Come uccidere uno zombie: pianificare la fine del neoliberismo

Mark Fisher è uno dei più interessanti filosofi esponenti della cosiddetta “teoria critica”. In questo articolo, presentato qui in traduzione, si tratteggiano alcune delle caratteristiche della società occidentale odierna. Se da una parte ci si concentra sul piano culturale prodotto dalle politiche neoliberiste degli ultimi decenni (il realismo capitalista, a cui l’autore ha dedicato anche un interessante saggio omonimo pubblicato in italia da Not, Nero Edizioni); dall’altra si tenta, attraverso una critica delle posizioni extra-parlamentari e locali della sinistra, di immaginare nuove pratiche di resistenza. Il fine dell’autore non è comunque quello di offrire alcuno strumento per una rivoluzione o una soluzione per le contraddizioni che abitano il tardo capitalismo. Quasi al contrario, Fisher ci fa intendere che si tratta, oggi, di pensare l’impossibile politico che domani, all’esplosione dell’attuale assetto esistenziale, si rivelerà l’inevitabile politico.

Articolo originariamente apparso il 16 aprile 2013 su OpenDemocracy: https://www.opendemocracy.net/en/how-to-kill-zombie-strategizing-end-of-neoliberalism/.

A cura di Simone Raviola, traduzione di Dimana Anastassova.

Perché la sinistra ha fatto così pochi progressi cinque anni dopo una significativa crisi del capitalismo [che] ha screditato il neoliberismo? A partire dal 2008, il neoliberismo potrebbe essere stato privato di quel febbricitante slancio posseduto un tempo, ma è lontano dal collassare. Il neoliberismo adesso si trascina come uno zombie - ma come gli affezionati ai film di zombie sanno bene, delle volte è più difficile uccidere uno zombie piuttosto che un essere vivente.

Alla conferenza a York, il tristemente noto commento di Milton Friedman è stato menzionato più volte: “Soltanto una crisi - reale o percepita - produce un vero cambiamento. Quando questa crisi si verifica, le decisioni che vengono prese dipendono dalle idee a disposizione. Questa, io penso, è la nostra funzione primaria: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili fino a quando il politicamente impossibile diventa il politicamente inevitabile.” Il problema è che nonostante la crisi del 2008 sia stata causata da politiche neoliberiste, quelle stesse politiche rimangono in pratica le uniche a disposizione. Di conseguenza il neoliberismo è tuttora politicamente inevitabile.

Non è affatto evidente che le persone abbiano mai accolto le dottrine neoliberali con tanto entusiasmo - ma ciò di cui le persone sono state convinte è l’idea che non vi sia alcuna alternativa al neoliberismo. La (tipicamente riluttante) accettazione di questo stato delle cose è il tratto distintivo del realismo capitalista. Il neoliberismo può non essere riuscito a rendersi più attraente di altri sistemi, ma si è venduto come l'unica modalità di governo “realistica”. L’impressione di “realismo” qui è una conquista politica durevole, e il neoliberismo è riuscito a imporre un modello della realtà elaborato in base a pratiche e supposizioni che provengono dal mondo del business.

Il neoliberismo ha consolidato lo screditamento del socialismo di stato, stabilendo una visione della storia in cui esso ha reclamato il futuro e consegnato la sinistra all’obsolescenza. Ha catturato il malcontento per un sinistrismo centralizzato burocratico, assorbendo e metabolizzando con successo i desideri di libertà e autonomia emersi a seguito degli anni 60’. Ma - e questo è un punto cruciale - questo non è per affermare che questi desideri abbiano condotto inevitabilmente e necessariamente allo sviluppo del neoliberismo. Piuttosto, possiamo vedere il successo del neoliberismo come un sintomo del fallimento della sinistra nel rispondere adeguatamente a questi nuovi desideri. Come Stuart Hall e altri coinvolti nel New Times Project degli anni 80’ hanno insistito profeticamente, questo fallimento si sarebbe rivelato catastrofico per la sinistra.

Il realismo capitalista si può descrivere come la convinzione che non esista alternativa al capitalismo. Tuttavia, si manifesta più spesso non con grandi affermazioni riguardanti l’economia politica, ma con atteggiamenti e prospettive più banali, come la nostra stanca accettazione che salario e condizioni [di lavoro] rimarranno uguali o peggioreranno.

