Cultura, tradizione, musica
C’è, nel mondo contemporaneo, una tale disabitudine a capire che cos’è la cultura che la traduzione dalla cultura alla vita pratica ci è diventata, in qualche modo, molto difficile, non la vediamo. Tradurre la Musica (P.A. Porceddu Cilione per QuiEdit 2019) mira ad accorciare questa distanza mercé una proposta teorica che risemantizza il tradizionale concetto di cultura. L’ambizioso obiettivo dell’opera è presto chiaro: attraverso l’articolazione dei concetti di “traduzione”, “linguaggio” e “cultura” l’autore ci invita a riconsiderare il modo in cui la filosofia si avvicina alla comprensione del mondo. Laddove la filosofia ed il linguaggio si fermano, fa capolino il “linguaggio dei linguaggi” – la musica.
In apertura al saggio viene suggestivamente descritto come, dall’incontro tra le idee di Daniel Baremboim e di Edward Said, si costruisca un effettivo “luogo utopico”, uno spazio neutro che riunisce giovani strumentisti israeliani e palestinesi sotto un comune spazio armonico: quello della West-Eastern Divan Orchestra. Si fa largo, cioè, un nuovo e inaudito modo di intendere la cultura. I due intellettuali – direttore d’orchestra il primo, letterato e scrittore il secondo – dopo il casuale e felice incontro avrebbero infatti realizzato un workshop; rapidamente sviluppatosi, esso sarebbe stato l’incipit di un progetto di dialogo culturale risoltosi poi nell’Orchestra. Invero, anche per chi non sia un addetto ai lavori, l’eco goethiana appare subito evidente. Porceddu Cilione ci introduce così al nesso tra due civiltà, inaugurato dalla celebre raccolta lirica del poeta tedesco, il West-östlicher Divan (1819), permettendoci di oltrepassare le distanze fondate su presupposti identitari, spesso fuorvianti, tra Oriente ed Occidente (e tra le diverse “culture”) attraverso riflessioni sulla traduzione e sulla musica; riflessioni che, dell’opera, si configurano come il cuore nevralgico.
Cosa significa “cultura identitaria” e in che modo essa differisce dall’accezione di cultura che qui si tenta di fare emergere? Cerchiamo di rispondere a queste domande attraversando il testo nei suoi snodi fondamentali. L’esiguo spazio a nostra disposizione ci permetterà tuttalpiù di indicare alcune importanti cerniere concettuali; cercheremo perciò di essere quanto più esaurienti possibile in questi accenni.
La prima domanda da porsi riguarda la cultura: perché a questo concetto è riservato un posto d’onore all’interno del volume? Cosa ha da spartire una nuova teoria della traduzione musicale con una ridefinizione del termine cultura? L’operazione è prima di tutto decostruttiva. Una teoria della cultura, ci ricorda Porceddu Cilione, che non riesca a separarsi dalle sue radici etimologiche, resterà per sempre manchevole. La metaforica che accompagna ogni studioso il quale, inevitabilmente, si avvicini alla domanda fondamentale (cos’è la cultura potrebbe anche essere declinata nella più vasta domanda: cos’è uomo) è sin dall’inizio fuorviante. L’immagine della cultura è infatti indissolubilmente legata alla terra. “Colo”, “cultus” e i derivati “cultura”, “colonia”, “colonizzazione” sono infatti alcuni tra i vari rimandi semantici che avvicinano il termine cultura ad un elemento preciso: la terra. Quest’ultima concepita come un insieme di costumi e regole che germogliano in uno specifico territorio e che, all’interno dei suoi confini, rimangono ed operano. A partire da qui comincia il lavoro decostruttivo che occuperà gran parte del saggio. Cos’è la cultura astratta dal suo vastissimo impianto metaforico, riconsegnata cioè ad una più amplia connotazione filosofica? Il concetto di decostruzione è qui a lavoro in due sensi. In un primo senso il suo oggetto di lavoro, la cultura, viene semanticamente epurato. Si prende cioè distanza dall’oggetto, guardando da lontano, in maniera disincantata descrivendolo come esso si presenta al di là di ogni conformazione storico-etimologica. Quest’ultima appare infatti problematica così come appaiono problematiche le conseguenze di tale impostazione. Basti pensare ai diversi tentativi egemonici della cultura occidentale. In secondo luogo si mostra quanto possa essere ingannevole considerare la “cultura” iscritta ad un preciso territorio, ad organizzazioni territoriali di stampo politico, etico e linguistico. Secondo questa lettura c’è certo il rischio che si possano confondere le cose. La compresenza geografica e storica di diverse culture è di fatto innegabile. Come sarebbe allora ipotizzabile una conciliazione tra la cultura (spazio neutro, luogo utopico di traduzione di ogni lavoro umano) e le culture (il continuo fronteggiarsi di differenti mores identitari)? La proposta è di garantire uno spazio strategico di scambio, traduzione, dialogo. La proposta centrale si fa carico di «mostrare come la molteplicità di culture non compromette l’apertura di uno spazio unico, comune e trasparente, nel quale il transito, le reciproche traduzioni, le narrazioni incrociate delle culture possano aspirare ad una coesistenza e una vicendevole conoscenza» (pp. 39-40).
