Corpo velato

«Rimase immobile sotto i morbidi raggi di sole diffusi dai tendoni, rapito per un attimo dall’immobilità della stanza, a osservare la polvere che mulinava lenta e dorata attraverso le chiazze di luce sopra la moquette e i mobili, mentre avvertiva una strana vicinanza con la donna scomparsa. Trovarsi lì e toccare i suoi oggetti personali nell’intimità polverosa era come attraversane la vita, là c’era tutto di lei tranne la sua presenza fisica, e in un certo senso quella era per lui la parte meno importante di lei». (The Quiet Man, John Foxx)

Questo racconto parla di mascheramenti, di tendaggi e di veli, di corpi nudi e di spettri. Di cose che sembrano non esserci e che pur sono.

Il Re è nudo! Ma cosa vuol dire un corpo nudo? E un corpo di Re? Non c’è mai corpo nudo, non c’è mai nuda vita, c’è soltanto un Re. È morto il Re! Viva il Re! Morto un Papa se ne fa un altro. Che importanza ha il corpo carnale di un Re? E quello di un Papa? Forse nessuna. Ma quello di lei? E di lui? In una stanza disordinata, messa a soqquadro, in una giornata qualunque d’autunno dove fuori dalla finestra cadevano le prime foglie, dove dentro la stanza cadevano gli ultimi vestiti, i corpi si mostravano, graffiati, imperfetti, malfatti, maltrattati. Si guardavano, si toccavano, si annusavano, in un intreccio di gambe, in un groviglio di braccia, poi si sfioravano soltanto, prendevano fiato rallentando il battito e poi una boccata d’aria, e poi giù di nuovo nei gironi infernali del sesso sfrenato. Tutto sotto gli occhi di un gatto con lo sguardo stravolto da una notte d’amore, che, con la testa inclinata verso destra, fissava i due corpi con una certa indifferenza, quasi non capendo il gioco, quasi infastidito, girava i tacchi e se ne andava, ma lui ingenuamente aveva compreso: in effetti erano solo due corpi di carne, stretti in un abbraccio e niente più. Niente più allo sguardo di un gatto, qualcosa in più nel grande specchio affianco al letto, infinitamente tutto allo sguardo dei due amanti. Lui sopra di lei scendeva sempre più giù, lei sotto di lui scendeva nei suoi pensieri e più pensava più stringeva i suoi capelli nelle mani, divaricava le gambe, inarcava la schiena e pensava a qualcosa, forse a qualcun altro, alternando brevi finestre di fatti suoi a immagini eccitanti che a volte sussurrava a volte si teneva per sé, si ricordava forse della scena di un vecchio film di Hollywood, girava la testa verso lo specchio e pensava che era proprio una bella scena di un ottimo film erotico, lui era bello, come sono belli tanti, nulla di che a ben pensarci, ma ci sapeva fare. Lei in fin dei conti, malinconicamente, si piaceva. Lei sopra di lui scendeva sempre più giù, lui sotto di lei scendeva nei suoi pensieri e più pensava più stringeva i suoi capelli nelle mani, allargava le braccia, tirava indietro la testa e spingeva in controtempo il bacino verso la bocca di lei e pensava a qualcosa, forse a qualcun’altra, a sprazzi si distraeva per non far finire troppo presto il momento, le raccontava le sue fantasie cercando di capire quali erano quelle di lei, forse si immaginava di essere in un prato o su un vagone della metro alle 5 del mattino o nel bagno del peggior locale della città con le scritte ai muri e il punk nei cocktail, poi girava la testa verso lo specchio che gli rigettava un immagine così stupendamente bohémienne e sospirava, mica male. Lui in fin dei conti, orgogliosamente, non si dispiaceva. Non erano mai stati veramente nudi uno davanti all’altro, non semplicemente nudi, si erano narrati, auto-narrati con furtive e silenziose micro-narrazioni sottotraccia, con tutto un infra-testo di note a piè di pagina, di pagine che altrimenti sarebbero state solamente bianche.

