Jacques Derrida: aporia e identità europea

Dell’Europa e della sua identità non possiamo dirne l’essenza né quale sarà il suo futuro ma, dovendo motivare quanto appena detto possiamo affermare che, come scriveva Montale, codesto solo oggi possiamo dirti ciò che non siamo ciò che non vogliamo a cui noi aggiungiamo: né eurocentrici né antieurocentrici; in termini attualissimi né sovranisti né europeisti (tout court). Perché «la vecchia Europa sembra aver esaurito le possibilità di discorso e di contro-discorso circa la propria identificazione. La dialettica, in tutte le sue forme essenziali, anche quelle che comprendono e includono l’anti-dialettica, si è sempre posta al servizio di questa autobiografia dell’Europa».1 E allora l’Europa cos’è? Derrida a questo punto risponde trovando in Valèry il punto d’appoggio – logico e semantico -, il quale pone la differenza tra il piano dell’essenza come realtà effettiva e dell’apparenza ovvero il modo in cui l’Europa si rappresenta. Essa «è una sorta di capo del vecchio continente, un’appendice occidentale dell’Asia». Perciò «l’Europa diventerà quello che in realtà è, ossia: un piccolo capo del continente asiatico? Oppure […] rimarrà quello che sembra essere, ossia: la parte più preziosa dell’universo terrestre […] il cervello di un vasto corpo?».2

