'ambivalenza dell'anello trova spazio per esprimersi in tutta la sua inquietante ambiguità nel finale de The African Queen (dir. John Huston, 1951): i cappi – anularità esiziale par excellence – e gli anelli nuziali –auspicio di nuova vita in comunione – divengono per un tragico attimo opzioni equivalenti, biforcazione di quell'unicum che è la vita stessa, dal quale entrambe scaturiscono.
Come la circolarità del movimento di macchina di Badlands si rispecchia nell'azione profilmica di Spacek, così l'incipit e l'excipit avvolgenti questo particolare Yggdrasill denotano già sul piano figurativo quella che è la loro funzione strutturale.
Vale la pena ribadirlo: teleologia estetica.
Ma ritorniamo a quanto lasciato in sospeso, ovvero alla trattazione del soggetto nel “momento rotazionale” di Bully. Qui l'irradiazione nucleica non giunge a un centro figurativo, e il movimento di macchina si risolve in una dispersione caotica. Clark è incapace di sancire cosa sia degno di essere formalizzato, e cosa invece è insignificante, eliminabile. La perentorietà teologico-fideistica con cui Malick sancisce la necessità di un centro, di un personaggio-diapason, qui non sussiste. Bully è un film a-gnostico. Tutto è egualmente inutile, semplice risultato di una pulsione che non ha nulla di finalistico, e che non conflagrerà nel fuoco purificatore paolino. Dunque, tutto è egualmente degno di attenzione filmica.
Alla causa, alla teleologia, si sostituisce l'alea: tanto vale adeguarsi agli spasmi di cui il mondo consta, senza porsi quesiti morali, senza adeguarsi ad alcun metron, ma semplicemente soddisfacendo i propri desideri più viscerali.
Tempo, Achille
Tempo entrò in scena tra l’affiorare dell’intenzione e l’atto che la seguì. Finché soltanto la mente sussiste, l’intenzione è l’atto. Ma, appena sussiste anche qualcosa di esterno, Tempo si interpone fra intenzione e atto.[iv]
Il tempo è la pluralità, l’impossibilità che la freccia di Zenone di Elea colpisca alcunchè. Il continuo scandire, dilatare se stesso, divorando la propria progenie, fagocitando i propri figli mosso da un’ontologica insaziabilità.
Se è vero che tra l’arciere e la sua preda intercorrono – come sostenuto per assurdo dall’eleata – sterminati spazi, è solo il Tempo, la cinematografia (la “mobilità scandita” epsteiniana), a fare di quegli spazi un ostacolo insuperabile.
Se Achille si agita tanto, è perché sente la sua incommensurabilità messa a rischio dal contenitore par excellence, il ventre di Crono. Sente quel tanto di immortalità che gli concerne venir minacciato dalla morte, che è sempre imminente. Eppure, in quella vertiginosa fuga dalla forma in cui tutta la sua vita consiste, il suo slancio ardito non fa che condurlo, in ultima istanza, alla necrofilia. Solo la morte garantisce la prendibilità, l’espressività. “O essere immortali e inespressi o esprimersi e morire”.[v]
Pentesilea.
Gemella di Achille, cresciuta come uomo nel corpo di donna, e Achille, spasimante la morte in battaglia nelle vesti di una bambina. Cresciuto a Sciro, circondato da quelle fanciulle tra le quali solo Odisseo sarebbe riuscito a scovarlo.
Si ritrovano faccia a faccia, sul campo di battaglia, sotto le mura di Troia. È qui che Pentesilea perde la vita, e Achille ne possiede le spoglie. Sex and Violence. Il suo feticismo è svelato. È stato d’altronde lui stesso a optare per la gloria e, dunque, a sancire la brevità della sua permanenza sul palcoscenico.
C’è un calco negativo del pelide, un’amazzone che lo aspetta a irretirlo nella forma con il suo stesso corpo, a divorarlo, e a preannunciare l’avvento dei nostoi.
Cos’è il nostos, se non il morso dell’oroboro, l’anello?
La fine del ciclo. Se Odisseo parte, è solo per tornare.
Sarà il dardo apollineo ad uccidere Achille, a formalizzarlo, a permettergli di esprimersi.
Nessun altro, dopo Apollo, sarebbe riuscito nell’impresa. L’Iliade è una circumambolazione intorno al guerriero, protagonista assente, figura accecante; Omero vola intorno ad Achille come un impaziente avvoltoio, ma saranno altri a cibarsi del suo cadavere. L’Achilleide di Stazio è rimasta, provvidenzialmente, incompleta. Anche Kleist, inaspettato erede, non ha potuto fare a meno di relegare il cannibalismo all’informità dell’o-skene, della ob-scaenitas.
Peleo il fangoso e Tetide: cosa può graficizzare l’acqua, se non il cinema?
Tutto si muove in una ferita. Nell’irreciprocità tra la ferita e l’impossibilità di suturarla, nello spazio infinito che intercorrere tra i due termini. La ferita è l’esistenza, il venire al mondo. I suoi estremi sono la nascita e la morte.
È la discrepanza tra il piano di Tetide, accovacciata sulle rive dello Stige, e la sua mano intorno al tallone del figlio.
La ferita è un occhio che, spalancandosi, non trova corrisposto – specchiato – il suo sguardo e, spaventato, smarrito, si annida nel caldo materno dell’autocoscienza.
Oppure è il contrario: è Narciso che, specchiandosi, scopre di essere. Anche questo è il Tempo, la superficie acquatica sulla quale vediamo dispiegare noi stessi.
