Zabriskie Point - Vuoto propulsivo

Vuoto propulsivo

Il cinema di Michelangelo Antonioni è –volendo sintetizzarlo in un’unica e icastica figura– un “balletto intorno al vuoto”. Un continuo circumnavigare l’assenza, nella sua irriducibile informità, tentando vanamente di indurre alla palpitazione quella struttura ectoplasmatica che mai cessa di attanagliare le figure[1] che le sue opere affollano. Un cinema (in)costituito di incomunicabilità, di sparizioni e assenze ingiustificabili (L’avventura, Blow-Up, i clamorosi minuti finali de L’eclisse), che dalla loro sfera metafisica sopraggiungono a frustrare il vivere quotidie, denotando l’inutilità dell’esistere, la conseguente eterna inadeguatezza dell’esistente. L’opus antonioniana è la velatura estetica del vuoto sottostante ogni cosa, ma una velatura sfibrata, tessuto sdrucito che a quel vuoto permette di affiorare, di permeare –come la nebbia asfissiante di Deserto rosso– tutto ciò che è. Inclusa l’arte stessa, che sembra incapace di contrastare quel languore abissale, che esce sempre sconfitta dal suo tentativo di giustificazione estetica del mondo.[2].

Poi, l’anomalia: in Zabriskie Point il “vuoto” che un’intera schiera di Monica Vitti non era riuscita a contrastare diviene qualcosa di (finalmente?) diverso: assurge a dimensione propulsiva. Non più irriducibile informità, ma eteros totale, irriducibile apertura all’emergere del possibile, palcoscenico di ogni virtualità. Zabriskie Point (non più il film ma il luogo in esso mostrato, nei confronti del quale l’opera assume un tono elegiaco) è un non-luogo, un aggregato roccioso deprivato della sua funzione originaria e, conseguentemente, precluso a qualsivoglia funzionalità. Inclusa, ripeto, quella ad esso intrinseca: l’“essere lago”: «una zona di antichi laghi prosciugati da 5 a 10 milioni di anni fa. I loro letti sono stati spinti verso l’alto dalle forze del sottosuolo ed erosi dal vento e dall’acqua» (così recita il cartello informativo, letto ad alta voce da Daria). Un utero sradicato dal mondo della Necessità e dalla sua legge, che non è (più) ma potrà essere, capace di ospitare un nuovo Eden, reame del tellurico, così come –antiteticamente– una nuova escrescenza metallica del mondo-macchina, che la Sunny Dunes Corporation si impegnerà a reificare.

Zabriskie Point non è dunque portatore di una visione semplicisticamente ottimistica, celebrante l’avvento (o il ripristino) di valori “nuovi” che destabilizzano lo status quo per stabilizzarsi a loro volta,[3] o che –già stabilizzatisi– tendono a rafforzare la loro posizione, ma è anzi elegia della vita (e, come vedremo, del cinema) nella sua capacità di distruggersi, rinnovarsi, perdere e acquistare significato, senso e funzione, così come di assumere nuovi connotati estetici.

È proprio nell’accogliente sinuosità di Zabriskie Point che Mark e Daria estaticamente vivono, durante l’atto sessuale, un ritorno al primordiale, alla fisicità di una terra desertica e polverosa sceverata dall’interpolazione dell’utile. Oltre a contemplarla, con il distacco meravigliato di chi osserva l’orizzonte, esperiscono la possibilità: i corpi (umani) si moltiplicano, si fondono esteticamente al vuoto che li accoglie. La figura diviene sfondo, tutto confluisce in un unico corpo, un unico flusso vitale (della particolarità di Daria si parlerà più avanti).

Un Eden dunque anti-edenico: laddove il giardino era l’interpolazione originaria, l’esperienza monistica della novizia coppia adamitica è tutt’al contrario uno spogliarsi del concetto di origine, verso l’obliterazione di cui la vita (così come ogni atto creativo) necessita per perpetuarsi.

