Una (vera) ragione della tristezza del pensiero
Le testate dei più importanti giornali, italiani e non, riportano la notizia, tragica: “Muore George Steiner, grande critico letterario”, “Muore il maestro della critica”, “Muore....critica”, “the great cultural critic”, “... critique, est mort à l’âge...”. L’oltraggio permanente tipico della cartastraccia potrebbe obbligarci, ancora una volta, a glissare su un avvenimento di più ampia portata: con George Steiner non muore solamente un critico, ma un filosofo e, in definitiva, l’ultimo esponente della cultura europea tout court.
Quando Thomas Mann, poco dopo essere emigrato negli Stati Uniti, si sentì chiedere della nazificazione della Germania, rispose: «Wo ich bin, ist die deutsche Kultur», «Dove ci sono io, c’è la cultura tedesca». Un’altra pretesa incredibile, presuntuosa, prepotente, arrogante del genio di Lubecca? Forse, dopotutto la stessa opinione pubblica americana lo definì “the world’s greatest living writer”; ma Mann stesso ci assicura che la cultura non poteva crescere sul terreno che c’era in Germania[1] in quel periodo e nessuno più di lui poteva avvertire questo profondo senso di responsabilità.
Ogni uomo europeo, degno di tale attributo, dovrebbe sentire un simile senso di responsabilità. Ed è questo che George Steiner avverte sin dalla più tenera età, quando il padre aveva cercato di rendergli la cosa molto chiara: c’è un compito che bisogna assolutamente assolvere nella vita, sebbene non si abbia un talento esagerato: contribuire con qualcosa che duri alla cultura e nella cultura. E quando si ha la fortuna di avere una spiccata sensibilità, di frequentare una scuola nel 16° arrondissement in rue Lafontaine, di andare a giocare a Place Descartes, di avere un amico in rue Racine, si è già intrisi del retaggio culturale dei padri e della tradizione dell’umanesimo europeo. Leggere i nomi delle strade europee, come ricorda lo stesso Steiner al Nexus Institute, significa sfogliare il nostro passato prossimo; un’enorme differenza rispetto agli Stati Uniti, ad esempio, dove i viali conducono direttamente al tramonto con il Sunset Boulevard, o si limitano a seguire il corso di un fiume con la Great River Road. L’Europa si autodefinisce, quindi, come lieu de la mémoire, come luogo della memoria, del ricordo; rimane, tuttavia, anche il luogo del massacro e dell’incomprensibile: un uomo, insiste Steiner, può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach o Schubert prima di addormentarsi, e il mattino seguente vestire l’uniforme SS per recarsi ad Auschwitz a lavorare. Vediamo, quindi, che il significato originario di “Europa” si ritira nel tempo e la testimonianza che i nomi delle strade ci offrono per l’integrità futura è ferita della stessa ferita della storia: priva ormai di uno scudo come George Steiner, la parola “Europa” può divenire un lamento funebre.
Cresciuto a Parigi in un’importante famiglia di ebrei austriaci, Steiner riceve dal padre i ricordi capitali a cui sarà vincolato per tutta la vita. Quando ha sei anni, suo padre Frederick, che credeva fortemente nell’importanza dell’educazione classica, gli insegna a leggere l’Iliade in greco, lo introduce alle più importanti opere della cultura europea e gli fornisce un bagaglio di lingue (inglese, tedesco, francese e, successivamente, italiano) per guadagnarsi da vivere, da avere sempre appresso ovunque si trovasse, perché gli ebrei erano «ospiti in pericolo, ovunque andassero».[2] Sempre in questi anni, il giovane George si crea il ricordo della gentaglia di Parigi che gridava “Uccidete gli ebrei!” davanti a casa Steiner; mentre la famiglia si affaccia alla finestra per assistere all’infimo spettacolo, il padre prende il figlio da parte e gli dice: “Questa si chiama Storia e non devi mai averne paura”.
Prima di capire il significato e il peso di questa affermazione, George Steiner deve sgomberare il campo dalle affascinanti letture d’infanzia, il cui ricordo deve restare una benedizione per ciascuno di noi. Come è possibile, infatti, conciliare Thomas Mann con Hitler o immaginarsi questo mammifero miserabile delle SS che, tornando a casa dopo una giornata di omicidi, si sedeva a leggere Nietzsche? Ma, allo stesso tempo, è forse possibile disgiungere, per quanto “privata” fosse la relazione, la bellezza dei versi di Pound o la grandezza di Heidegger dal nazismo? La struttura fondamentale dell’opera di Steiner prende vita proprio da questa strana dicotomia: la memoria dei luoghi e i luoghi della memoria.