Ecco che la linea si trasforma in cerchio: cultura, traduzione, musica. Lo “spazio unico” della cultura è un anarchico sovrapporsi e contrapporsi di conoscenze, cioè di traduzioni. Prima di analizzare il nesso tra traduzioni e cultura chiariamo in una battuta il significato di ciò che nel saggio si intende con «traduzione». Potremmo dire, a beneficio di sintesi, che la traduzione è il paradigma cognitivo, la prassi che sta al centro di ogni atto di comunicazione. La storia è l’inizio e la continuazione di una serie infinita di traduzioni. La vicinanza, etimologica e concettuale, tra “traduzione” e “tradizione” ne è il sigillo. Traduzioni che sono colpevoli: ogni tradurre è un tradire, come diceva quel filosofo.
È, dunque, altresì necessario che in questa nuova teoria della traduzione si esibisca il fondamentale apporto che la musica, come “lingua oltre la lingua”, rechi. Ogni composizione musicale cioè rifugge l’informazione nella sua pienezza espressiva. Il nome dell’orchestra non vuole semplicemente essere un omaggio simbolico al Divan goethiano, bensì tenta di ricalcarne lo spirito e la filosofia; è infatti custodita nelle note esplicative che seguono i testi poetici una tra le più importanti teorie della traduzione (e conseguentemente della traduzione musicale) ad essere fiorita in superficie della letteratura mondiale.
La domanda che l’opera suggerisce è la seguente: come si può davvero tradurre la musica? Anche la più innocente delle letture musicali, infatti, è sempre una traduzione. Un rapporto di traduzione che, ci ricorda l’autore sulla scorta di Luciano Berio, «non si limita al numero di due: non si tratta di un vettore rigido che trasla il senso dalla lingua A alla lingua B. La traduzione implica sempre una “interazione multidirezionale”» (p. 62). Quest’ultima è garantita dall’enigmatica essenza che la musica assume come tale – in quanto al di là dei modi del linguaggio naturale. Un essenza che oltrepassa e trascende ogni nazionalità, ogni richiamo meramente identitario, idolatrico rispetto ai costumi di casa propria. Anche qui, supremamente qui, ci sono déi. L’insufficienza e la parzialità di ogni lingua trova nella musica una pienezza a cui sempre mirare. La musica non informa mai nessuno perché essa è sempre e solo poesia, letteratura, arte; mai indicazione prostatica o ripiegabile in prosa. Essa non si limita infatti a tradurre il significato testuale, bensì rende percepibile «l’intenzione espressiva interna all’actio del testo» (p. 104).
Schematicamente: cultura è traduzione; la quale però non può mai constare di due soli elementi. Il terzo elemento che sintetizza e supera dialetticamente i due termini del rapporto, e che rende possibile la loro trasposizione di senso è la musica. Questo fa’ sì che ogni traduzione non sia una semplice mimesis, una mera copia del tradotto. Dacché il testo originale si ritrova sempre abolito e superato in una costellazione di forze atte a formare un “universo creativo”. «Quando Brahms mette in musica un testo di Goethe, o quando Hölderlin traduce la terza Pitica di Pindaro, avviene qualcosa che getta una luce nuova sull’intera opera dei traduttori» (p. 90). Quando si traduce si ha sempre a che fare con un pluralismo di forze nei quali soggiace il complesso meccanismo della creazione. Creazione – ossia riproposta critica (ogni traduzione, quelle musicali in primis, sono atti critici) che oltrepassa il testo originale. V’è quindi una fondamentale differenza, nella loro somiglianza, tra traduzione linguistica e traduzione musicale. La musica non traduce semplicemente un significato ma è capace di offrirci l’intenzione espressiva interna all’azione del testo. Ciò la rende, sopra gli altri linguaggi, il luogo utopico della cultura al cui interno si intrecciano le diverse metamorfosi dei linguaggi, delle traduzioni -lo spazio espressivo della memoria umana. Ed è in questi termini che la musica, come viene definendosi, sembra avere un approccio “metamorfico” nei riguardi della traduzione; questo contatto è descritto, nella teoria della traduzione offertaci ne Note e dissertazioni, specificamente nel testo che prende il nome di Ubersetzungen («Traduzioni»), come l’ultimo e il più perfetto tipo di approccio traduttivo. Pur rimanendo fedele al testo da suonare, infatti, il musicista «può imprimere, attraverso sottilissime varianti (un accento, un’arcata, un’emissione, un certo rapporto fra i diversi crescendo…) la sua personale visione del testo» (p. 133).
Il conclusione al saggio, dove si chiama in causa l’analisi benjaminiana sulla teoria della traduzione, e alla luce di ciò che fin ora è emerso dal discorso, compare il paradosso che sta alla base della metafisica della traduzione così com’è impostata dal filosofo berlinese: il puro linguaggio [die reine Sprache]. Il concetto di linguaggio universale (della Weltliteratur, in termini goethiani), punto obbligato di passaggio di ogni traduzione, si prefigura infatti come l’impossibilità e, insieme la possibilità, di ogni atto metamorfico, di ogni pratica traduttiva. La traduzione è, cioè, catturata e avvinta dalle istanze più contraddittorie, dalla contraddizione stessa. È sempre necessario un terzo perché si dia una traduzione anche tra due – apparenti – campi semantici. E si sa, questo è un problema su cui i pensatori si dibattono da che mondo è mondo. Ed è così che si prefigura la speranza che chiude l’attento lavoro analitico di Porceddu Cilione: che esso, che il problema della filosofia – dacché la filosofia è cultura e traduzione - possa essere l'oltrepassamento dei confini e delle lingue, senza che vengano meno l’individualità e la concretezza storica delle parti; e che la musica, una volta conferitole lo statuto filosofico che le è proprio, venga infine, di diritto, assunta come il ponte di questo necessario superamento.