Joë Bousquet a Jean de Boschère: Correspondance 1933-1949
La corrispondenza presentata qui in traduzione percorre le lettere che Joë Bousquet invia a Jean de Boschère tra il 1933 e il 1949. Ricche di virtuosismi fino all’eccesso, queste lettere costituiscono a pieno titolo una parte del corpus letterario di Bousquet. Tra i temi trattati: l’omosessualità, il potere della scrittura e la devozione senza limiti che Bousquet tributa al suo “maestro” Jean de Boschère.
Corrispondenza originariamente apparsa in Revue d'Histoire littéraire de la France, 71e Année, No. 2 (Mar. - Apr., 1971), pp. 281-289. (https://www.jstor.org/stable/40524079)
Traduzione di Simone Raviola. A cura di Arlindo Hank Toska.
È soltanto durante gli ultimi anni della sua vita che Joë Bousquet ha conosciuto Jean de Boschère, di 19 anni più vecchio. La prima lettera di Bousquet risale a luglio 1933, quando manda a Boschère una copia di La Tisane de Sarments, ed esprime la sua ammirazione per Satan l’obscur. Nella corrispondenza che ne seguì Bousquet ci ha lasciato una quindicina di importanti lettere, scaglionate in 17 anni. Grazie alla facilità con cui Bousquet si rivela, la maggior parte di questa corrispondenza, pur non essendo molto copiosa, arricchisce la nostra conoscenza dell’anima nonché dell’esistenza giornaliera di Bousquet. Essa rivela inoltre una amicizia unica, poichè Boschère, l’eremita di La Chatre, e Bousquet, l’invalido di Carcassone, ferito durante la prima guerra mondiale, quella che Gaston Massat chiama “il destino più patetico del secolo”, non si sono mai incontrati. Sarà dunque soprattutto per il loro pensiero mistico e la loro profondità spirituale che si stringeranno i nodi della loro amicizia. Infine, questa amicizia è particolarmente toccante poiché consola i due scrittori durante degli anni particolarmente tragici delle loro vite.
Se Bousquet sa, nel suo vigoroso stile, mescolare il divertente al serio, è soprattutto quest’ultima qualità che domina. Il che non ci sorprende, se si pensa agli inconvenienti di una vita da paralitico, ai crudeli dolori che accompagnano periodicamente il suo pietoso stato e a suoi sogni premonitori della morte. É una corrispondenza che ci offre delle riflessioni sulla scena letteraria (F.P Alibert, Jean Lebrau, Julien Benda e soprattutto Breton e i surrealisti) e una critica perspicace dell’opera di Boschère. Ma essa rivela soprattutto il lavoro letterario e critico di Bousquet stesso, la più ardente delle sua ambizioni, quella di essere un’artista, e la sua delusione di fronte all’impossibilità di realizzarsi. D’altra parte, questi documenti mettono in evidenza le sue opinioni estetiche (Milosz, Boschère, etc) e morali (la sessualità, la coppia, l’omosessualità, etc).
Ma ciò che colpisce di più in queste lettere è l’intensa e generosa ammirazione che Bousquet consacra a Boschère e il debito capitale che riconosce senza riserve al suo vecchio amico. Bousquet non esita a dichiararsi a più riprese il “discepolo” di Boschère (“discendo interamente da voi”). Si stupisce dalla “forza unica” di Boschère, della sua “autenticità”, dalla sua “visione interiore”, della sua “magnifica sensibilità”, insomma, della sua “magia”. Per Bousquet l’austero Boschère è stato “poesia” pura, e ha fatto parte del “piccolo numero di uomini” che egli ha ammirato, di quelli la cui gravità lo ha incoraggiato a continuare a vivere (“di quelli che mi impediscono di morire”). Grazie ad uomini come Boschère, “ho spogliato la vita” - scrive - “conosco il suo odore”. Di questi elogi, sinceri quanto calorosi, ne troviamo in ogni lettera. La sua devozione verso l’amico rimane senza confini.
