Tout va bien. Dei dionisiaci falliti

Una Rivoluzione che ha messo al vertice delle sue preoccupazioni le necessità della produzione e che perciò insiste nel fare affidamento sul progresso meccanico, come mezzo per migliorare la condizione operaia, è per me una rivoluzione di castrati. […] Siamo tutti in preda alla disperazione della macchina, a tutti i livelli della nostra riflessione.1


Questo quanto afferma Artaud nel gennaio del 1927. Lo stesso 1927 in cui, proprio a glorificare quella Rivoluzione, viene eretto un monumento cinematografico del calibro di Ottobre. Un monumento contro i monumenti, in cui le statue e la loro autorità crollano, si de-compongono, in cui il protagonismo arrogante del bios cede il passo –volente o nolente- alla zoe del Partito (rimandiamo su questo punto alle riflessioni baziniane sulla cinematografia sovietica): una nuova vita, fluente e dirompente, un fiume in piena atto a distruggere gli argini assolutisti. Eppure, anche in quell’Ottobre, più che allo straripare di una vita organica che si rinnova, sembra di assistere a un trionfo del “meccanico”, sul piano linguistico-estetico in primis. E tale “meccanizzazione”, prima ancora di imporsi sull’opera finita, è propria del processo creativo stesso (basti pensare alle Lezioni di regia ejzensteniane, come riportate da Niznij). Una tecnica analitica di assemblaggi, scomposizioni (i nodi di montaggio, Ananke cinematografica), in cui ogni impulso creativo è sottoposto a una rigida disciplina che ne garantisca il funzionamento, la corretta veicolazione di messaggio. Non c’è spazio per l’eruzione del “gioco” creativo: tutto è regolamentato, financo l’alea più eversiva dev’essere imbrigliata in una progettualità che la presupponga e inibisca inscrivendola nel meccanismo.

Pensiamo anche al maremoto umano del Potemkin: siamo di fronte a una de-psicologizzazione, a un riassorbimento in una struttura complessiva della hybris-singolarità, di cui Kerenskij si fa massimo exemplum tramutandosi ora in Napoleone, ora in un pavone meccanico. Eppure siamo qui ben lontani dalla zoe di cui Dioniso -l’”archetipo della vita indistruttibile”, per usare una perfetta sottotitolazione di Kerenyi- si dimostra essere emanazione, segno (nell’impossibilità di esserne effettivo portatore: nelle sue infinite incarnazioni non può che esserne ciclicamente penetrato); non siamo qui di fronte a una «vita infinita», che «non ammette l’esperienza della propria distruzione»2 proprio perché, aggiungerei, ammette l’emergere di infinite diramazioni singolari in maniera disinteressata, tergiversazioni inconcludenti che hanno inutilmente tentato di sottrarsi alla loro matrice, che di inconcludenza si costituisce. Siamo invece di fronte a una vita-flusso intesa come vettore ideologico, e dunque utilizzata esteticamente in quanto tale, una zoe teorizzata da dionisiaci falliti (o quantomeno audacemente revisionisti), in cui le singolarità non sono zampilli involontari bensì ingranaggi di un percorso verso l’utile o verso il suo perfezionamento. Così come una cinquantina d’anni dopo gli Yves Montand e la Jane Fonda di Tout va bien saranno, specularmente, singolarità espropriate della loro singolarità: estratti dalla struttura-film solo per esservi reinseriti (la sequenza iniziale, una analisi nell’accezione etimologica), costretti financo nel privato a enumerare le loro attività, a fare “dieci” con le dita. Sia la zoe ejzensteniana sia, restringendo il campo scopico, i bios godardiani che la compongono sono dunque asserviti a un meccanismo, tale in quanto non volto all’inconcludenza immortale dionisiaca, ma all’utilità, al compimento della Rivoluzione, che –anche qualora si compisse- si protenderebbe verso un’incessante perficersi tecnico. Non più una retta, ciclicamente palindroma, ma una semiretta.

