Figure dell'Europa: lo scettico e il barbaro

La nostalgia delle barbarie è l’ultima parola di una civiltà; lo è per ciò stesso anche dello scetticismo.1

A pochi giorni dalle elezioni europee non siamo capaci di vedere un futuro che non contempli il lento degenero o la barbarie populista. Da una parte, attaccati ancora a vecchi e stanchi partiti che scettici di ogni nuovo ideale si abbandonano ai movimenti dell’economia e della geopolitica, dall’altra spinti da una più che mai necessaria svolta verso un generico nuovo; ci troviamo incastrati e non sappiamo più dove o a chi guardare. Ma noi chi? Noi buoni europei. È evidente che molti dei nostri amici europei e compatrioti sanno bene dove e a chi guardare. A chiusura dei sondaggi il partito della Le Pen si assestava come vincitore in Francia, la Lega primo partito in Italia. Questi due esempi bastino per intenderci dove e a chi gli europei, o una buona parte, stanno guardando.

Ma perché ci troviamo in questa spinosa situazione?

Non è semplice ripercorrere il percorso del pensiero che ci ha portato a trovarci in questo stato di cose. Possiamo però ipotizzare qualche spiegazione valida. Quella che proponiamo qui non è da intendersi storicamente, anche se è storica, e nemmeno sociologicamente, anche se è sociologica, e nemmeno psicologicamente, anche se è psicologica; la questione qui è prettamente filosofica.

Lo sa bene uno dei più importanti filosofi contemporanei, Quentin Meillassoux, che nel 2006 pubblica in Francia Après la finitude : Essai sur la nécessité de la contingence. La prima cosa che a noi interessa sottolineare è che in un testo del genere che già dal titolo intendiamo essere tutt’altro che politico, s’inseriscano alcune pagine che invece sono un chiaro riferimento alla questione politica degli inizi del nuovo millennio. In un capitolo infatti Meillassoux dedica alcune pagine alla questione dello scetticismo e del fideismo, individuando la nostra epoca come quella che, dopo la morte di dio e della metafisica, non riesce più a pensare l’assoluto. Questo è in poche parole l’orizzonte filosofico del saggio intero. Ma se ci avviciniamo un po’ di più capiamo che il problema che ci pone il saggio è del tutto politico: «Noi abbiamo, a forza di rilanciare tra lo scetticismo e la critica delle pretese della metafisica, accordato alle professioni di fede ogni legittimità in fatto di verità – ciò a prescindere dalle apparenti stravaganze dei loro contenuti».2

Proviamo a capire cosa qui ci sta dicendo Meillassoux. A seguito di un movimento che inizia, almeno, con Kant, la filosofia – ovvero l’Europa – ha cominciato a pensare che non si potesse dir nulla di oggettivo sul mondo. Ogni nostra asserzione sul mondo è una rappresentazione di un dato che propriamente non c’è, nel senso che non mi è mai, appunto, dato. Se io dico che la mela cade per terra se la lancio in aria, sto semplicemente descrivendo un fenomeno che è valido ora e qui, ma da questo fenomeno non posso dedurne nessuna legge riguardo il rapporto tra la mela e la terra. La mia è una rappresentazione soggettiva. Inoltre attraverso un dialogo con altre scienze umane come l’antropologia e la linguistica, la filosofia ha cominciato a riflettere su come il modo di intendere la verità nel 2019, in italiano, non è lo stesso che altrove o in un altro tempo. Il linguaggio, il sociale, gli studi, condizionano la mia concezione della verità. Non ci sarebbe insomma La Verità, ma solo tante verità, ognuna valida nel suo ambito, nel suo orizzonte di senso che è sempre a sua volta situato in un luogo e un tempo determinati. Ma giunti a questo punto: come poter dire che la mia verità, qui e ora, è ancora una verità? Io e il mio amico Francois guardiamo la stessa mela cadere, qui in Italia, nel 2019, lui mi dice che la mela cade perché ci sono degli spiriti che la governano. Io contesto, affermo che esiste la forza di gravità. Francois ribatte che la forza di gravità è una legge storica, oggi esiste (e comunque come rappresentazione soggettiva), domani chissà. In fondo ha ragione, come abbiamo superato la fisica newtoniana supereremo anche la legge di gravità: essa non sarebbe così vera perché non assoluta, cioè non valida per ogni tempo e spazio. Sono costretto a concludere che, senza per il momento lasciarmi convincere dal mio amico Francois, l’unica verità è che non ci sono verità. Nessuno ha il diritto di prendere una posizione netta nei confronti del mondo, perché essa non ha ragione di essere così e non in un altro modo: pretendo il mio, e implicitamente quello degli altri, silenzio. Ecco lo scetticismo.