Eccezione fatta per la lettera del 5 settembre 1938 (scritta a l’Evênché, Villalier, Aude), tutta la corrispondenza recante l’indirizzo del mittente proviene dalla Rue de Verdun, Carcassone.
BENJAMIN ROUNTREE
9 juillet 1933
Egregio,
Avete gentilmente voluto inviarmi Satan l’obscur, e questo libro ha impreziosito tutto il mio inverno.
Sapevo chi eravate e sapevo che la pubblicazione di questo libro avrebbe rivestito grande interesse. Il mio primo contatto doveva suscitare dei sospetti: un libro nel quale tutto ciò che è solo vostro è così mirabilmente messo in gioco, un libro uscito dalle mani di un mago non rischia di dare vita a delle mode? Bisogna guardarsi dalle opere che ci obbligano per qualche tempo a non pensare che all’interno delle espressioni degli altri – di un altro.
Ma nel vostro libro c’era soprattutto di che uccidere l’imbecille che ragiona così. Nel rivolgervi degli elogi e tutta la mia ammirazione, vi esprimerò il sincero pentimento di colui che non aveva capito. Prego di avere la libertà di parlare di voi un giorno in una delle riviste in cui scrivo.
Il mio ultimo libro, Le Rendez-vous d'un soir d'hiver, vi è stato consegnato? Cordialmente, a voi tutta la mia ammirazione.
Joë Bousquet
28 marzo 1936
Egregio,
Senza dubbio avrete ricevuto prima della mia lettera una copia de La Tisane de Sarmens.
Sono eccessivamente lusingato di pubblicare presso il vostro stesso editore.
Possa la lettura del mio libro donarvi un po’ della gioia a me fornita dalla lettura di Satan l’obscur. Credete, vi prego, alla mia profonda ammirazione.
Joë Bousquet
(La lettera che segue: sul retro: Henri Rousseau, “Pecheurs a la ligne”] è senza data e intestazione, ma le allusioni alla ferita di Boschère e ai tre libri che prepara Bousquet la situerebbe nel 1937)
Ho solo oggi il diritto di dirvi quanto sono stato triste di sapervi ferito. Una donna che amiamo entrambi mi ha rassicurato mentre mi spaventava, mi ha fatto rivivere i momenti che avete donato a quelli che hanno avuto l’onore di venire a trovarvi.
Non sarò di nuovo me stesso che fra tre mesi. Finché sono prigioniero di tre libri atroci, dal filo di ferro e di lana, non so isolarmi un minuto per comunicare tutto il mio affetto ai miei amici. Perdonatemi. So che voi sarete lì, con il vostro amorevole viso, sempre, poiché voi non potete riconoscere senza emozionarvi l’importanza della vostra forza demoniaca nei miei momenti di coraggio.
Vi sono vicino con affetto.
Joë
20 luglio 1938
Mio caro amico.
Quale gioia d’esistere ai vostri occhi! Vi confesserò che tutti i miei amici, tutte le mie amiche hanno letto la vostra lettera. Vi conoscono, non stravedono che per voi. Continuate ad avere per noi un’importanza per la quale siete considerata una sorella di latte.
Ma se c’è un uomo che amo quanto Jean de Boschère, questo è Milosz. Sulla mia scrivania riposa una lettera che non gli ho inviato e che ho scritto con emozione, una sera, poiché Francois Paul Alibert, avendo ritrovato gli Elements nella mia libreria, ha pianto nel leggere delle pagine a voce alta. Milosz! Ma ciò che si ama nei miei libri, io l’ho preso da lui! Come vi sono debitore di questa angoscia morale e del presentimento che la più alta espressione estetica è un germe di vita morale.
Non conosco i Cahiers blanches. Ma quale che che sia questa rivista, scriverò con gioia per essa delle pagine su Milosz. Non gli restituiremo mai, non gli renderemo mai l’idea delle ricchezze che la sua liberalità ci ha donato.