E, con le dovute divergenze dal “modello” Ejzenstejn, la macchina e le sue sovrumane virtù sono il fulcro, prima ancora del loro operato, della riflessione teorica di Vertov e dei suoi Kinoki, che da Marinetti e dal suo Manifesto del Futurismo non potevano prescindere. La macchina può superare in bellezza la Nike di Samotracia (Marinetti), la macchina può creare un uomo più perfetto di Adamo (Vertov). La macchina atta, in entrambi i casi, a perficere, a migliorare quanto di inconcluso da Dio stesso, che con la terra rossa si era sporcato direttamente le mani. La macchina financo come protagonista, nell’emblematico L’uomo con la macchina da presa. E, misconoscendo a forma/contenuto il fin troppo comodo status di endiadi, è ovvio che quanto linguisticamente meccanizzato non può che a sé asservire anche quanto si cerca, si spera!, di riferire, di argomentare, di – sempre più ottimisticamente - predicare.

Le cose si complicano se, come per Artaud, prima ancora del linguaggio con cui essa si auto-racconta/definisce, la Rivoluzione è già macchina. Come il pensiero che ne deriva, come –più in profondità- la disperazione stessa. Ecco che ancora una volta “forma” e “contenuto” si compenetrano, si scambiano di posto.

1972: Tout va bien. Un film che, prima ancora di “appartenere” (autorialmente) a Gorin o a Godard (la cui impronta è comunque ben riconoscibile, come sempre, fin dagli iconici titoli di testa), è opera, fatalisticamente, del collettivo Dziga Vertov. Se in Ejzenstejn, foss’anche per un misconoscimento della propria natura sicuramente spaventosa (e, quanto di peggio, pericolosa), è ancora diagnosticabile una discrasia tra la forma meccanica e la consapevolezza di averle dato modo di dispiegarsi, in Tout va bien la “nuova” rivoluzione sessantottina è macchina tanto quanto il linguaggio che la racconta e rappresenta.

Si accetti il seguente paradosso, prima di proseguire: la consapevolezza è da attribuirsi non all’umanità di un Ejzenstejn/Godard autore, ma alla loro disumanità, alla loro opera in toto in quanto, in entrambi i casi, ente estetico organico . Una consapevolezza dell’arte prima che dell’artista.

E, arrivati a questo punto, ha senso riferirsi più a Godard che al collettivo in cui in questo caso il suo operato si inscrive, vista la solita e debordante esuberanza stilistica con cui egli si impone fin dai primi attimi. In un probabile tentativo di auto-analisi, il personaggio di Yves Montand descrive la sua attività di film-maker come la costante ricerca di “un linguaggio nuovo per nuovi contenuti” (si perdoni la citazione non testuale, basti il gap traduttivo a discolparmi). È programmatica, in colui che è forse la più iconica delle nouvelles vagues, la ricerca di nuove forme, desunte, come in ogni avanguardia, da quelle della grammatica classica (i baffi alla Gioconda, l’imbellettamento del cadavere in un’omelia funebre senza soluzione di continuità); un tale anelito, proprio per la sua natura programmatica, non può che dispiegarsi in forma meccanica: scomposizione, ricomposizione, instaurazioni di nuove forme dialettiche (di una dialettica formale: Godard è d’altronde uno dei “pupilli” di Burch). La filmografia dell’autore è soprattutto una catena di montaggio con l’obbiettivo di produrre nuove forme, dagli escamotage più istantanei alle destrutturazioni più drammatiche. Come per il Welles di Citizen Kane, di un’iconoclastia totalmente razionale.

Ecco dunque che Godard trova –finalmente?- un campo d’azione perfetto: la Rivoluzione-macchina aurtadiana, da poco ri-manifestatasi in uno scoppiettante ‘68, da rivestire/contenere (forma e contenuto, come proposto poc’anzi, sono intercambiabili e vicendevoli compenetrazioni di un unicum) con un linguaggio-macchina. Un’elevazione al quadrato, un saziante cannibalismo.

