«Dovrò vagare da solo» - Jacques Derrida ricorda Gilles Deleuze

In un breve articolo del 1998, qui presentato in traduzione, Jacques Derrida racconta il Deleuze “pensatore dell’evento dall’inizio alla fine” e ripensa con dolore all’amico scomparso pochi anni prima. Il suo pensiero non lo ha mai abbandonato per quasi quarant’anni, così come sembra non averlo abbandonato il ricordo malinconico di un’amicizia indubbiamente profonda, che riconduce Derrida a quella lunga conversazione che i due avrebbero dovuto fare insieme e in cui ora, dice, dovrà vagare da solo.

Articolo originariamente apparso il 1° dicembre 2009 su Senselogic: https://cengizerdem.wordpress.com/2009/12/01/ill-have-to-wander-all-alone-jacques-derrida/

A cura e traduzione di Arianna Locatello

C’è troppo da dire e oggi manco del cuore per farlo. C’è troppo da dire su ciò che ci è successo qui, su ciò che è accaduto anche a me, con la morte di Gilles Deleuze, con una morte che senza dubbio temevamo (sapendo che era così malato), ma comunque, questa-morte-qui, questa immagine inimmaginabile, nel caso, renderebbe ancora più profondo, se fosse possibile, il dolore infinito di un altro evento. Deleuze il pensatore è, soprattutto, il pensatore dell’evento e sempre di questo-evento-qui. È rimasto il pensatore dell’evento dall’inizio alla fine. Ho riletto quello che ha detto sull’evento, già nel 1969, in uno dei suoi libri più celebri, Logica del senso. Cita Joe Bousquet («Alla mia inclinazione per la morte», ha detto Bousquet, «che è stato un fallimento della volontà»), quindi continua:

«Da questa inclinazione a questo desiderio non c’è, in un certo senso, nessun cambiamento se non un cambiamento della volontà, una sorta di salto sul posto di tutto il corpo che scambia la sua volontà organica con una volontà spirituale. Ora non vuole esattamente ciò che accade, ma qualcosa in ciò che accade, qualcosa che deve ancora venire e che sarebbe coerente con ciò che accade, in conformità con le leggi di un’oscura e umoristica conformità: l’Evento. È in questo senso che l’Amor fati è un tutt’uno con la lotta degli uomini liberi» (bisognerebbe citare interminabilmente).

C’è troppo da dire, sì, sul tempo che mi è stato dato, insieme a tanti altri della mia “generazione”, da condividere con Deleuze; alla fortuna che ho avuto di pensare grazie a lui, pensando a lui. Sin dall’inizio, tutti i suoi libri (ma soprattutto Nietzsche, Differenza e ripetizione, Logica del senso) sono stati per me non solo, ovviamente, provocazioni per pensare, ma, ogni volta, l’esperienza inquietante, molto inquietante – così inquietante – di una vicinanza o un’affinità quasi totale nelle “tesi” – se così si può dire – attraverso distanze troppo evidenti in quello che chiamerei, per mancanza di qualcosa di meglio, “gesto”, “strategia”, “modo”: di scrivere, di parlare, forse di leggere. Per quanto riguarda le “tesi” (ma il termine non rende) e in particolare la tesi riguardante una differenza che non è riducibile all’opposizione dialettica, una differenza “più profonda” di una contraddizione (Differenza e Ripetizione), una differenza nelle affermazioni gioiosamente ripetute (“sì, sì”), tenendo conto del simulacro, Deleuze rimane senza dubbio, nonostante così tante differenze, colui a cui mi sono sempre considerato più vicino in tutta questa “generazione”. Non ho mai sentito la minima “obiezione” sorgere in me, nemmeno virtuale, contro qualsiasi suo discorso, anche se a volte mi capita di lamentarmi di questa o quella proposizione in L’Anti-Edipo (gliel’ho detto un giorno mentre stavamo tornando insieme in macchina dalla Nanterre University, dopo una tesi in difesa di Spinoza) o dell’idea che la filosofia consista nel “creare” concetti. Un giorno vorrei spiegare come un tale accordo sul “contenuto” filosofico non escluda mai tutte queste differenze che ancora oggi non so come chiamare o contestualizzare (Deleuze aveva accettato l’idea di pubblicare, un giorno, una lunga conversazione improvvisata tra noi su questo argomento e poi abbiamo dovuto aspettare, aspettare troppo a lungo). So solo che queste differenze lasciavano spazio solo all’amicizia tra di noi. Per quanto ne sappia, nessuna ombra, nessun segno ha mai indicato il contrario. Una cosa del genere è così rara nel nostro ambiente che vorrei prenderne nota qui in questo momento. Questa amicizia non derivava unicamente dal fatto che abbiamo gli stessi nemici. Ci siamo visti poco, è vero, soprattutto negli ultimi anni. Ma riesco ancora a sentire la risata nella sua voce, un po’ rauca, raccontarmi così tante cose che amo ricordare alla lettera: «I miei migliori auguri, tutti i miei migliori auguri», mi sussurrò con un’ironia amichevole nell’estate del 1955 nel cortile della Sorbona quando ero nel bel mezzo del fallimento di un esame. Oppure, con la stessa premura dell’anziano: «Mi fa male vederti passare così tanto tempo in quell’istituzione (il College International de Philosophie). Preferirei che tu scrivessi...». E poi, ricordo i dieci giorni memorabili del colloquio su Nietzsche a Cerisy, nel 1972, e poi tanti altri momenti che mi fanno, senza dubbio come Jean-Francois Lyotard (anch’egli presente), sentire abbastanza solo, sopravvivendo oggi con malinconia in quella che viene chiamata con quella terribile e in qualche modo falsa parola, “generazione”. Ogni morte è unica, ovviamente, e quindi insolita, ma cosa si può dire dell’insolito quando, da Barthes ad Althusser, da Foucault a Deleuze, esso moltiplica in questo modo nella stessa “generazione”, come in una serie – e Deleuze era anche il filosofo della singolarità seriale – tutti questi finali inconsueti?