Il realismo capitalista ci è stato propugnato dai manager (molti dei quali si reputano di sinistra) che ci dicono che le cose ora sono diverse. L’epoca del proletariato organizzato è finita, il potere sindacale si sta affievolendo; il business ora comanda, e noi dobbiamo adeguarci. L’opera di auto-monitoraggio che ai lavoratori viene regolarmente chiesto di eseguire - tutte quelle autovalutazioni, valutazioni delle prestazioni, registri - è, [così] siamo stati persuasi, un piccolo prezzo da pagare per tenerci i nostri lavori.

Consideriamo il Research Excellence Framework (REF) - un sistema per valutare i risultati delle ricerche accademiche nel Regno Unito. Questo gigantesco sistema di monitoraggio burocratico viene largamente screditato da coloro che vi sono soggetti, ma qualsiasi opposizione a esso è stata finora simbolica. Questa duplice situazione - in cui qualcosa viene detestato ma allo stesso tempo rispettato - è tipica del realismo capitalista, ed è particolarmente intensa nel caso dell’università, una delle presunte roccaforti della sinistra.

Realismo capitalista è un’espressione della decomposizione di classe, e una conseguenza dell’annientamento della coscienza di classe. Fondamentalmente, il neoliberismo deve essere visto come un progetto che mirava a ottenere questo fine. Non era - almeno non in pratica - dedicato prima di tutto a liberare il mercato dal controllo dello Stato. Piuttosto, si trattava di subordinare lo stato al potere del capitale. Come David Harvey ha affermato senza sosta, il neoliberismo era un progetto che mirava a riaffermare il potere di classe.

Mentre le tradizionali fonti di potere della classe operaia venivano sconfitte e represse, le dottrine neoliberiste funzionavano come armi in una guerra di classe combattuta sempre di più da una parte soltanto. Concetti come “mercato” e “competizione” funsero non come i veri obiettivi della politica neoliberista, ma come suoi miti di riferimenti e alibi ideologici. Il capitale non ha alcun interesse né per la salute dei mercati, né per la competizione. Come Manuel DeLanda, seguendo Fernand Braudel, ha spiegato, il capitalismo, con la sua tendenza ai monopoli e oligopoli, può essere più accuratamente definito come anti-mercato piuttosto che come un sistema che promuove mercati prosperosi.

David Blacker osserva mordacemente nel suo imminente libro, The Falling Rate of Learning and the Neoliberal Endgame, che le virtù della “competizione” sono “convenientemente da riservare soltanto per le masse. Competizione e rischio sono per piccoli business e altre piccole persone come dipendenti privati e pubblici.” L’invocazione della competizione è stata utilizzata come un’arma ideologica - il suo vero obiettivo è la distruzione della solidarietà, e, come tale, è stata un notevole successo.

La competizione nell’educazione (sia tra istituzioni che tra individui) non è qualcosa che emerge spontaneamente una volta rimossa la regolamentazione statale - al contrario, è qualcosa di attivamente prodotto da nuove tipologie di controllo statale. Il REF e il regime di controllo scolastico supervisionato dalla Ofsted nel Regno Unito sono entrambi dei classici esempi di questa tendenza.

Siccome non esiste alcun modo automatico di “marketizzare” l’educazione e gli altri servizi pubblici e non c’è un modo trasparente di quantificare la “produttività” di impiegati come gli insegnanti, l’imposizione della disciplina del business ha implicato l’installazione di giganteschi apparati burocratici. Così, un’ideologia che aveva promesso di liberarci dalla burocrazia statale socialista ha invece imposto una burocrazia tutta sua.

Questo sembra solo un paradosso se consideriamo il neoliberismo secondo la sua promessa - ma il neoliberismo non è il classico liberismo. Non si tratta del laissez-faire. Come ha affermato Jeremy Gilbert, sviluppando le lungimiranti analisi del neoliberismo di Foucault, il progetto del neoliberismo ha sempre riguardato l’attento controllo di un certo modello di individualismo; i dipendenti devono essere sorvegliati di continuo per la paura che possano cadere nel collettivismo.

Se ci rifiutiamo di accettare le motivazioni del neoliberismo - che i sistemi di controllo presi dal business fossero destinati a migliorare l’efficienza dei dipendenti - allora diventa chiaro che l’ansia prodotta dal REF e da altri meccanismi manageriali non è un effetto collaterale accidentale di questi sistemi - è il loro reale obiettivo.

E se il neoliberismo non collassasse di sua volontà, cosa si può fare per affrettare la sua caduta?