Secondo Steiner, i totalitarismi e i massacri della seconda guerra mondiale hanno distrutto l’ipotesi che la cultura letteraria, che l’umanesimo sia custode dei valori umani: the Humanities don’t humanize! La filosofia, l’arte, la letteratura non costituiscono, apparentemente, una garanzia di giudizi morali; eppure qualcosa resiste. I capolavori europei ci interrogano, ci invitano a reagire: «il suo torso arde ancora (…) / non vi è punto, qui, che non ti veda. Devi cambiare la tua vita». “Du mußt dein Leben ändern”, devi cambiare la tua vita! Era questo l’imperativo etico di conversione che ingiunse a Rilke, ammirando il cosiddetto Torso di Mileto al Louvre. Noi contempliamo l’opera d’arte, leggiamo libri, ma, più profondamente (e con Rimbaud e Proust lo abbiamo capito bene), è il libro a leggere noi, come se ogni capolavoro fosse già presente in potenza nel Linguaggio. Capiamo che il mondo della cultura ha un’importanza fondamentale per la qualità della vita. La cultura, secondo Steiner, ricordando le parole del padre (“Invitare gli altri al significato”), è un semplice invito, un invito ad essere elitari – ma nel senso più autentico del termine: prendersi la responsabilità per «il meglio» della mente umana.
Una élite culturale deve sentirsi responsabile della conoscenza e della conservazione delle idee e dei valori più importanti, dei classici, del significato delle parole, della nobiltà dei nostri spiriti. Essere elitari, come ha spiegato Goethe, significa essere rispettosi: rispettosi del divino, della natura, degli altri esseri umani, e dunque della nostra umana dignità.[3]
Per dirla con Plotino, «quanto più si è migliori, tanto più si è benevoli verso tutte le cose e gli uomini».[4]
La cultura, quindi, non offre garanzie etiche, non fornisce al linguaggio una potenza di espressione, non ha il potere di costringere un’azione, ma si limita a sussurrare: “Du mußt dein Leben ändern”. Questo mormorio può essere colto e accolto solamente se “amiamo con il cuore”, come ci avverte la poesia di Robert Graves; e noi amiamo con il cuore solamente ciò che impariamo con il cuore, a memoria, by heart, par cœur. Noi siamo ciò che ricordiamo, ammonisce Steiner in un’intervista filmata, e ciò che abbiamo in noi nessuno lo può distruggere. Guardando il XX secolo, abbiamo imparato che si può essere privati di qualsiasi cosa, in quanto siamo tutti vagabondi e ospiti braccati della creazione (“Gli alberi hanno radici, gli uomini hanno gambe”[5]).
Ciò che porti in te, i bastardi non lo possono toccare.
Raccontano spesso la storia vera di un ebreo polacco nel campo di Birkenau: un uomo dalla memoria talmudica, non così rari a quell’epoca. E, nel campo, questi diceva sempre alle persone che incontrava: «se hai bisogno di cercare qualcosa, vieni a cercarlo in me: apri il libro di me stesso, lo porto con me – immagine magnifica – lo porto in me e tu puoi controllare. Non preoccuparti se hai perso i tuoi libri: cerca in me».
In Ezechiele, nell’Antico Testamento, Dio detta al profeta un testo e poi gli dice che vuole che mangi il rotolo. Mangiare è mangiare in ebraico: non ha nulla di metaforico. Lo metti in bocca, lo mastichi e lo mangi. E il profeta, sorpreso, lo fa. Naturalmente il significato è che quel rotolo è diventato parte di te, diventa totalmente parte di te. Il grande drammaturgo elisabettiano Ben Jonson usa il verbo ingest, ingerire: lo mangi, diventa fibra della tua fibra, cuore del tuo cuore e rimarrà con te.E improvvisamente ti rendi conto che la casa del tuo “interno” ha mobili meravigliosi!
La maggior parte di noi non crea molto, quindi per essere in grado di trovare in una casa una compagnia così, Milton li chiama la linfa vitale degli spiriti maestri, significa che torni in una casa molto molto piena. Dobbiamo citare. Dobbiamo citare. Dobbiamo citare, dobbiamo raccontare una grande storia. […] Nel 1937, quando gli uomini scomparivano come le mosche, dissero a Pasternak che se avesse parlato, lo avrebbero arrestato; e se non avesse parlato, lo avrebbero arrestato per insubordinazione ironica. 2000 persone lì, era un incontro di tre giorni: nessuna parola da Pasternak.