Vorrei che sapeste che voi siete tra quelli che m’impediscono di morire. Non si vive con una pallottola nelle vertebre sub-cervicali; gli altri paraplegici di guerra sono meno afflitti di me. La poesia ha permesso questo scandalo medico. Ma la poesia è per me quei pochi uomini.
Ora l’impazienza mi impedisce di dormire. Ho finalmente messo tutta la mia esperienza della malattia e della poesia in tre manoscritti che sono da due giorni da Denoël. Poiché non mi importano i vantaggi che comporterebbero le pubblicazioni, spero che tutto quello esca di colpo, come una lunga e dolorosa confessione, perché conosco per nome quelli che aspettano i miei libri e, come voi, li leggono. E brucio dalla voglia di sapere cosa proverete di fronte a queste confessioni.
La vita oggi è nera. Serve quell’ombra intorno al raggio che è così esaltante raccogliere. Voi non potete sapere che cosa l’ispirazione di qualche vivente divenga in una vita nella quale essa è tutto. Grazie a voi tutti, ho spogliato la vita, ho conosciuto il suo odore, so che la felicità moriva dalla voglia di aggiungergli felicità. Mi sono sforzato di dirlo. Spero ora di vivere abbastanza per consentire un’altra confessione, più difficile, ma più salutare. Voglio che si sappia che il fondamento della mia ispirazione è stato di ordine critico. In me la vita non è stata nulla se non l’amore di quelli che sono stati più grandi di essa.
Ti stringo le mani con affetto.
Joë Bousquet
5 settembre 1938
Mio caro amico,
vorrei essere capace di esprimere meglio la mia immensa ammirazione per Lubicz-Milosz. Nel mio ufficio c’è sempre una lettera per lui, scritta in un momento di fervore e che attende l’ora in cui mi sentirò degno di inviargliela. Spesso, la distruggo. Ma sopravviene l’ora, o un fatto, e ne scrivo un’altra. Affinché Françoise non si sbagli e al fine di evitare che la prenda con il resto della mia corrispondenza, l’involucro non porta che un nome.
Una sera Francois-Paul Alibert aveva versato delle lacrime leggendo ad alta voce un poema degli Elements. Gliel’ho scritto. E la lettera è rimasta da me; un’altra volta, ho cambiato il destino di una donna facendole leggere gli Arcanes.
“Cambiare il destino”. Che espressione ben fatta per ispirare infinite riflessioni! Dov’era il destino di colui che trova le sue stelle in un libro? Chi sono gli uomini smarriti in mezzo a noi? Se voi sapeste quanto amo quelli che hanno stregato gli eventi al posto di subirli e che passano tra noi come dei fiumi senza sponde!
Una recrudescenza del mio male mi aveva impedito di inviarvi il mio testo prima. Ma sarò tutt’altro che fiero quando saprò che in casi simili voi accettereste di prendere delle decisioni in mio nome, e di pubblicare una lettera che vi avrò scritto, sulla quale vi elogerei in ogni caso…
In questa occasione agite a vostro piacimento, pubblicate la lettera o il testo che vi ho inviato.
Con tutta la mia affettuosa ammirazione.
Joë Bousquet
Luglio 1939
È possibile? Ho letto bene? Le vostre parole incantano le ore più buie del mio passato: non c’era spazio per la sfortuna nei fatti che mi hanno condotto verso la sorpresa di questa sera. Ieri, aiutato dalla mia piccola nipote, mi sono impegnato a distribuire qualche copia di Iris e di Petite-fumée che G.L.M. mi aveva consegnato. Ho gridato il vostro nome alla bambina ancora prima di avere verificato il vostro indirizzo. Eccovi, il mio libro tra le mani, quando tremo nel leggere la vostra lettera.
Voi mi avete reso la bellezza dei giorni e il fascino per gli svaghi. Ho atteso in qualsiasi momento il permesso di morire, o di vivere guardando la morte. Oggi, voi, il più straordinariamente sensibile ai miei scritti, poiché discendo interamente da voi, mi rispondete con delle lodi dove non comprendo che un grido appassionato, una vibrazione delle vostre viscere.
