Asso d’Europa

Mi è capitato, quasi per caso, di imbattermi negli ultimi giorni in un minuscolo libro di Tzvetan Todorov, pubblicato per Garzanti nel 2019. Parliamo di un vero e proprio tascabile, e qui forse inconsciamente potrei rintracciare il motivo del mio incontro con questo testo, uno di quei libri che ci si porta dietro, nella tasca di una giacca, senza l’intento di leggerlo, ma quasi più per dimenticarlo lì nel fondo e poi, tutto ad un tratto, ricordarsi di averlo, con una certa qual soddisfacente sorpresa. Quasi dimenticavo, ammetto fin da subito che non stiamo parlando di quel libro che ti stravolge la vita, che inclina lo specchio riflessivo della propria visione del mondo, insomma, non si tratta di un libro importante, ma, come tutti gli oggetti, le scartoffie, i pezzetti di carte, i filtrini e le monetine che si perdono nelle tasche di una giacca, anche questo libricino può, quando meno ce lo si aspetta, tornare utile, e per me così è stato. Mi fermo un attimo. Lo sanno tutti, mai giudicare un libro dalla copertina e ancor meno dalla sua grandezza; a pensarci, al di là delle norme scolastiche, non credo inoltre sia un eccellente inizio per una recensione. Passo dunque a presentare il contenuto ma, nell’indecisione se farlo o meno, decido di non cancellare le righe iniziali nel tentativo di proporre un nuovo inizio, magari più accattivante e pirotecnico o semplicemente più consono alle norme di redazione, decido di salvare quello attuale perché, d’improvviso, tiro fuori dal cappello o dalla manica, anzi no per restare in tema, direi dalla tasca, la frase di un grande maestro: la forma è già sempre il contenuto.

E in effetti, a pensarci bene, Todorov in questo testo non fa altro che cercare una forma, una piccola formella, la tessera che, nel rischio di essere dimenticata e non considerata, scombina il mosaico, lo frantuma da vicino, ma lo inquadra da lontano, un tratto di colore che è anche cornice; non fa altro che scrutare e spiare dall’occhiello la modalità di una formazione, un particolare approccio a qualcosa, la forma di un approccio. A questo punto potremmo affermare di aver detto già tutto quello che avevamo da dire, ma così, quasi per sfizio, proviamo a vedere qual è il contenuto di questo testo. A partire dal titolo. Si parla di Europa, di Unione Europea, di cultura europea, s’intitola L’identità europea. L’argomento sembra chiaro e lo è di sicuro lo sviluppo del testo, nonostante l’autore si ponga di fronte ad una domanda non certo facile: esiste un’identità europea? Possiamo parlare di identità? E, nello specifico, cos’è che definisce il tratto tipicamente europeo? Non è una domanda semplice, con una risposta scontata, così come non è una domanda che ci si pone frequentemente, soprattutto oggi in cui si è perso di vista il progetto europeo, quelle che erano le sue fondamenta e quelle che dovevano essere le sue motivazioni. Todorov taglia corto, non fa troppi giri di parole e tra tutte le sfaccettature di cui può esser composta un’identità, a lui ne interessa una, quella culturale, ed anche questo aspetto non è banale se applicato all’Europa di oggi, in cui ci si è abituati a vedere l’Unione come un’enorme macchina burocratica, giuridica ed economica, che stampa moneta, che detta legge e che, a seconda del paese da cui la si osserva, si impone autoritariamente sugli Stati membri o è al servizio dei loro interessi, in balia dei loro conflitti, incapace di imporsi come unità transnazionale. L’Europa certamente è tutto questo, ma non è solo questo, è anche qualcos’altro, un qualcosa di altro che ha a che fare con la cultura, la quale per l’autore dovrebbe essere «il terzo pilastro per la costruzione europea, accanto all’economia e alle istituzioni giuridiche e politiche» (p.10), una sorta di pilastro spirituale, un sentimento di identità comune che avrebbe l’effetto di accelerare il processo europeo, rendendolo più forte e coeso. D’altronde il Novecento l’ha mostrato abbastanza chiaramente, quasi col rigore di una definizione matematica da leggere tutta d’un fiato: un’idea politica aumenta vigorosamente la propria efficacia in modo direttamente proporzionale alla sua capacità di toccare l’identità delle persone verso cui è rivolta. Novecento, identità, politica identitaria, la sento già qualche anima post-moderna che sbuffa, che sente già di sapere dove il testo andrà a parare, verso qualcosa di già sentito, di vecchio, di già applicato e fortunatamente già decostruito, che interrompe qui la lettura dell’articolo e che colloca questo libro non sul fondo di una tasca, ma su quello di un cestino. Avrebbe pienamente ragione. Avrebbe tutto il mio sostegno nel farlo se fosse questa la direzione che il libro si prepara ad intraprendere, ma, colpo di scena, non è questo il percorso tracciato da Todorov e non lo è per una semplice quanto radicale ragione: porre la questione dell’identità europea è già di per sé stesso, per sua stessa essenza un tentativo di mettere in crisi la nozione di identità o se non altro un modo per complicarla, diversificarla, inabissarla. Procediamo però con ordine e cerchiamo, insieme all’autore, di porci sulle tracce di questa strana identità culturale, di capire in fin dei conti quale sia la sua forma e il suo contenuto, ammesso, spoiler, che ne abbia uno.