Meillassoux continua dicendo che in questo modo si è accordato al fideismo largamente inteso una legittimità del dir-vero. Certo, diciamo noi: si intravedeva dal ragionamento su descritto: se La Verità non esiste, ogni verità è ugualmente possibile cioè valida. Però fermiamoci un momento, se lo scettico predicava il silenzio lo faceva per sé come per l’altro, come legittimare una presa di posizione di fede ai suoi occhi? Evidentemente questa non si giustifica. Qui Meillassoux coglie razionalmente molto bene il movimento che porta dallo scetticismo al fanatismo: il secondo è effetto del primo. Se non c’è più ragione per la Verità, allora ci sarà almeno una fede. Ma coglie meno bene come stiano in rapporto contemporaneo tra loro.

Se dal punto di vista dello scettico, il fanatico, ovvero colui che ha genericamente una fede chiusa, è un suo effetto; da un punto di vista esterno alle due figure le cose stanno un pochino diversamente. Le due figure sono apertamente conflittuali: esse sono alternative. O il silenzio di chi sa che non può sapere nulla, e quindi nemmeno il suo sapere, e si riduce al silenzio nei conflitti dei grandi sconvolgimenti globali (le socialdemocrazie degli ultimi vent’anni) oppure chi non sa nulla se non che non deve sapere, altrimenti si immobilizzerebbe come l’avversario, ma crede molto (i populismi di varia caratterizzazione). Uno è la causa dell’altro, certamente, ma essi sono anche in qualche modo simultanei – le elezioni che si terranno fra pochi giorni ne sono l’esempio. Ed è solo per questa loro polarizzazione che: «La lotta contro ciò che i Lumi chiamavano fanatismo è così diventata interamente una questione di moralizzazione: la condanna del fanatismo si compie solo in nome dei suoi effetti pratici (etico-politici), mai in nome dell’eventuale falsità dei suoi contenuti».3 Quando per due settimane si condannano le cene del Ministro dell’Interno, o le pubblicazioni con editori fascisti, si compie esattamente questo errore qui. Ma ancora di più lo vediamo nelle grandi decisioni riguardo all’immigrazione: tutta la retorica che si appella alla dignità delle vite umane quando si parla di barconi, o alla spregevole politica degli alleati europei, non contesta il contenuto del messaggio veicolato ma giudica il gesto come non-etico. Questo atteggiamento moralistico (che infatti viene tacciato di superiorità intellettualistica) è da ricondursi fondamentalmente al fatto che i vecchi partiti non sanno se e come, in che ambiti, i populismi abbiano ragione. L’imbarbarimento (se così vogliamo chiamarlo) del governo Renzi, le quali politiche sull’immigrazione di Minniti sono il preludio di quelle dell’attuale ministro degli interni, era il tentativo di vedere se e come la destra populista avesse ragione – e dunque tentare di fermare il suo successo elettorale inglobandone le richieste. Quando scorgiamo nel programma del Pd una sostanziale assenza di idee concrete per una nuova Europa, scontiamo la disorganizzazione complessiva del partito, ma non solo: i politici della sinistra democratica non sanno letteralmente che pesci pigliare, arenati nella loro posizione scettica e sostanzialmente rassegnata (Non c’è alternativa all’Europa, non c’è alternativa all’immigrazione: quando si parla di futuro. Non c’è alternativa all’aumento dell’Iva, non c’è alternativa ad una manovra ad ottobre quando si parla di governo). Per lo scettico, si sa, «ha valore solo l’inevitabile, ciò che deriva dalle nostre infermità e dalle nostre prove, insomma dalle nostre impossibilità».4 Il grande problema attuale del centro-sinistra europeo è che nei fatti egli non ha la più pallida idea se le ricette dei populisti possano o non possano funzionare (e come dice Slavoj Zizek in apertura del suo Il coraggio della disperazione a volte possono funzionare, almeno sul piano interno, vedasi Polonia). Insomma l’impasse è totale.