Di coscienza, Bosschère, vi giuro che dico il vero: non sono che un discepolo in una epoca di nebbie dove tutto il mondo volta le spalle a tutto il mondo, sono stato il solo a impegnarmi profondamente in un’educazione calda e viva. Ho riso e pianto davanti a libri ancora umidi, ho dimenticato la vita, sono il primo discendente di uomini come voi.
Di uomini come voi. Che cosa vuol dire? Le differenti forme del vostro genio… Non ho mai dimenticato la scena che si è creata nella mia camera. Jean Lebrau era appena entrato; un buon poeta, un uomo di fede, un uomo di una cinquantina d’anni che si credeva sicuro di lui, della sua formazione, della sua cultura, delle sue preferenze. Mi aveva detto non so cosa d’insignificante. Gli ho tappato la bocca con un gesto, e ho cominciato la lettura ad alta voce di una pagina di Satan à Paris. Si stava rivoltando contro stesso, come una trottola. Vi voleva scrivere… Sono felice, sono alla vigilia del giorno in cui potrò scrivere: “la poesia mi ha dato tutto, alla fine mi ha dato una fede”. È uno spasmo, Bosschère, che è cominciato mentre vi leggevo. E l’altro giorno, al momento di lasciare Carcassone leggendo il vostro testo Lettres Nouvelles, mi sentivo più vicino che mai al mondo della forza e della luce… Vi sono vicino con tutta la mia ammirazione, tutto il mio affetto.
Joë
P.S. Scusatemi di avervi scritto su un pezzo di carta. Non avevo che questo biglietto alla mano.
(La lettera seguente era senza data, nulla ci permette di fissarla definitivamente. La poniamo tra quella che la precede e quella che la segue, datate rispettivamente 1939 e 1944, unicamente per rendere minore questa lacuna di cinque anni, che, malgrado la guerra, è difficilmente spiegabile.)
Mio grande amico,
vi prego di lasciarmi ancora un po’ di giorni. Vi lascio un momento per inviarvi questo biglietto. Ho attraversato un periodo molto crudele di cui non vorrei infliggervi il racconto. Accolgo le sofferenze morali con l’ardore di un uomo sano. So come tacerne e, spero, utilizzarle.
Vi scriverò una vera lettera quando il mio articolo sarà finito. È sufficiente che sappiate che non ho potuto scriverlo senza promettermi di scrivervi più regolarmente. Il mondo si sta dividendo. Non siamo in tanti a testimoniare che i legami tra gli uomini debbano essere i legami interiori, perché non c’è uomo senza che ci sia anche un altro uomo. Non perdiamoci mai di vista.
Il vostro amico
Joë
7 Febbraio 1944
Caro maestro,
Da dei mesi, lavoro come un forsennato ad un libro riluttante a prendere forma prendere una forma e che vedo, infine, completato, molto differente da me come molte cose. Non so ancora cosa vale. Ma, alla fine, è dall’editore e posso respirare un po’. Non l’ho abbandonato, da dei mesi, che per lavorare al mio feuilleton di Confluences. E non ho preso delle vacanze, se non un giorno per leggere La fleur et son parfum. Ora il libro è volato via, i miei amici ne litigano. Andre Lang, che ha per voi una grande ammirazione, dei ragazzi, delle ragazze. Julien Benda stesso, che non è da questo punto di vista sospetto di amare troppo ciò che vive.