Lo stesso finale, l’obliterazione definitiva, è una celebrazione della distruzione di quanto vi è di (apparentemente) stabile, del cancerogeno immobile. Lo sguardo di Daria –come l’Amaterasu degli Uchiha[4]– è capace di incendiare, di far esplodere quanto guardato. Così come, parallelamente, lo sguardo di Antonioni è capace di auto-combustionarsi, rinnovarsi, di mettersi in dubbio e in ridicolo (Blow-Up), di rinunciare alla sua statuarietà. Zabriskie Point è, in ogni suo carattere, un invito ad uno sguardo nuovo, capace non solo di contemplare il Reale ma di esperirlo e corroderlo. Un’iniziazione –un invito– allo Sharingan Ipnotico.[5]

[Prima di affibbiare allo sguardo di Daria il carattere dell’auspicio utopico, è necessario ricordare che nessun controcampo smentisce l’esplosione]

Se è vero che il vuoto sottostà a ogni cosa, ogni cosa al contempo esso implica, accetta, non legiferando –e facendo dunque del niente da cui tutto proviene un “ascoltatore dell’essere” (come direbbe Severino)– ma, appunto, insistendo, non-ponendosi: «Io sono colui che non è».[6]

Film filmantesi              

«Sguardi, espressioni, gesti, atteggiamenti. Macchie sfuocate»

(Dalla sceneggiatura originale del film)[7]

A mancare, in Zabriskie Point, è il film stesso, inteso come nucleo eidetico preesistente, al quale la prassi dovrebbe soltanto adeguarsi, rivestendolo come corteccia pellicolare e garantendogli la solidità di cui si suppone esso necessiti. Manca un modello plastico-compositivo al quale ri-farsi. Il rifiuto, anche nella prassi creativa (quantomeno per quanto concerne la messa in quadro), dell’origine come centro irradiante.

Ci troviamo di fronte a un film “filmantesi”, in cui lo sguardo coglie se stesso nel suo primigenio approccio ad un Reale nel quale si sente spaesato, incapace di determinare quale angolo visuale adottare per indagare quanto circostante. Una composizione ritmica di palpebre che si spalancano per la prima volta, dove ogni inquadratura è «un nuovo inizio, un giuoco, […] un primo moto, un sacro dire di sì».[8] Emblematica, in questo senso, la sequenza dei titoli di testa: movimenti di macchina, più che nervosi, incoscienti; inquadrature ricorrenti al fuori fuoco, connesse da jump cuts spesso atti a troncare un busco movimento verso punti indefiniti, o la cui ipotetica definizione futura ci è preclusa.

Così come la visualizzazione (anti)edenica di Mark e Daria si poggia sull’eteros che Zabriskie Point loro garantisce in quanto spazio vuoto, la regia di Antonioni –il suo visualizzare– poggia su un vuoto strutturale, su quell’assenza di un modello filmico da reiterare nell’atto realizzativo. Una struttura manifestantesi -tramite il mezzo filmico– nell’atto stesso di strutturarsi, in continua costruzione e distruzione di sé.[9] Un fanciullesco «giuoco della creazione»,[10] non proteso alla fissità ma anzi promotore di un continuo scambio dialettico in cui nessuna forma può assurgere all’immortalità individuale.

Operazione cinematograficamente pungente: ciò che la pellicola può fissare, “graficizzare”, ovvero il movimento, non è fruibile se non nella sua subitanea evanescenza. L’inquadratura come statuario spazio eidetico (Lang, Kubrick) è qui rifiutata, impossibilitata ad attuarsi, messa in continua discussione.

Mondo-macchina

Nel suo vagare scopico-automobilistico (doppia attività che lo accomuna al Thomas protagonista di Blow-Up) Mark vede dispiegarsi davanti a se’ un mondo assoggettato al metallo, materiale emissario del meccanico, il cui dominio si manifesta tramite una fitta rete di cartelloni e insegne: stabilimenti industriali, officine, etc. Per quanto repentini siano i tentativi di fuga della macchina da presa, è impossibile sottrarsi alla loro imponente onnipresenza.

Daria, anche lei viandante alla ricerca di una città di cui non ricorda il nome con precisione (a confermare l’inutilità del suo agire), si imbatte in una mini-tribù di bambini asserviti al metallico: abitano i resti di automobili capottate, suonano le corde di pianoforti distrutti (forte l’eco di Godard e del suo Weekend, ma anche del gemello Capricci di Bene).

Il tutto mentre alla Sunny Dunes contemplano soddisfatti i loro neo-uomini, in plastica al 100%, mentre pianificano l’estensione del loro impero coloniale.