Sì, avremo tutti amato la filosofia. Chi può negarlo? Ma, è vero (lo ha detto), Deleuze era, tra tutti quelli della sua “generazione”, colui che l’ha resa la più allegra, la più innocente. Non gli sarebbe piaciuta, credo, la parola “pensatore” che ho usato poco fa. Avrebbe preferito “filosofo”. A questo proposito, sosteneva di essere «il più innocente (il più privo di sensi di colpa) a fare filosofia» (Negotiations). Questa era senza dubbio la condizione per aver lasciato un segno profondo nella filosofia di questo secolo, il segno che rimarrà suo, incomparabile. Il marchio di un grande filosofo e di un grande professore. Lo storico della filosofia che ha deciso di procedere ad una sorta di elezione configurazionale della propria genealogia (gli stoici, Lucrezio, Spinoza, Hume, Kant, Nietzsche, Bergson, ecc.) è stato anche un inventore della filosofia che non si è mai zittito in qualche “regno” filosofico (ha scritto di pittura, cinema e letteratura, Bacon, Lewis Carroll, Proust, Kafka, Melville, ecc.). E poi, e poi voglio dire proprio qui che ho amato e ammirato il suo modo – sempre impeccabile – di negoziare con l’immagine, i giornali, la televisione, la scena pubblica e le trasformazioni che ha subito nel corso degli ultimi dieci anni. Economia e vigile ritiro. Mi sono sentito solidale con quello che stava facendo e dicendo a questo proposito, ad esempio in un’intervista a Liberation al tempo della pubblicazione di Mille piani (sulla scia del suo opuscolo del 1977). Ha detto:

«Si dovrebbe sapere cosa sta succedendo nel regno dei libri. Da diversi anni viviamo un periodo di reazione in tutti i settori. Non c’è motivo di pensare che i libri debbano essere risparmiati da questa reazione. Le persone stanno costruendo per noi uno spazio letterario, così come spazi giudiziari, economici e politici, che sono completamente reazionari, prefabbricati e opprimenti. C’è qui, credo, un’impresa sistematica che la Liberations avrebbe dovuto analizzare».

Questo è «molto peggio di una censura», ha aggiunto, «ma questo periodo di siccità non durerà necessariamente». Forse, forse.
Come Nietzsche e Artaud, come Blanchot e altre ammirazioni condivise, Deleuze non perse mai di vista questa alleanza tra necessario e aleatorio, tra il caos e il provvidenziale. Quando stavo scrivendo su Marx nel momento peggiore, tre anni fa, mi ha rincuorato sapere che anche lui stava pianificando di farlo. E rileggo stasera ciò che ha detto nel 1990 a questo proposito:

«…Felix Guattari e io siamo sempre rimasti marxisti, forse in due maniere diverse, ma entrambi. È che non crediamo in una filosofia politica non centrata sull’analisi del capitalismo e dei suoi sviluppi. Ciò che ci interessa di più è l’analisi del capitalismo come sistema immanente che spinge costantemente indietro i propri limiti e che li ritrova sempre su una scala più ampia, perché il limite è il Capitale stesso».

Continuerò a rileggere Gilles Deleuze per imparare, e dovrò vagare da solo in questa lunga conversazione che avremmo dovuto fare insieme. La mia prima domanda, penso, avrebbe riguardato Artaud, la sua interpretazione del corps-sans-organes e la parola “immanenza” su cui ha sempre insistito, al fine di dire o di lasciarsi dire qualcosa che senza dubbio a noi rimane ancora segreto. E avrei cercato di dirgli perché il suo pensiero non mi ha mai abbandonato, per quasi quarant’anni. Come potrebbe iniziare a farlo ora?

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Una (vera) ragione della tristezza del pensiero