Non ho potuto nominare La fleur et son parfum in Confluences, riservandomi di scrivere su questo libro qualcosa di meglio che qualche riga. Ho ritrovato in queste pagine un sapere spirituale – queste parole affiancate non sono bestemmie quando si parla di voi – che mi ha dominato a lungo, despoticamente sottomesso ai vostri libri. È ammirabile che ci rimangano ancora degli scrittori, come voi, straordinariamente maestosi nella loro arte e che devono rinunciare ad insegnarci del tutto il loro mestiere. Comprendere tutto ciò che voi siete, è già molto, è prendere una vista singolare sulla mediocrità di un tempo che non sa la sua lingua, di un tempo in cui nessuno riesce a superare il poco che sa, e non trova lo stato di grazia che gli renda accessibile la bellezza. Non dovrei essere così amareggiato. Mai ho mostrato uno dei vostri libri a un poeta o a un essere sensibile senza donargli uno slancio, senza ispirare in lui il desiderio di conoscere meglio. Ma questa epoca porta via tutto. Si dirà che ciascuno deve rinunciare a ciò che ha di migliore.
Io stesso mi accuso spesso di non limitarmi al culto di tutto il piccolo numero di uomini che ammiro. La vita letteraria è là, che importa tutto. Dovremmo anticipare l’opera del tempo, negare già ciò che porta la sua negazione in se stesso. Non so che cosa ci rende così deboli e patetici. A volte mi dico che il più grande difetto degli eventi è di averci rubato la nostra crudeltà, e che sarà necessario che la dolcezza rinasca affinché si riformi in noi la più salubre malvagità.
A presto, Jean de Bosschère, spero di inviarvi presto un libro di prosa e un libro di poesia: sono dagli editori. Il mio ultimo libro è stato pubblicato in zona occupata quando ero in zona libera, non ho io stesso la mia copia, ma spero, un giorno, di recuperarne qualcheduna e di inviarvela, a voi per primo, che mi avete insegnato tante cose, come queste pagine, questi fatti – sono sicuro di potervi commuovere.
Credete, vi prego, mio caro grande amico, al mio affetto e a tutta l’ammirazione di coloro che pensano spesso alla vostra solitudine incantata.
Il vostro amico,
Joë.
6 agosto 1945
Caro Jean de Bosschère,
Sono molto rallegrato dalla notizia che mi avete annunciato e vi ringrazio molto vivamente di aver pensato a me. È un segno felice il giorno dopo di una crisi molto spiacevole che, spero, mi lascerà dei mesi di tregua.
Ho letto la vostra prefazione. Quanto rimpiango di non poter ritrovare la grossa raccolta uscita per Figuière, dove c’erano dei poemi che non si trovano da nessuna parte: “Le scogliere sono leggere come la grandine...”.
Ma voglio qui – senza dimenticare Milosz che ho visto vicino a voi nel libro di Godoy, prima di ritrovarlo sotto questa piega – risalire alle fonti sempre vive della mia ispirazione e ritrovare tutto quello che vi devo. Non so ancora quale aspetto devo scegliere di una natura così molteplice e ricca come la vostra. Sarò aiutato nella mia scelta se mi invierete, come avete in progetto, degli estratti delle mie lettere. Mi rendete un servizio anche inviandomi il primo Satan. Il mio è tra le mani di Jean Lebrau, che è dovuto fuggire (Non è lontano e non rischia che la deflagrazione di una follia molto acuta nel Sud.)
Grazie ancora, mio caro Jean de Bosschère, di fornirmi una così buona occasione di mostrare quello che vi devo. È il miglior mezzo per scoprire me stesso un po’ meglio. L’ora scocca per questi esami di coscienza. E noi non saremo tirati fuori dai guai che grazie alla rivelazione di ciò che abbiamo tra noi di migliore.
Con tutta la mia ammirazione, tutto il mio affetto.
Joë.
28 dicembre 1945
Caro Jean de Bosschère,
Per due volte ho rischiato di avere un attacco di uremia. Grazie di avermi dato una così regale occasione di trovare – all’uscita dalla prova – l’atmosfera nella quale avete vissuto, nella quale il vostro esempio mi ha fatto scrivere – dove ho imparato grazie a voi a non vedere nella morte che una finzione, un sipario nero.