Proviamo ad immedesimarci nell’operazione che il libro si propone di attuare: stiamo cercando un’identità all’Europa e nello specifico un’identità culturale; in fin dei conti si tratta di capire cosa è europeo e cosa invece non lo è, vogliamo tracciare una linea, un insieme chiuso che si differenzi dall’esterno, ma per decidere dove far passare il tratto dobbiamo prima di tutto sapere cosa deve essere incluso e cosa escluso: abbiamo un problema di contenuto. La prima cosa, dunque, che ci verrebbe da fare è quella di definire la sostanza, il substrato materiale su cui poggia la dimensione culturale europea, di riempirla con elementi caratterizzanti o, in modo schematico e metaforico, con delle città. Sembra un gioco divertente, a cui ha giocato, agli inizi del ’900, anche Paul Valèry, che lancia sul tavolo tre carte fondamentali che devono rientrare nel mazzo da gioco chiamato Europa: la prima rappresenta Roma, donatrice dell’organizzazione del potere statale, del diritto, delle istituzioni e dello statuto del cittadino; la seconda Atene, portatrice di conoscenza, dell’argomentazione razionale, dell’ideale di armonia e dell’idea dell’uomo come misura di tutte le cose; la terza Gerusalemme, genitrice della morale soggettiva, dell’esame di coscienza e della giustizia universale: un popolo si dice europeo se, nel corso della sua storia, ha subito l’influenza di questi tre mondi. Pensare però ad un mazzo composto da solo tre carte fa un po’ sorridere e infatti ci pensa Denis de Rougemont a ricordarci come anche altre sono state le influenze fondamentali di cui bisogna tenere conto, a partire da quella dei popoli celti o della tradizione persiana, per non parlare della cultura araba. Inoltre Todorov sottolinea come dall’elenco di Valèry sia esclusa del tutto la modernità, della quale bisognerebbe almeno prendere in considerazione l’Umanesimo e soprattutto l’Illuminismo, dico soprattutto perché appartiene alla tradizione illuministica quell’idea di pluralismo che l’autore bulgaro, lo vedremo, porrà al centro dell’identità europea. Alle tre città iniziali bisognerebbe dunque aggiungere Londra, Parigi, Berlino, Amsterdam, Dublino, Madrid, Vienna, Milano, Venezia, per considerarne solo alcune e l’elenco potrebbe continuare all’infinito fino a farci scappare il mazzo dalle mani, lo ripeto: abbiamo un problema di contenuto. Se poi, ci dice Todorov, passiamo dal considerare le opere di una cultura ai suoi modi di vivere collettivi, ecco allora che le differenze tra i diversi paesi europei sembrano quasi insormontabili, a partire dalle lingue: ogni volta infatti che si attraversa il confine di uno stato europeo per entrare in quello di un altro, non si sta solo attraversando una frontiera geografica, ma ci si sta immergendo in un diverso mondo linguistico e semantico, un diverso modo di definire il mondo, di guardarlo e di parlare di esso, all’interno del quale pullulano costellazioni di modalità di muoversi nell’ambiente, di organizzare il tempo e lo spazio del tutto differenti da quella a cui si è abituati. Non solo, la memoria collettiva di un paese intorno ad un accadimento o personaggio storico è diversa da quella che si costruisce, rispetto allo stesso evento, in un altro stato, per esempio Napoleone può essere considerato un eroe da alcuni e un tiranno da altri e certamente «non si commemora la battaglia di Waterloo allo stesso modo a Parigi e a Londra» (p.18). Le tradizioni nazionali e regionali minano alla base la coerenza di un’ipotetica identità europea e il tentativo di fornire ad essa un contenuto è ulteriormente minacciato dalla constatazione che in Europa ogni evento, ogni dottrina, ogni teoria e ogni idea è sempre stata accompagnata al ballo della storia dalla