Quello che Mark e Daria si trovano ad abitare non è un “Point” sradicato dalla legge di Lachesi, ma anzi un mondo-macchina, schiavo della causalità e del meccanismo, da cui Mark sente il bisogno di sopraelevarsi, astrarsi: «Avevo bisogno di sollevarmi da terra». Il suo viaggio in aeroplano è il concretizzarsi esteriore di un bisogno interiore, esistenziale. La fame di alterità, che conduce a una “sopraelevazione” tanto idilliaca quanto temporanea, illusoria. Mark non riesce a sfuggire né al mondo che lo circonda, né al montaggio, alla grammatica stessa del linguaggio (quello cinematografico) che il ragazzo si trova ad abitare, che lo inghiottirà nel processo causale, facendo di lui un omicida.

«Mark fissa un poliziotto / Estrae la propria pistola / Inquadrato di spalle, osserva quello stesso poliziotto cadere esanime davanti a lui». È logicamente lui ad essere autore dell’assassinio. È la grammatica cinematografica, quella grammatica che destina al montaggio l’articolazione dei processi logico-causali, a renderlo tale, a identificarlo, intrappolarlo in un’immagine da cui non riuscirà ad evadere. La sua innocenza risiede nello scarto tra le inquadrature riportate, al quale la logica sopperisce incastonandolo nella perentorietà della forma. Sarà solo la narrazione a scagionarlo, il fatto verbalmente rettificato, raccontato a posteriori (rivelerà a Daria –e allo spettatore al contempo– che l’arma era scarica). L’immagine rimarrà inviolata, inscalfita.

Se al momento di quello che potremmo definire “omicidio visuale” Mark è inconsapevolmente succube del film e del suo stesso linguaggio, e dunque figura assolutamente passiva, anche le sue azioni propositive si riveleranno inutili. Robin Hood estetico, Mark strappa al mondo-macchina un minuscolo ingranaggio, per restituirne la propria versione. Si tratta dell’aereo privato rubato poche ore prima, verniciato insieme a Daria e a un enigmatico vecchio pittore,[11] che Mark riporterà sul luogo del furto, trasformandolo di conseguenza nella sua tomba: verrà ucciso al momento dell’atterraggio dai poliziotti presenti (figure nemetiche ricorrenti, i garanti dello status quo), condannato per la sua incapacità di “sopraelevarsi” fino in fondo, attirato nel luogo della sua morte dal bisogno di tornare, di dare ragione –in forma definitiva– a quell’immagine che l’aveva imbrigliato.

Mark non riesce a sottrarsi alla macchina, a raggiungere lo stato di inutilità: la sua morte non è d’altronde percepita -dall’opinione pubblica– come un atto di violenza gratuita, ma come un atto di giustizia, l’esecuzione di un ladro e di un omicida. Anche la sua morte è sigillata da un significato.

Mark, figlio della Necessità / Daria, la Terra

Daria e Mark conoscono, l’una dell’altro, poco o nulla. O, quantomeno, l’indagine che vicendevolmente l’una sull’altro svolgono non è mossa da interessi anagrafici. Anche per la loro imperscrutabilità è un’aura mitologica a circondarli: sono, come l’Eros orfico, dei «primi nati»,[12] senza progenitori o diretta progenie. Senza cognomi. Anche per questo la loro danza di corteggiamento, condotta tramite gli esoscheletri automobile-aeroplano, assume il carattere di una copulazione tra divinità pre-olimpiche. Il cielo che si abbatte con dolce violenza sulla terra, Urano che sfiora Gea. In quel particolare momento, la loro umanità è puro accidente.

[Urano e Gea]

Se però di Mark veniamo quantomeno a sapere, del tutto casualmente, che ha una sorella, di Daria potremmo dubitare l’appartenenza a un qualsivoglia nucleo familiare. Sappiamo che lavora per Lee Allen (dirigente della Sunny Dunes), e, fondamentalmente, nient’altro.

In un mondo che è ormai agglomerato di protuberanze metalliche, Daria sembra essere portatrice di una dimensione altra, precedente. Al momento della morte di Mark, prontamente annunciata via radio, il paesaggio circostante Daria sembra esistere appositamente per accogliere il suo lutto, per moltiplicarlo e al contempo conchiuderlo in una struttura complessiva che lo fagociti, armonizzandolo. Moltiplicando e inglobando, al contempo, Daria stessa in quanto figura filmica, bidimensionale, e amalgamandola –sul piano visuale a ciò che la circonda. Diviene uno dei cactus, componente organica della piccola foresta.