Sopraffatto, ormai, da lavori meno esaltanti, non vedo l’ora di inviarvi tutti i miei auguri e le parole d’affetto nelle quali deduco che voi riconoscete il mio cuore sempre fedele e l’alta ammirazione del mio spirito.
Il vostro amico,
Joë
2 gennaio 1946
Sapete che cosa ho continuato a pensare scrivendo questo testo? Ho pensato: sarà necessario riprendere questa panoramica, sarà necessario dare un prolungamento a questa… Voi mi ricorderete la mia promessa. Voi siete uno dei rari artisti sul quale i più alti dibattiti possono iniziare.
Artista, un artista. Essere un artista, tutta la mia ambizione da bambino. La sola vera felicità che mi abbia dato la vita da amare. Ah! Questo titolo calunniato. La letteratura francese non ha che dieci artisti, i.e. di quegli uomini che vogliono nella loro arte una disciplina che gli faccia ignorare o proscrivere tutte le altre.
(un tempo)
Questa lettera interrotta, messa da parte, la riprendo oggi, dopo avere disfatto la piega dove si trovavano i due quadri. Sapete che uno dei miei desideri segreti, dopo che avevo visto, è passato molto tempo, delle riproduzioni dei vostri disegni, è avere sui miei muri e sempre davanti a me delle immagini delle vostre mani? Quale piacere mi avete procurato e quale riconoscenza vi devo! Si dirà che il vostro genio, una seconda volta, lancia un incantesimo sulla mia opera futura; ed ecco un vero mistero: rileggendo Satan l’Obscur, vedo – sicuramente – l’influenza di questo libro su “le Rendez-vous d’un soir d’hiver”. Ma io mi credo lontano da “Rendez-vous”, non avevo fatto altro che approcciarmi a questa foresta incantata, i cui toni riempiono così meravigliosamente di immagini in sprofondavo, da dei mesi, alla sua ricerca. Delle favole cominciano nei miei quaderni, delle favole cominciano, vanno via, crescono lentamente dopo che guardo e vedo di quale decoro s’incanta la vostra visione così acuta dell’anima umana. Voi avete una forza che non sono lontano dal credere unica: voi date un’autenticità e un valore straordinario a quello che in voi è più estraneo alla speranza. È riguardo la vostra visione interiore che si può ripetere con vera e propria certezza che il profumo, le immagini, le visioni che formano l’orizzonte del cuore –per la sola ragione che noi amiamo con tutto il cuore – sono estranee a tutta l’esistenza. Si dirà che l’essere vuole rifugiarsi nella sua assenza da tutti i luoghi reali. Arrivederci, mio molto caro amico, vi ringrazio dal fondo del cuore, e sono molto affettuosamente a voi. Vi scriverò presto.
Joë
luglio 1946
Mio caro amico,
quello che mi avete scritto del “Meneur de lune” compensa magnificamente tante delle lettere o magistrali. Esempio: “Ho ricevuto il Meneur de lune. Non ho visto molto bene il disegno, né, a dire il vero, l’interesse. Te ne riparlerò”.
Vi vedo ridere da qui. Voi che indovinate la natura della mia frustrazione, questo libro pubblicato. Dappertutto esso mi indirizza verso una verità dove mi sento ancora incapace di entrare, ma che ronza finalmente, questi giorni qui, nella mia felicità, perché voi mi avete letto, e mi avete concesso la vostra magnifica sensibilità.
La frontiera tra il soggettivo e l’oggettivo non passa i limiti della persona. Il campo della nostra azione è tutto soggettivo, i.e. a obiettivare – a surrealizzare. A partire dal giorno, per la notte. Il giorno è a surrealizzare, la notte a surrealizzare. La persona surreale appare in una coscienza ampliata del giorno e della notte, che non sono da associare se non sotto la loro specie superiore.
Non bisogna associare il sogno e il reale come ha fatto Breton che si occupava solo di astrazioni; ma unire la notte aperta e la notte chiusa, quella che delizia i nostri occhi e quella che ci dona degli occhi. Voi non fate altro.