sua controparte, vestita di tutto punto: l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani appartiene all’Europa, così come la schiavitù; la tolleranza religiosa è una sua conquista, come il fanatismo e le guerre di religione; l’autodeterminazione di ciascun individuo e popolo derivano dalla storia europea, allo stesso modo della sopraffazione e dell’imperialismo: queste sono solo alcune delle bizzarre coppie che, nella sala da ballo del continente europeo, hanno danzato al ritmo dello spirito critico, capace di rovesciare ogni idea ed ogni valore. Non lo ripeto più, sapete già che problema abbiamo, non possiamo scegliere dal passato il contenuto dell’identità europea e forse, suggerisce Todorov, non possiamo neanche sceglierlo basandoci sulla sola storia di questo continente: «Scegliendo nell’abbondante passato dell’Europa le caratteristiche più convenienti, rifiutando di vedere l’aspetto necessariamente mutevole delle culture, tutti quelli che identificano il suo nucleo sostanziale stabile, in realtà, pronunciano sul passato un giudizio ancorato al presente, reiterano il loro ideale contemporaneo cercando in esso prefigurazioni antiche» (p.24). Siamo nel punto più complicato della nostra ricerca di un’identità europea, non abbiamo un nucleo irriducibile, un canone immutabile, abbiamo un mazzo con un numero indefinito di carte, tutte diverse l’una dall’altra per numero, per seme e per figura, ed ognuna presenta sulla faccia opposta la sua controparte, in modo tale che non riusciamo a identificare i quattro assi che potrebbero permetterci di capire con che mazzo stiamo giocando. Forse non dobbiamo concentrarci sulle carte ma sul mazzo in sé. Lo dicevo all’inizio, il contenuto non può darci molto, bisogna passare ad analizzare la forma, una certa forma, la forma di un approccio a qualcosa. Proprio in ciò consiste il passo cruciale compiuto da Todorov, un passo di lato, lo scivolamento su un altro piano che ci permette di sciogliere il nodo dell’identità europea affermando che non si tratta di cogliere tra i diversi paesi l’elemento, l’evento, l’opera o il personaggio che essi hanno in comune, ma di rendersi conto che ciò che li accomuna è un determinato modo di approcciarsi alle diversità: «L’unità della cultura europea consiste nella sua maniera di gestire le diverse identità che la costituiscono a livello regionale, nazionale, religioso e culturale, accordando loro uno statuto nuovo e traendo profitto da questa stessa pluralità. L’identità spirituale dell’Europa non porta ad annullare le culture specifiche e le memorie locali. Non consiste in un elenco di nomi propri o in un repertorio di idee generali, ma nell’adozione di un medesimo atteggiamento di fronte alle diversità» (p.26). Rovesciando in questo modo la prospettiva, la pluralità, che prima ci ostacolava nella ricerca di un tratto comune, diventa ora la base dell’unità e dell’identità europea, si trasforma in quell’asso nella manica che già Montesquieu, Voltaire e Rousseau avevano innalzato a valore e che Hume pose a fondamento dell’identità europea. Todorov s’immerge allora nella tradizione illuministica, intesa come «la tradizione decisiva per l’emergenza dell’Europa attuale» (p.42), e va a recuperare il saggio intitolato Dell’origine e del progresso delle arti e delle scienze pubblicato nel 1742 dal filosofo scozzese: in questo testo si cerca di comprendere il notevole sviluppo culturale del continente europeo e se ne rintracciano le ragioni proprio nella pluralità che lo caratterizza, nel suo essere formato da un insieme di stati vicini, che intrattengono costanti relazioni politiche ed economiche, di simili dimensioni e potenza, in modo tale che nessuno sia in grado di sottomettere gli altri.