Poi, comincia a ondeggiare ad un ritmo misterioso, un respiro, costituito da un’endiadi sonora: da una parte le note di John Fahey (Dance of Death), proposta radiofonica che acquista con la sua puntualità la funzione di requiem; dall’altra, il vento desertico, che scuote le fronde delle piante così come i capelli della ragazza. Inquadrata di spalle, nuovamente colta in ekstasis.

Come già accaduto durante la “Love Scene”, figura e sfondo si compenetrano. Sia sulla traccia visiva (la metamorfosi di Daria-Dafne in cactus, dei suoi capelli in fronde silvestri), sia su quella sonora (la Dance of Death, il vento, la loro rispettiva appropriatezza a incarnare il sentimento dell’avvenuta perdita).

Il vento sospinge la ragazza a proseguire il suo cammino, verso la villa di Lee. Qui troverà, stavolta, le lacrime: raggiunto un anfratto roccioso nei pressi della piscina, Daria si lascia inondare il viso da una piccola cascata. La sua secrezione lacrimale coincide con l’acqua offertale dall’ambiente circostante. Il suo pianto non è auto-indotto, falsificato, bensì combaciante a quel piccolo fenomeno geologico. Ancora una volta, l’ambiente che la circonda vive attendendola, per accoglierla al momento opportuno.

Se Mark era “figlio della Necessità” (uno dei tanti, innumerevoli), Daria è la Terra stessa.[13] Una nuova Demetra, che ha appena perso la sua Core, il cui dolore coincide con i cicli naturali, il cui sguardo rabbioso può distruggere, estirpare. È lei l’ultima figura antropomorfa a presenziare nell’opera, prima di allontanarsi e lasciare posto al tramonto finale.

Un’immagine, questa, totalmente opposta alla sequenza che –specularmente– avvia il film. In primo luogo, registicamente: un long take di oltre due minuti (per metà occupato da un lento e impercettibile zoom verso il Sole), dal movimento morbido, antitetico alla frammentazione convulsa e alla casualità sia dei movimenti di macchina che del montaggio della sopracitata sequenza d’apertura. In secondo luogo, “soggettisticamente”: laddove le prime rapsodiche immagini di Zabriskie Point costituiscono un naufragio da un volto umano ad un altro (interessandosi dunque all’umano come soggetto estetico), l’inquadratura finale, una volta liberatasi di Daria (che non semplicemente viene lasciata fuori campo, ma attivamente si allontana), non ha centro nevralgico all’infuori di quel Sole che occupa –con precisione– il centro del quadro.

Lo sguardo estirpatore di Daria, oltre a consentire al giuoco della creazione(e dunque della distruzione al contempo) di attuarsi, scevera il film –e, per un attimo, il cinema tutto– della figura umana verso cui la messa in quadro sempre si orienta.

L’eredità di The Passenger

È possibile per un’operazione filmografica a lungo protrattasi come quella di Antonioni, sopravvivere all’Apocalisse con cui Zabriskie Point si conclude? La stessa domanda potrebbe sorgere spontanea, e altrettanto legittima, dopo la visione dei precedenti Blow-Up, o L’eclisse. La filmografia antonioniana sopravvive a numerose morti, tutte caratterizzate dal loro carattere –a posteriori apparente– definitivo, perentorio. Ma un quesito, un anelito soffocato da uno sparo in Zabriskie Point trova la sua riproposizione in The Passenger: è possibile sfuggire alle spire della forma? Alla Necessità dell’identificazione?

A cinque anni di distanza dall’incendio catartico scatenato da Daria, il David Locke protagonista di The Passenger (o Professione: reporter) sembra riuscire là dove il suo predecessore, Mark, aveva fallito. Locke è un corpo-significante polisemico, capace di obliare la sua identità originaria (l’“essere David Locke”) e di assumerne una nuova, estraendola da un corpo altro che –sopraggiunta la morte– ha appena cessato di esercitarla.  Il corpo di David Robertson, trovato esanime da Locke, è in attesa di essere sigillato definitivamente dal rito funebre. Un breve limbo temporale, una vaga somiglianza fisionomica: questo quanto necessario a trasferire l’identità di Locke nella carne morta di Robertson, e, viceversa, l’ormai inutilizzata identità di Roberston nella carne pulsante –seppur ancora per poco– di Locke. Il tutto avviene nel deserto sahariano, come il Point dell’opera precedente non-luogo perfettamente adeguato ad ospitare una trasmutazione identitaria, la possibilità per Locke di esperire la morte, e al contempo la rinascita, sul piano identitario. Come nelle infinite piane di de Chirico, ogni oggetto smette di significare alcunché è una volta posto innanzi alla vastità dell’eteros. A permanere unicamente, come nelle parole del Roberston originale, «Una specie di… attesa».