Il tricolore, gli sguardi in macchina, la “messa a nudo del dispositivo” nelle sue più varie declinazioni; forse qualcosa di nuovo, sicuramente qualcosa di ri-ciclato: il modus operandi tipico di Godard, che proprio per la sua ripetitività non ha qui motivo di essere sviscerato. Una trovata formale emerge però su tutte: la “carrellata”, le carrellate, quelle carrellate così iconiche, così evidenti, da essere oggetto di parodia in Le redoutable di Hazanavicius3. La carrellata è peraltro, proprio in virtù di questa evidenza, forse l’unico aspetto “registico” sul quale varrebbe la pena di soffermarsi: nel linguaggio-macchina impiegato dalla coppia di registi, tale escamotage formale (e formalista, geometrizzante, come la totalità della pellicola) contiene in sé una forte componente di prevedibilità. Una volta che l’immagine, lo spazio filmico, è stato scansionato linearmente, avviene –nella stragrande maggioranza dei casi che Tout va bien presenta- una retro-scansione, un riavvolgimento di tale spazio (fino al riavvolgimento reiterato della sequenza del supermercato). Come nell’azione di un congegno meccanico, la cui azione è supposta, preventivamente calcolabile, ogniqualvolta assistiamo alla scansione visuale ad opera di una carrellata laterale già sappiamo, e non semplicemente intuiamo, che avrà luogo un movimento speculare. Così come, ogniqualvolta ci accingiamo alla visione di un’opera di Godard, già sappiamo che assisteremo alla reiterazione di quella “messa a nudo”, di quella riflessione metacinematografica iniziata nel 1960 con quel suo primo e ultimo respiro. Ecco dunque che la “carrellata” è sintomatica di un’opera-meccanismo, ancor prima di confermare il tratto distintivo del cineasta che tale forma impiega, il suo essere costantemente metalinguistico4.

E dunque anche Godard stesso, prima ancora di essere artista, è una macchina, un –questo, forse, gli farebbe piacere- Kinoglaz.

Un Kinoglaz però deperito, espropriato della sua taumaturgia proprio perché non può far altro –in quanto macchina- di guardarsi allo specchio in una realtà anch’essa programmaticamente organizzata in ingranaggi, in corsi e ricorsi, oltrechè storici, privati. Uno sguardo che non può che confermarsi reiterazione del guardato, senza alcuna virtù plastica nel modellare una nuova schiera adamitica. Un Kinoglaz formalizzante, che si attacca al reale rivestendolo di una patina stilistica (JLG è ormai un marchio di fabbrica, come il NWR di The Neon Demon) ma non modellandone –e neanche scalfendone- l’essenza più abissale, che ha tradito Vertov e la sua ferrea volontà di trivellatore del reale.

Ma la superficialità si conferma su un altro livello. Non vi è in Tout va bien ideologia, ma solo frammenti ideologici in forma meccanica. Se, seguendo Artaud, è la Rivoluzione stessa a essere meccanica5, il linguaggio –forse autorialmente consapevole?- di Tout va bien non fa che doppiarla, oliandone gli ingranaggi. Un’opera, presuntuosamente retro-supponendone gli obbiettivi, fallita. Ammesso di non trovarsi davanti a un’ironia altissima, tragica, a una denuncia linguistica dell’impossibilità del reale di essere scandagliato come Vertov auspicava. Ma, anche qualora contemplassimo l’ipotesi di un fallimento, parliamo di un fallimento clamoroso, disumano, e dunque necessariamente grande.

1 A. ARTAUD, Manifesto per un teatro abortito, ne Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, p.15

2 K. KERENYI, Dioniso, Adelphi, Milano 1992, p. 21

3 Parodia in generale piuttosto sagace, prendendo come oggetto anche e soprattutto quanto convenzionalmente “forma” nell’opera del regista.

4 Come per il Greenaway de Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, la carrellata laterale rafforza l’idea di un set-palcoscenico, di una cesura lineare tra spettatore e oggetto filmico.

5 Interessante peraltro che “rivoluzione” indichi etimologicamente la ciclicità di un “rivolgimento”, reiterazione, e sia dunque inscritta nella necessità: la statua zarina di Ottobre può infatti ricomporsi roboticamente da un momento all’altro.

Niccolò Buttigliero

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

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