Questa pluralità, che trova la sua ragione nella frammentazione geografica del continente, favorisce lo sviluppo della libertà di pensiero e di espressione, la possibilità di osservare i paesi vicini per emularli, per competere e per rivolgere la lama dello spirito critico nei confronti delle proprie norme, istituzioni e tradizioni che non vengono quindi subite passivamente ma stravolte, ripensate e rinnovate. Cristoforo Colombo non sarebbe mai partito se l’unico sovrano d’Europa fosse stato il principe portoghese che si rifiutò di finanziargli l’impresa; allo stesso modo le scoperte di Galileo non si sarebbero mai diffuse se l’unica religione fosse stata quella cattolica. L’Europa si caratterizza quindi come una terra di pluralismo, come lo fu a suo tempo la Grecia, che presenta una rete comune data dal continuo intrecciarsi di infinite trame, di percorsi a più direzioni, reali o soltanto possibili, che sono stati meticolosamente tessuti tra loro, nel corso dei secoli, dai popoli europei. Inoltre, questa pluralità interna ha necessariamente favorito lo scambio con il mondo esterno, l’apertura verso nuove idee, nuove tecniche, differenti culture e alternativi modi di vivere, che sono stati assorbiti, ripensati e diffusi rapidamente oltre i confini di un singolo stato. Accettare le diversità dei singoli stati, cercare di trarne i maggiori profitti possibili e soprattutto accordare a questa pluralità un valore positivo capace di fungere da perno intorno a cui costruire un’unità, sono tratti tipicamente europei che ereditiamo direttamente dalla tradizione illuministica e che si pongono alla base del progetto europeo: non si tratta semplicemente di accogliere l’altro o il diverso, ma di attribuire alla diversità stessa uno statuto, una certa maniera di rivolgersi ad essa, non si tratta di amplificare il turbine del relativismo postmoderno, ma di realizzare quello che è stato definito dal sociologo tedesco Ulrich Beck modello cosmopolita: un insieme di piccoli stati rispondono ad una norma comune, la quale riconosce uno statuto legale alle singole differenze e specificità di ciascuno stato, conferendo loro uguali diritti. Arrivati a questo punto vorrei concludere riprendendo le parole di Todorov intorno alla figura mitologica di Europa: «Il continente europeo porta il nome di una giovane, Europa [...], una donna doppiamente marginale: è di origine straniera, senza radici, un’immigrata involontaria; abita ai confini, lontano dal centro delle terre, su un’isola. I cretesi ne fanno la loro regina; gli europei il loro simbolo. Il pluralismo delle origini e l’apertura agli altri sono diventati l’emblema dell’Europa» (p.42), e già possiamo immaginarceli, Zeus ed Europa, seduti al tavolo di una taverna, in un sobborgo di qualche metropoli, che giocano a carte con un mazzo particolare trovato per caso, dove le carte si richiamano a vicenda, nella differenza più radicale di una con l’altra e nell’opposizione delle figure poste sulle due facce di ciascuna carta. Non si riesce a capire come giocare, fino al momento in cui Europa cala un asso: è strano, come quei tarocchi medievali che ogni tanto si incontrano qua e là, vi sono raffigurate miriadi di stelle che compongono una figura, diversa ogni volta che si gioca la carta, ma nel momento in cui essa tocca il centro del tavolo ecco che il mazzo si rimescola, si riordina, si ricombina, inizia a prendere una forma. Possiamo pensare di giocare, mancano solo le regole comuni, da decidere. Ma questa è un’altra storia.

Luca Rocco

Luca Rocco ha studiato Filosofia prima a Bologna e poi a Verona, dove è nato e abita attualmente. I suoi interessi vertono sulla Filosofia teoretica, in particolare quella francese del ‘900, e sulla letteratura. Insegna Storia e filosofia al Liceo.

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