Madara Uchiha avrebbe proposto la perentorietà di uno sguardo unico, il programmatico ed igenico genocidio di ogni emissario di quell’alterità per lui insopportabilmente irreprensibile: questo è lo Tsukuyomi Infinito, l’Occhio lunare.
La prima, più brutale e totalitarista soluzione a Kronos: l’illusione, una veste che renda più accettabile il nostro graduale approcciarci all’oblio effettivo. “To die, to sleep”. Tanato e Ipno sono per Omero gemelli.
Bully è l’oblio, il non porsi affatto il problema. Cos’è una decade di prigionia? Cos’è la morte? Nulla.
Adeguarsi alla casualità, alla rete pulsionale, come se fosse l’unica via percorribile. Fino a dissolversi in essa, narcotizzati e sorridenti. Una casualità senza causa prima, né fine ultimo.
Una semplice scossa tellurica.
Malick sutura quella ferita apertasi tra le palpebre del Tempo, ricongiungendo sguardo e guardato, reimmergendoli nella luce amniotica da cui entrambi scaturiscono. I due termini sono ora equivalenti, inanellati nella reciprocità. Così Piero della Francesca suturava il costato di Cristo adagiandovi sopra, con una precisione tanto alta da essere delicata, un ciondolo corallino. L’ora della nascita di Gesù e l’ora della morte del Cristo, in un unico, totale attimo. Questo è Aion.
Eracle, il cui primo e oscuro nome e proprio Tempo[vi], ancora infante stritolava i due serpenti inviati da Era per ucciderlo nella comodità della sua culla.
Era cercava soltanto, indignata, di uccidere l’ennesimo frutto dell’adulterio del figlio di Crono, o stava adempiendo a un sogno di più grande respiro? Voleva forse avvicinarsi a quanto fatto da Zeus, uccidere il Tempo? Quella tra Eracle e i serpenti è una lotta le cui radici vanno ricercate nella profondità di quell’altrove inconcusso, non ferito, ancora privo di interstizi in cui il Tempo avesse modo di fiorire.
I serpenti si riabbracciano ora nel nodo eraclideo, le cui scaglie sono il primo involucro del tutto.
Illusione, oblio, verità.
Corona
Ierogamia e sacrificio furono, un tempo, una sola cosa. Nella storia si scinde progressivamente quell'innominato. Il dio primordiale si uccideva e copulava nello stesso tempo. Gli uomini che lo ricorderanno non possono ripetere quell'impresa, se vogliono sopravvivere, e sono costretti a dividerla in due fasi: assassinio e copula, sacrificio e nozze. Ma nel sacrificio permane il sapore delle nozze, come nelle nozze il sapore del sacrificio. Qualcosa di tangibile accomuna quei gesti: la corona. Si viene incoronati ugualmente per andare al sacrificio e alle nozze.[vii]
“Si uccideva e copulava allo stesso tempo”. Clark riesce, per un attimo, a superare quella scissione diagnosticata da Calasso. A ripristinare la contemporaneità di quegli atti oggi profondamente separati. Le due sfere, come discusso in apertura, coesistono.
Eschilo aveva impiegato una terminologia sacrificale per narrare un uxoricidio[viii]; Euripide, simmetricamente, una narrazione e un linguaggio che dessero alla sacralità della morte di Ifigenia la veste di un brutale omicidio. Analogamente, Bully descrive l'atto omicida come sfrenatezza orgiastica.
È però vero che sono necessari due distinti “contenitori”: Lisa è il corpo destinato ad accogliere eccitazione e godimento, a Bobby spettano invece terrore e morte.
Non c'è un Dioniso, un “dio primordiale” capace di accogliere in sé una così lacerante contraddizione.
Non c'è – ribadiamolo – alcun Dio, sia esso punto di riferimento estetico o morale. “Solo gli dei sono cause”, dice Priamo confortando la donna che ha causato la distruzione di Troia, la sua città.[ix] Ma qui non vi sono dei, non vi sono cause. Solo strepito e furia.
Alla ierogamia e al sacrificio mancano le loro componenti ultraterrene, mentre permangono e si radicalizzano le controparti telluriche: copula e omicidio.
Sex and Violence.
Vi è però un residuo sacrale. Ci troviamo estasiati a contemplare le rovine di una cattedrale decaduta, ancora intrisa delle liturgie che nei secoli hanno lasciato sedimentare nelle crepe più nascoste un enigmatico profumo di trascendenza.
Quelle voci riecheggeranno per sempre.
E nel profano permane il sapore del sacro.
[i]A riconfermare la circolarità caratterizzante l'opus malickiana interviene anche il ritorno alla forma narrativa -o quantomeno ad una disposizione cronologica– recentemente avvenuto con A Hidden Life (2019), che inscrive la sua stessa filmografia in una struttura ciclica.
[ii]Malick cesserà di ricorrere a questi personaggi-diapason solo in Voyage of Time (2016), comunque non rinunciando ad iconici voice-over come quelli di Brad Pitt e Cate Blanchett.
[iii]F. Hegel, Logik, in Samtliche Werke, IV, Stuttgart, 1930, pp. 147 sgg
[iv]R. Calasso, Ka, [3] Adelphi, 1996, pp. 61 sgg
[v]P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972
[vi]Antenagora, In difesa dei cristiani 18, 3-6
[vii]R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, 1991, p. 127 sgg
[viii]Adotto il termine nella consapevolezza della sua incorrettezza sul piano etimologico, ma anche dell'assenza di un termine che descriva in senso proprio l'uccisione del marito.
[ix]Omero, Iliade, III, 164