Opzione uno, spingere forte. Fare in modo che vada sempre peggio, schiantarci nello sbando dei populismi (che non sappiamo neppure se sarà uno schianto e come sarà questa catastrofe che ci piace ripetere come un mantra). Vota Lega!

Opzione due, fare i buoni europei. Che cosa vuol dire? Essere scettici, moderatamente; essere fideistici, moderatamente; filtrare – mediare. Essere capaci di dire di si e di no al mondo, senza per questo affermare una cieca superstizione. D’altronde è evidente che: «chiunque si lasci trasportare dai suoi ragionamenti dimentica di far uso della ragione, e tale dimenticanza è la condizione di un pensiero fecondo, anzi del pensiero stesso».5 Alla radice del pensiero esiste la fede, l’assenza di una coscienza precisa puntuale del proprio pensiero, la cieca fiducia del proprio pensiero. È solo da una movimento fideistico che un pensiero può trarre una forza vitale tale da imprimere una svolta al lento declino annunciato e rassegnato. La fede è ciò da cui proviene e verso cui va il pensiero, esso vuole superare una fede cieca e singola per approdare ad una fede certa ed indubitabile in quanto razionale. Ma qual è questo pensiero fecondo che oggi più che mai necessitiamo? È un pensiero che, di nuovo e altrimenti, riesca a pensare il rapporto tra ogni singolo punto di vista, limitato e finito, con il punto di vista per eccellenza; si tratta insomma di ritrovare il pensiero che riesca a pensare i distinti (che sono i distinti popoli europei, i distinti interessi di una nazione, le distinte verità di una nazione – aborto, fine vita, adozione delle coppie gay) e l’unità di una posizione politica.

In fondo questo è stato da sempre il problema dell’Europa in quanto tale. Costola dell’Asia, essa ne prende le distanze perché spezza l’unità di sudditi indistinti – ovvero di un Impero Persiano indistinto – nella pluralità di città, e all’interno delle stesse di cittadini ed interessi conflittuali. L’Europa è essenzialmente il movimento di emancipazione da un assoluto (nel quale si badi bene non esiste una differenza tra una fede originaria e una verità razionale in quanto esse coincidono immediatamente) attraverso la conflittualità del ragionamento. L’Europa contesta l’immediatezza che lega verità e fede, ne fa una questione. Duemila anni dopo questo crea un po’ di problemi. Quando infatti Cioran parla di nostalgia di barbarie parla di questa nostalgia. Il pensiero che giunge ad una civiltà stanca è quello di aver continuamente errato, fin dal suo primo distacco da quell’unità indistinta che ne appare come origine e come fine. Salvo dimenticarsi che l’Europa nella sua essenza è proprio questa cosa qui: abbandonare la cieca fede (particolare) del tiranno per riconquistare una nuova fede razionale attraverso la contrapposizione dei distinti. L’unità d’arrivo verso cui si tende è da pensarsi come utopia. Comunità da costruire come punto dal quale i distinti assumono un senso e verso il quale tendono senza mai sciogliersi assolutamente: «I nostri linguaggi “rappresentano” una patria comune. E la rappresentano in verità in quanto tale. Essi formano una comunità verso di essa: comunità dell’assenza».6 In quanto distinti i linguaggi si articolano verso la verità che non riescono a dire ma di cui possono essere solo congetture, ma si articolano anche nella reciproca distinzione e nella reciproca differenza. Il non riuscire a dire la Verità, è l’unica modo perché essa esista. È solo nella sua assenza che le diverse voci possono affrontarsi e riguardarsi tendendovi verso e così rendendola reale – effettiva. Non è, come vorrebbe Meillassoux, ritrovando un accesso diretto ad una realtà in sé che l’Europa potrà trovare il suo futuro, ma è invece nella partizione delle voci che negano quell’assoluto proprio nel momento in cui vi tendono, che creano l’utopia – ovvero il non-luogo, il luogo negato, - solo cercandovi disperatamente la via. Questa è il principio che domina l’Europa, ovvero la filosofia, nella sua essenza più profonda. È solo volendo tramontare così come si è, per nascere così come non si è e non si può essere, che l’Europa può trovare il suo destino. Il nostro destino è altrove.