Al giorno d’oggi, ridefinire cosa si intenda con identità europea si presenta come l’operazione che più di qualsiasi altra si propone nei termini dell’imminente. L’imminenza e così anche l’oggi non vogliono richiamarci all’irreversibilità di un evento che incombe su di noi. Mentre l’imminenza demistifica l’eidos del destino: Europa caput mundi. L’oggi opera una dilatazione del tempo di un momento storico preciso che ha come obiettivo proprio quello di prendersi tempo (Questo è il tempo della teoria diceva Adorno nella Metafisica) la cui scadenza non è cronologica e il cui termine non è il prender partito. La riflessione a cui è chiamato il pensiero non deve ri-chiamare la memoria come capitale di ipse dixit da riversare pedissequamente sul tavolo del mondo né deve liquidarlo ricadendo così in un contro-dogmatismo. L’imminenza richiede con urgenza la congiunzione della rotta della riflessione nel flusso di una rotta che conduca fuori dalla dialettica del vecchio e del nuovo. Derrida parla di noi europei come di vecchi giovani ovvero di coloro dotati sì di una storia (e non Storia) che però, nella doppia direzione di passato e futuro, necessita di aprirsi. Non solo verso ciò che ancora non è ma anche verso ciò che è stato. E in questa apertura la novità non è cancellazione del passato e ciò che è stato è al di là da venire, di volta in volta dischiudentesi. Nel movimento dialettico, secondo Derrida, ciò che consente l’apertura è il momento fluidificante dell’aporia. Essa è definita da lui come l’esperienza dell’impossibile dacché, in quanto tale, non permette una sintesi o un risultato. Non si presta al gioco del calcolo, non può divenire l’oggetto di un sapere tecnico capace di scioglierne i nodi. L’aporia ci chiama alla responsabilità. Una responsabilità autentica perché ad essa non corrisponde un programma da portare a termine ma si im-pone nella continua valutazione di noi stessi, dunque della nostra cultura. A questo punto ci imbattiamo in un momento cruciale e forse il più interessante della riflessione di Derrida. L’etimologia di cultura rimanda al latino colo il cui significato è quello di colonia e dunque di colonizzazione. La cultura, lo spirito europeo, nei suoi contenuti reificati diventa, nel confronto con l’altro, assoggettamento e imposizione; negazione e chiusura. Intendendola così cadremmo in pieno nella sostanza demoniaca del totalitarismo e nelle sue novelle versioni annacquate. Invece, dice Derrida, «il proprio di una cultura è proprio quella di non essere identica a se stessa. Questo non significa di non avere identità, ma di non potersi identificare, dire io o noi, di poter prendere la forma del soggetto solo nella non-identità a sé o, se preferite nella differenza con (avec) sé che è anche differenza da sé (chez)».3 L’identità è messa in discussione già da sempre a partire da se stessa, in quanto appunto, non è mai se stessa. Non c’è mai chiusura dei conti. Nell’impossibilità di possedere un’identità sancita una volta e per sempre ci rendiamo conto che a farci esistere è sempre un altro capo, come altra sponda o come qualcun altro cui affidarci per arrivare a destinazione, dalla cui semantica sgorgano le possibilità infinite che l’altro capo genera. L’altro capo è la differenza a sé (chez) che ci proietta giocoforza al di là, verso l’altro capo in cui vi è il capo dell’altro che, inaggirabile, si moltiplica in un gioco di specchi, da cui l’altro del capo; impossibile venirne a capo. Non sono giochi di parole. Come abbiamo visto hanno la loro origine dalle parole succitate di Valèry, dove l’Europa è un capo di un altro continente dunque un punto contingente nello spazio geografico e allo stesso tempo il capo, luogo metaforico dove si trova il cervello. Da questo giocare con le parole Derrida ricava un’altra dicotomia, centrale nel dibattito sull’identità europea, che produce un binarsimo di genere: la capitale e il capitale. Alla prima questione sempre in ottica aporetica si gioca la battaglia tra la dispersione e il monopolio, in particolare di una lingua che dovrebbe rappresentare l’Europa in un luogo-fortezza privilegiato. «Prima tensione, prima contraddizione […] l’identità culturale europea non può disperdersi […] in una polvere di provincie, in una molteplicità di idiomi giustapposti o di piccoli nazionalismi […] d’altra parte non può né deve accettare la capitale di una autorità centralizzatrice».4 La risposta che cerchiamo, qual ora ne servisse una non è dà riversarla ora sull’una ora sull’altra scelta. Vengono in mente a questo proposito le parole del Carmelo Bene degli anni ’90 sull’Europa e la cultura; senz’altro provocatorio, più o meno esplicitamente, pensava con cognizione di causa al Derrida de l’Altro capo. Cosa significa Europa si chiedeva, e citando la “rimpatriata” faceva eco proprio al filosofo algerino che a sua volta riprendeva le parole del presidente francese Mitterand quando parlava di un “sentirsi a casa” caratterizzante l’Europa. Nominare astrattamente l’Europa, i popoli, la cultura – come accade al giorno d’oggi, sempre più volgarmente – dal momento che vengono branditi come meri simboli agitatori del “popolo” questi enti diventano dei dis-valori (in)significanti privi di contenuto, senza alcuna pregnanza. Poiché, laddove prende luogo la postura politica si cade nell’esautorato ed esautorante dibattito tra cosmopolitismo e nazionalismo i quali, «sono sempre andati a braccetto».5 Possiamo riuscire a comprendere solamente riconsiderando, ancora una volta, la responsabilità aporetica, a cui questa volta aggiungerei il tratto caratteristico del pathos esistenziale con cui s’accorda, l’angoscia. La situazione angosciosa della responsabilità autentica è aporia e deve rimanere tale. Le linee di fuga che essa prevede non sono la ricaduta nella stasi di una non-scelta o una presa di posizione surrettizia giacché «essa si riflette e si capitalizza in una vertiginosa fuga di specchi e impone più che mai di pensare altrimenti o di pensare finalmente quanto si annuncia sotto forma enigmatica del POSSIBILE»6. Ora, alla capitale succede anche il capitale, riserva dell’universalità dello Spirito europeo minacciato in se stesso da se stesso il cui pericolo consiste nella scomparsa della sua idealità; allo stesso modo sia da chi vuole distruggerlo che da chi vuole conservarlo. Questa idealità consiste nell’intrinseca possibilità di de-limitarsi, nell’eccedere le frontiere, «dell’empiricità sensibile o della particolarità in generale per aprirsi all’infinito e dar luogo all’universale».7 Universale non è la Legge da imporre ma la sua concretezza che può trovare casa solo nella singolarità, lo scrigno del plusvalore che lo Spirito europeo genera in quanto capitale.

La risposta che dà Derrida alle domande circa l’essenza dell’Europa è il continuo sorgere aporetico che la “natura” sorgiva della cultura genera e che da un capo all’altro rimanda all’altro del capo. L’identità culturale non consiste nella chiusura ma nella responsabilità che la non-identità comporta. Responsabilità di se stessi e di noi che non si consuma nella rappresentanza «poiché stiamo parlando di “cose” che non possono non eccedere (e che devono farlo) l’ordine della determinazione teorica, del sapere, della certezza, del giudizio, dell’enunciato in forma di questo è questo, e, più generalmente e essenzialmente, l’ordine del “presente” o della “presentazione”».8

Indietro
Indietro

Figure dell'Europa: lo scettico e il barbaro

Avanti
Avanti

Compleanno Cioran: esplosioni da Requiem