[Orizzonti, aperture telluriche nei due film gemelli]

«Quando Alessandro giunse a Gordio, trovò sull'acropoli il carro legato al suo giogo da un nodo che nessuno sapeva sciogliere. C'era una leggenda su quel carro, «secondo la quale chi avesse sciolto il nodo che legava il carro avrebbe regnato sull'Asia. Il nodo era fatto di corteccia di corniola, e non se ne vedeva né la fine né il principio. Non essendo Alessandro capace di sciogliere il nodo, né d'altra parte volendolo lasciare insoluto, perché il fatto non provocasse turbamento nella maggior parte dell'esercito, narrano alcuni che egli tagliò di netto il nodo con la spada e disse di averlo sciolto.»[14]

È dunque possibile, rispondendo a Mark, sfuggire a se stessi? “Sopraelevarsi” fino alle estreme conseguenze? Locke riesce –sacrificando la sua esistenza anagrafica– a sfuggire a se stesso, questo è indubbio. Ma, come Alessandro, riesce soltanto a raggirare il nodo, a inscenare una soluzione tanto riuscita esteticamente quando debole a lungimiranza. Locke non comprende che ogni identità, in quanto tale, è un cappio. Sfugge –ormai insofferente– al tedio che vestire quotidianamente gli stessi panni identitari comporta, per il piacere esotico di vestirne di nuovi. Salvo, in conclusione, venire assassinato –e ancora una volta identificazione e morte, per l’individuo, coincidono– proprio in quanto Robertson.

All’elegia della «vita infinita»,[15] indistruttibile di Zabriskie Point, The Passenger risponde con arido pessimismo. L’Amaterasu di Daria rimarrà un unicum nella filmografia del cineasta. Siamo tornati alla nebbia di Deserto rosso, ora sotto forma di soffocanti distese desertiche che, pur dimostrandosi capaci di accogliere taumaturgiche trasvalutazioni, non sono certo accoglienti come le sinuose volute uterine di Zabriskie Point.

[1] Per quanto riguarda la filmografia di Antonioni, C. Bene preferisce adottare il termine “figura” piuttosto che “personaggio”, evitando pertanto – anche a livello terminologico – l’avviarsi di una sterile riflessione psicologica che ha spesso ammantato la produzione del cineasta.

[2] «Solo come fenomeno estetico l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati», F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1972, p. 45.

[3] «Sono disposto a morire. / Ma non di noia»: un lapidario Mark nei confronti dell’assemblea rivoluzionaria studentesca. Un “contestatore della contestazione”, come rilevato da Moravia (la cui recensione del film è qui reperibile: http://www.michelangeloantonioni.info/2013/08/22/zabriskie-point-di-alberto-moravia/).

[4] «Una fiamma nera che non si spegne finché non ha bruciato ogni cosa vista dall’occhio», M. Kishimoto, Naruto, Vol. 42, cap. 389, p. 1.

[5] Come per Daria, lo sguardo di Kakashi non si limita a registrare il Reale, ma anzi interviene con violenza su di esso.

[6] Al contrario dell’essente per eccellenza: «Io sono colui che è» (Esodo, 3:14).

[7] Contenuta in Zabriskie Point, Cappelli, Bologna 1970.

[8] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1968 e 1976, p. 25.

[9] E non una «struttura che vuol essere altra struttura», come per Pasolini (Empirismo eretico) la sceneggiatura cinematografica. Zabriskie Point rigetta l’anelito, preferisce respirare.

[10] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 25.

[11] Azione analoga – anche per la sua inutilità – a quella di Karin (Ingrid Bergman) in Stromboli (Rossellini), che tenta di fare proprio un luogo ostile impossessandosene in primo luogo esteticamente.

[12] Euripide, Ipsipile, fr. 57, 22-23.

[13] Come la Barbe di Flandres (B. Dumont), è concretamentela Terra (A. Baratti, https://www.spietati.it/flandres/).

[14] R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano 1988, p. 119 (che a sua volta cita Arriano, Anabasi di Alessandro, II, 3, 6-7.).

[15] K. Kerenyi, Dioniso, Adelphi, Milano 1992, p. 21.

Niccolò Buttigliero

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

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