E se scrivo a Breton come correggo la sua nozione di surreale, mi risponde che nel 1940, avevo le convinzioni di Petain, che è un impudente bugia.
Ve lo dico così. - e ridendo…
Sono il vostro discepolo e vostro amico con tutto il cuore.
Joë
26 novembre 1946
Mio caro amico,
Come osare porvi delle scuse? Voi incarnate questi ritorni alla solitudine che sono anche, per me, la sacra ora del lavoro. E la mia vita è passata a gemere per questa pace dove mi ritroverò, vi ritroverò, potrò scrivere per me, voi scrivere…
Mi sto scambiando delle lettere con Breton, che ha ragione, ma con un tono più che spiacevole. Le violenze surrealiste ricominciano. La mia posizione resta la stessa. Poca fede nella maggior parte degli uomini. Non ho fede che nei fatti. Non c’è un luogo nel quale la rivelazione non si proponga. E, a riguardo di ciò che possiamo creare, tutta la mia forza al servizio della libertà di pensare e di scrivere, più minacciata che mai.
Milo de Sivegac? Ve l’ho già detto? Un nome sussurrato nel nero, allo stesso tempo in cui sono stato iniziato alle strane manifestazioni notturne, che mi sono divenute poi familiari, per poi svignarsela. È l’aria stessa, in effetti, che si stropiccia e vibra e si espande in una chiamata che, quando un “sommersione interiore” del mio corpo mi fa parzialmente addormentare, mi sveglia per rendermi testimone del fenomeno notturno. La notte dove ho sentito “Milo de Sivegac”, ho sentito un braccio invecchiato, mio, femminile, credo, che scivolava nel mio letto.
Ciò che mi avete scritto sulla coppia mi confonde per la sua verità. L’ho profondamente meditato e vorrei suggerirvi qualcuna delle mie riflessioni provenienti, ahimé!, da un uomo troppo distrutto, troppo indifferente al proprio nome per coloro che osano fare scuola, ma sempre così fiero di toccare un uomo come voi.
La coppia è maledetta, l'individuo è egli stesso una coppia.
L’uomo è una creatura in due persone. E prende coscienza della sua esistenza in un atto di fede, che gli aggiunge sempre qualche cosa – lo forza a vedersi come l’immagine di un Essere dove le due sue persone sono integrate.
Che ciascuno dei nostri componenti appartiene a un sesso, è evidente. E desiderare, amare, è entrare, per la comunione di tutti i sensi, nel sesso che s’indossa invisibilmente. Ah! Bosschère! quale bel romanzo d’amore ci scrivereste su queste cose. La mitologia dell’erotico sta per resuscitare. Non c’è più bisogno che l’ignoranza di ciò che fanno spinga le coppie in questa masturbazione errante. Tutti gli uomini sono omosessuali, tranne gli omosessuali. Ancora, per aver parlato la lingua dei miei simili ho detto il contrario di quello che volevo suggerire. Omosessuale, è ben detto dell’uomo che porta in lui due volte lo stesso sesso (non è d’altronde il mio caso) e non è attirato che per il suo insieme, e vuole strappare via gli altri dalla dualità.
È vero che divento sempre più dualista. Non come i manichei dei processi ma come i Manichei dell’origine.
Vi scriverò su un altra lettera.
[Senza firma]
1949
Mio caro amico,
Niente più influenza e dimenticati gli accidenti che l’hanno accompagnata o aggravata. Il più grave è stato una specie d’inondazione che il mio gatto nero Tao-Gibus ha provocato precipitando in mezzo al mio letto, un vaso pieno di rose d’acqua chiara, che ha fatto un mare tra le mie ginocchia addormentate dove ha nuotato la vostra lettera. Pochi danni, salvo la doccia fredda che non mi ha aiutato.