Il terzo giorno, i suoi amici gli dissero: «Guarda, ti arresteranno comunque. Per favore, forse dovresti dire qualcosa per il resto di noi, qualcosa che possiamo portare con noi». Quando Pasternak si alza, dice semplicemente un numero, un numero! 2000 persone si sono alzate. Era il numero di un certo sonetto di Shakespeare[6] di cui aveva fatto una traduzione, che i russi considerano, insieme alle opere di Puškin, uno più grandi testi della letteratura russa (sebbene sia Shakespeare!): I summon up remembrance of things past, il sonetto di Shakespeare sulla memoria.
I summon up remembrance of things past!
E 2000 persone lo hanno recitato a memoria, la traduzione di Pasternak. Diceva tutto. Diceva: non puoi toccarci, non puoi distruggere Shakespeare, non puoi distruggere la lingua russa, non puoi distruggere il fatto che sappiamo a memoria quello che ci ha dato Pasternak.
E non l’hanno arrestato!
When to the sessions of sweet silent thought
I summon up remembrance of things past…
The sweet session of silent thought!Bene, in quel caso, i figli di puttana non ti arrestano, o se lo fanno, è troppo tardi: le persone hanno il tesoro con loro!
Le poesie di Mandel'štam furono confiscate e Nadežda, la moglie, insegnò una poesia a dieci persone; ciò significa che per 60 poesie, c’erano 600 persone a saperle a memoria; i dieci le insegnarono ad altri dieci, e così erano salve: questa, io credo, è la forma più profonda di pubblicazione che possiamo avere: è la pubblicazione dell’anima umana. [...]
Ricordare! Io appartengo ad un popolo a cui è stato detto: «Niente rimarrà di te, nemmeno le ceneri» e ciò è perfettamente corretto. Milioni di nomi sono scomparsi e nessuno sa dove: sono polvere nel vento, non possono essere sepolti o visitati. I nazisti dicevano che la memoria della memoria scomparirà. Bene, la risposta è no! Ci siete quasi riusciti, ma non del tutto.
I summon up remembrance of things past!”[7]
La letteratura, o meglio ancora, la cultura è la sopravvivenza dell’Europa e l’Europa sopravvive grazie ad essa, sebbene bisogna avere la consapevolezza che ci sarà un capitolo conclusivo, il celebre tramonto hegeliano.
Tuttavia, per il momento, come afferma George Steiner, la compagnia dei grandi maestri ci darà un infinito sentimento di orgoglio e riconoscimento. Bisogna dire grazie. Memorizzandoli. Nessuno può togliere ciò che memorizziamo. Ricordare (di qualsiasi cosa si tratti) significa essere a casa propria nel mondo della cultura: “Tu vas vivre en moi et je vais vivre avec toi”. “Vivrai in me e io vivrò con te”. I testi – racconta Steiner in un’intervista – camminano accanto a noi; camminare con una poesia di Baudelaire significa essere in ottima compagnia. Oggi, a ciclo concluso, possiamo con fermezza dire che se c’era qualcuno che, alla pari di Mann, avesse il diritto di dire “Dove ci sono io, c’è la cultura europea”, questi era proprio George Steiner. Camminare con un testo di Steiner significa proprio essere in ottima compagnia.
E così come succedeva a Birkenau, dove gli ebrei “aprivano” il vecchio polacco che conosceva a memoria i testi sacri, apriamo anche noi George Steiner, per non cadere nel fascismo della volgarità[8]: cor cordis sursum!
[1] Intervista a Thomas Mann sul Dagens Nyheter, quotidiano svedese.
[2] George and his dragons, The Guardian, 27 Marzo 2008
[3] G. Steiner, Una certa idea di Europa, Garzanti, Milano 2006, p.16
[4] Plotino, Enneadi II/9
[5] G. Steiner, Linguaggio e silenzio, Garzanti, Milano 2006, p.132
[6] Trattasi del sonetto XXX, presente in SHAKESPEARE, L’opera poetica, Mondadori, Milano 2016, p.373
[7] Intervista filmata : https://youtu.be/3xUzVfxwm_k
[8] Espressione dello stesso Steiner