Strategie di rigetto che non funzionano

In un dialogo tra Franco “Bifo” Berardi e me pubblicato sulla rivista Frieze, Berardi ha parlato della “nostra attuale impotenza teoretica di fronte al processo di de-umanizzazione provocato dal capitalismo finanziario.” “Non posso negare la realtà” continua Berardi, “che mi sembra essere la seguente: l’ultima onda del movimento - dal 2010 al 2011 - è stata un tentativo di revitalizzare una soggettività di massa. Questo tentativo fallì: siamo stati incapaci di fermare l’aggressione finanziaria. Il movimento ora è scomparso, emergendo soltanto nella forma di frammentarie esplosioni di disperazione.”

Bifo, uno degli attivisti coinvolti nel cosiddetto movimento autonomista in Italia negli anni 70’, qui identifica il ritmo che ha definito la lotta anticapitalista a partire dal 2008: gli esaltanti scatti di militanza svaniscono con la stessa velocità con la quale compaiono.

Reputo le considerazioni di Bifo come un requiem per le strategie “orizzontali” che hanno dominato l’anticapitalismo dagli anni 90’. Il problema con queste strategie non è il loro (nobile) obiettivo – l’abolizione della gerarchia, il rifiuto dell’autoritarismo - ma la loro efficacia. La gerarchia non può essere abolita tramite un decreto, e un movimento che feticizza un modello organizzativo al posto dell’efficacia concede terreno al nemico. Lo smantellamento dei molti modelli di stratificazione esistenti sarà un lungo, arduo e logorante processo; non è semplicemente una questione di rifiutare capi e adottare modelli organizzativi “orizzontali”.

Il neo-anarchico orizzontalismo tende a favorire strategie di diretta azione e ritirata - le persone devono agire adesso e per loro stesse, non aspettare affinché dei rappresentanti eletti in modo compromettente agiscano in loro vece; allo stesso tempo, dovrebbero ritirarsi da istituzioni che non sono contingentemente, ma necessariamente corrotte.

L’enfasi sull’azione diretta, tuttavia, nasconde una disperazione riguardo la possibilità di un’azione indiretta. Eppure è attraverso l’azione indiretta che il controllo di discorsi ideologici viene raggiunto. L’ideologia non riguarda quello che tu o io crediamo spontaneamente, bensì quello che noi crediamo che l’Altro creda - e questa convinzione è tuttora determinata in larga misura dal contenuto dei media convenzionali.

La dottrina neo-anarchica sostiene che noi dovremmo abbandonare i media convenzionali e il Parlamento - ma il nostro abbandono ha soltanto permesso ai neoliberisti di estendere il loro potere e la loro influenza. La legge neoliberale potrebbe promuovere la fine dello Stato, ma soltanto mentre assicura di controllare i governi.

Solo la sinistra orizzontalista crede alla retorica dell’obsolescenza dello Stato. Il pericolo della critica neo-anarchica è che essa essenzializza lo Stato, la democrazia parlamentare e i “media convenzionali” - ma nessuna di queste cose è per sempre fissa. Sono terreni mutabili per cui lottare, e la forma che ora assumono è essa stessa l’effetto delle precedenti lotte. A volte è come se gli orizzontalisti volessero occupare tutto eccetto il Parlamento e i media principali. Ma perché non occupare lo Stato e anche i media? Il neo-anarchismo non è tanto una grande sfida al realismo capitalista quanto uno dei suoi effetti. Il fatalismo anarchista - secondo il quale è più facile immaginare la fine del capitalismo che un partito laburista di sinistra - è il completamento dell’insistenza del realismo capitalista che non vi sia alternativa al capitalismo.

Niente di tutto questo è per dire che occupare i media principali o la politica basterà in sé. Se il New Labour ci ha insegnato qualcosa, è che ricoprire una carica non è affatto la stessa cosa di ottenere l’egemonia. Eppure, senza una strategia parlamentare di qualche tipo, i movimenti continueranno a fallire e collassare. Il compito è creare collegamenti tra le energie extraparlamentari dei movimenti e il pragmatismo di quelli all’interno delle istituzioni esistenti.

Rieducare noi stessi per adottare una mentalità da guerra

Se si vuole, tuttavia, considerare lo svantaggio più significativo dell’orizzontalismo, basta pensare a come appare dalla prospettiva del nemico. Il capitale sarà lieto della popolarità dei discorsi orizzontalisti nel movimento anti-capitalista. Preferiresti affrontare un nemico attentamente organizzato, o uno che prende decisioni tramite “assemblee” di nove ore?