Forse dunque non si tratta dunque di schierarsi tra scettici e barbari, in quanto essi come abbiamo visto sono due facce della medesima medaglia. Conflittuali, certo, ma entrambi ciechi rispetto al compito dell’Europa. La civiltà dell’ultimo uomo che intelligente e disincantato schernisce coloro che ancora vedono enigmi, che si occupa del suo benessere e lui solo ne vuole decidere, prepara l’altro, il barbaro, che è chiamato con polso forte a garantire la pura anarchia dei desideri singoli e schizofrenici. Dall’estremo individualismo scettico nasce la massa che chiama la mano forte del potere, tra individui a massa, tra scettici e barbari – un nulla.

Dove allora guardare? Capiamo che non è compito facile, stiamo infatti muovendoci sempre più nel teorico per scampare alla fatidica domanda. A sinistra della sinistra? Ai cosiddetti populismi di sinistra? O sono essi l’altra faccia del movimento barbaro che vediamo così diffuso? Forse essi sono ancora troppo maturi – ancora troppo vecchi – non vogliono ancora superare l’uomo e la sua Europa come li abbiamo conosciuti nel ‘900. Così attaccati a concetti che non ci appartengono più, non per nostre colpe ma per la loro inutilità. La sinistra della sinistra fa segno verso un mondo che non è il nostro e di cui soprattutto non ne vediamo la novità, l’ulteriorità, ma anzi vi ritroviamo solo un ammuffito ammasso di idee pseudo stataliste, riciclate attraverso i social media per l’occasione. Non è un caso che esse non siano, oggi, realmente in competizione a livello europeo con le altre forze politiche (si pensi a Melanchon e il suo Insoumise) Sembra dunque che si debba guardare ancora altrove, prestare ascolto a «ciò che nella loro [degli uomini e dei loro dei] storia è rimasto inaudito, ma quella storia ha tuttavia accompagnato».7 È in una genealogia filosofica dell’Europa che, forse, troveremo ciò che non siamo riusciti a cogliere – ciò che può farci segno verso dove virare – ciò a cui non siamo ancora stati in grado di prestare la dovuta attenzione.

«In nessuna violenza, in nessuna volontà di armonia, l’Europa è stata. Al suo demone ha sempre chiesto “dove andare”. La sua “sede” non si è mai stabilita nell’ambito che i suoi confini le assegnavano; la sua “sede” è sempre apparsa come qualcosa da raggiungere, e i suoi diversi assetti momenti, passaggi. O congetture, appunto, di una patria assente».8

Simone Raviola

Ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige la rivista sovrapposizioni ed è socio dell’associazione di produzione d’arte Landescape. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

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