Ricordatevi sempre di questo, e lo verificherete con un po’ di stupore se avrò un giorno l’onore di vedervi a Carcassone: “Non ho la mia vita presso di me” - non posso averla; dopo lunghe rivolte ho compreso che la mia attività era destinata a durare attraverso questi estranei e soffrire i malintesi e gli equivoci, anche utilizzandoli.
Permettetemi questa confidenza fraterna: in seno d’una vita febbricitante, alla quale non mancano le storie romanzesche o ingenue che mi lasciano i miei compatrioti, inseguo, tra una crisi e l’altra, il desiderio di rispondere alla speranza che è riposta in me; tra il dolore di non aver scritto la prima riga di ciò che si deve dire e la necessità di leggere, di scrivere… a volte sono tentato di rigettare le mie coperte, e mi sembra che i miei amici spaventati vedrebbero solo uno scheletro. Come ho fatto anche io recentemente in questo sogno atroce, che è continuato qualche secondo nel mio corpo risvegliato.
Dei morti ammucchiati erano stati distribuiti in ordine d’importanza crescente e, desiderando rispettare certi intervalli, erano distribuiti in cerchio: un morto, due morti, tre morti, tutti nudi. Qualcuno aveva gridato che tutti questi morti erano stati suddivisi come le ore su un quadrante, e che si stesse cercando uno abbastanza giovane, abbastanza formolizzato, per dare un ago a questo orologio di morti. Ma a quello là, era riservato un trattamento speciale.
Mezzo sveglio, sentivo con uno stupore senza orrore le apprensioni dei corpi che lo trascinavano come un manichino, senza preoccuparsi di appendere le dita dei piedi agli angoli dei mobili. E, ubriaco di questo odore di formòlo nel quale si conservano i pezzi anatomici, mi sembrava di giacere nel posto che occupa un ago tra le ore e gli istanti. Sulla mia faccia, che si gonfiava, appariva quello che gli assistenti riconoscevano come una museruola di cane. Ma molto velocemente, per fermare la trasformazione, mi si univano le mani.
Ho vissuto, sveglio, cinque minuti mantenendo in maniera squisitamente precisa la sensazione di queste altre mani giunte nell’incrocio dei miei polsi a causa di un capriccio del sonno. Dovevo pensare, apprendere che, disteso sul lato destro e ciascuna mano sotto l’ascella dell’altro braccio, impegnavo involontariamente le arterie dei miei polsi e che là, giustamente si annodavano le mani di quei corpi che abbiamo solo sognato… e più piccolo ma che cresce, e ci aprirà l’invisibile quando ci avrà superato.
Si, caro amico, mi dibatto, e cammino a malapena, ma so dove vado – otterrò, l’entrata di Yanette [Delétang-Tardif) nella giuria Apollinaire. Con sei mesi di ritardo posso allertare Max Ernst per una collaborazione che esigeva una soluzione immediata. Spero di mettervi in rapporto con un editore molto giovane di testi illustrati che non ha ancora ma avrà, spero, grandi mezzi (Damalse? À Presle S. e O.)
Per parlare del passato, non vi ricordate che le edizioni De Rocher hanno Filigranes con i disegni? - dopo molto tempo – e la promessa che gli troverò delle sottoscrizioni qui.
[Bousquet parla del suo “martirio”]
Non ridete di questa parola: ho avuto mia madre in braccio, dopo otto anni. E per toglierla dai guai ho dovuto fare cinque processi contro degli inquilini. Non più. Va meglio, ma non è finita. Con C. e S. (Cahiers du Sud) sono riluttante a prendermi la briga di togliergli un articolo, ma colgo l'occasione per una prefazione e ne approfitto per fare una prefazione che mi è stata portata via e un sussidio che stasera porterò via al Consiglio Generale dell'Aude per i Cahiers du Sud (e suggerirgli l'articolo o chiedergli per farlo). Il libro è da me, conosco tutte le poesie. Lì, niente mi sfugge - e congratulazioni per il tuo articolo su The New Age su T. S. Eliott [sic].
Fraternamente, il vostro amico,
Joë