Questo non è per affermare che dovremmo ricadere nella fantasia consolatoria che ogni tipo di ritorno a un leninismo di vecchia scuola sia possibile o desiderabile. Il fatto che siamo stati lasciati con una scelta tra leninismo e anarchismo è una dimostrazione dell’attuale impotenza della sinistra.

È fondamentale lasciarsi dietro questo sterile binarismo. La lotta contro l’autoritarismo non deve comportare il neo-anarchismo, proprio come un’effettiva organizzazione non richiede necessariamente un partito leninista. Ciò che è richiesto, tuttavia, è prendere sul serio il fatto che siamo contro un nemico che non ha alcun dubbio di essere in una guerra di classe, e che dedica molte delle sue enormi risorse nell’addestrare le sue persone per combatterla. C’è una ragione se gli studenti della MBA leggono l’Arte della Guerra e se vogliamo fare dei progressi dobbiamo riscoprire il desiderio di vincere e la fiducia che possiamo [vincere].

Dobbiamo imparare a superare certe abitudini del pensare anti-stalinista. Il pericolo non è più, né lo è stato per del tempo, l’eccessivo fervore dogmatico dalla nostra parte. Invece, la sinistra post-68 ha teso a sopravvalutare la capacità negativa di rimanere in dubbio, scetticismo e incertezze - questo potrebbe essere una virtù estetica, ma è un vizio politico. L’insicurezza che è stata endemica nella sinistra a partire dagli anni 60’ è poco in evidenza nella destra - una ragione per cui la destra ha avuto così successo nell’imporre il suo programma. Molti nella sinistra ora si spaventano al pensiero di formulare un programma, anche il meno “impositorio” . Ma dobbiamo abbandonare la convinzione che le persone passeranno spontaneamente alla sinistra, o che il neoliberismo collasserà senza il nostro attivo smantellamento.

Ripensare la solidarietà

La vecchia solidarietà che il neoliberismo ha decomposto è andata, e non tornerà più. Ma questo non significa che siamo consegnati all’individualismo atomizzato. La nostra sfida è reinventare la solidarietà. Alex Williams ha elaborato la suggestiva formulazione “plasticità post-fordista” per descrivere come potrebbe essere questa nuova solidarietà [abbiamo tradotto qui un aritcolo nel quale se ne parla Alex Williams - Sulla solidarietà negativa e la plasticità post-fordista] . Come ci ha mostrato Catherine Malabou, plasticità non è lo stesso di elasticità. L’elasticità è equivalente alla flessibilità che il neoliberismo ci richiede, in cui noi assumiamo una forma imposta da fuori. Ma la plasticità è qualcos’altro: essa implica sia l’adattabilità che resilienza, una capacità per il cambiamento che contiene anche una “memoria” degli incontri precedenti.

Ripensare la solidarietà in questi termini potrebbe aiutarci ad abbandonare alcune ipotesi poco originali. Questo tipo di solidarietà non implica necessariamente un’unità globale o un controllo centralizzato. Ma andare oltre l’unità non deve nemmeno condurci alla piattezza dell’orizzontalismo. Invece della rigidità dell’unità - aspirazione che ha ironicamente contribuito al noto settarismo di sinistra - quello di cui abbiamo bisogno è la co-ordinazione di diversi gruppi, risorse e desideri. La destra è stata una migliore post-modernista di noi, costruendo una coalizione di successo a partire da gruppi con interessi eterogenei senza il bisogno di un’unità generale. Dovremmo imparare dal loro, per cominciare a costruire un patchwork simile dalla nostra parte. Questo è più un problema logistico che filosofico.

Oltre alla plasticità dell’assetto organizzativo, dobbiamo anche fare attenzione alla plasticità del desiderio. Freud disse che gli impulsi libidici sono “straordinariamente plastici”. Se il desiderio non è una componente biologica fissa, allora non vi è alcun desiderio naturale per il capitalismo. Il desiderio è sempre composto. Inserzionisti, brander e consulenti delle PR l’hanno sempre saputo, e la lotta contro il neoliberismo richiederà che costruiamo un modello di desiderio che possa competere con quello spinto dai tecnici libidici del capitale.

Ciò che è certo è che ora siamo in un deserto ideologico in cui il neoliberismo è dominante di default. Il terreno è in palio, e l’osservazione di Friedman dovrebbe essere la nostra ispirazione: ora il nostro compito è di sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili fino a quando il politicamente impossibile diventerà politicamente inevitabile.

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