C’era una volta, e si dovrebbe percorrere il filo che tesse ogni volta questa formula introduttiva, che rilancia il racconto continuamente nell’indeterminatezza di un tempo e di un dove senza tempo e senza luogo, ma aldilà di questo, tornando a noi, c’era una volta un Re. Un bel giorno fecero la loro comparsa a corte due tessitori, o meglio, due truffatori che si dichiaravano capaci di tessere la stoffa più bella che si fosse mai vista, con disegni e colori straordinariamente raffinati, ma soprattutto col particolare e sfizioso potere di non essere visibile a due categorie di esseri umani particolarmente affollate: gli stupidi e coloro che non sono all’altezza del ruolo che ricoprono. Il nostro Re, vanitoso e amante del buongusto nel vestire, non se lo fece ripetere due volte e subito volle un vestito di tali fattezze da indossare al corteo che si sarebbe tenuto di lì a breve; d’altronde chi non l’avrebbe fatto, non è da poco avere uno strumento per distinguere gli stupidi dagli intelligenti e per riconoscere gli indegni che ricoprono gli incarichi affidategli da Sua Maestà, soprattutto se si è proprio Sua Maestà. Qual è il trucco di questa stoffa? Semplicemente il suo non esistere. I due tessitori tessono l’aria, fingono di cucire, fanno girare i telai a vuoto, tagliano il nulla ma tutto con un’accuratezza nei gesti e nelle pratiche da veri professionisti, come se avessero effettivamente una stoffa da lavorare tra le mani. Quando nel grande salone, tra drappi ed arazzi, alla presenza di tutti i cortigiani e cavalieri, dame e cortigiane, il vestito è presentato agli occhi del Re, egli di fronte a sé non vede proprio nulla, ma non può dichiarare questa sua cecità, non può manifestare la sua perplessità, vorrebbe dire, all’interno del gioco introdotto dalla stoffa truffaldina, dichiarare alla corte la sua stupidità o peggio ancora la sua inadeguatezza nel ricoprire il ruolo di Re. Bisogna attenersi alle regole del gioco e un Re deve sempre fuggire allo scacco matto, infatti, mentre pensava a tutto ciò, dalla sua bocca esclamò: «Magnifique! Excellent!», e dopo essersi denudato e avendolo indossato, davanti allo specchio disse: «Una stoffa strabiliante, di una leggerezza tale che sembra di non avere nulla addosso, sembra d’essere nudi!». Attenzione: sembra d’essere nudi. E da qui in poi in effetti il Re nudo non lo sarà mai. Regine, alfieri, cavalli e torri, tutta la corte si trovava nella stessa condizione del Re, sottostava alle stesse condizioni del gioco e, in una scena di meravigliosa intensità della commovente ipocrisia umana, possiamo immaginarcela che si riversava in un applauso scrosciante e in commenti di approvazione. Si aprirono le porte del palazzo, il potere si affacciò sulle strade della città: il re, con la corona in testa e l’abito immaginario pure, sotto al baldacchino simbolo di regalità, procedeva a capo del corteo, seguito dai ciambellani che fingevano di sorreggere lo strascico del vestito, e da tutto il seguito di servi, servetti, clienti, cavalieri, cortigiani e figure d’ornamento varie. Il popolo era in visibilio, mai un vestito del Re aveva suscitato tanto successo: può sembrare strano, ci si potrebbe aspettare una risata collettiva, un lancio di pomodori, ma pensate che il popolo abbia la libertà di non inchinarsi davanti alle regole? I pedoni giocano, e anche in prima linea. Ad un certo punto, dall’angolo di una strada, un bambino, sporco di polvere e stufo di giocare con la povertà, si girò verso il re e inclinando il capo con un senso di stupore e uno sguardo stravolto da una notte di pianti, esclamò: «Il Re è nudo!». Il corteo passò oltre, curante o meno della voce del bambino non è importante. Niente più che un corpo nudo agli occhi di un ragazzino, qualcosa in più nello specchio del salone, infinitamente sovrano nelle corti e nelle piazze. In questa rilettura della fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore di Hans Christian Andersen, la voce infantile che denuncia la nudità del Re occupa la posizione del gatto: ha effettivamente compreso, non c’è nessuna stoffa pregiata, nessun vestito regale, nessun ricamo dai sapori bizantini, c’è solo un corpo nudo, ed è pure brutto, flaccido, non certo un corpo di Re. Ma la sua firma è, aldilà di tutto, firma di Re, il bambino invece, non me ne voglia nessuno, è davvero lo stupido della storia, egli rappresenta quella categoria di cretini iper-intelligenti, quelli che capiscono tutto, dicono sempre la cosa giusta, ma al momento sbagliato e nel posto sbagliato: dicono il vero, ma non capiscono le regole contestuali, il meccanismo di funzionamento del gioco, passano da una trincea all’altra urlando di non sparare perché dall’altra parte c’è gente. Il Re è tale finché tutti lo credono Re, finché sta sopra un trono o sotto un baldacchino, finché la corte lo applaude: la veste invisibile è la vera fonte della sovranità, egli infatti non è mai nudo, ma è, e non può essere altrimenti, sempre narrato, iscritto, simboleggiato, rappresentato, adornato da tutta una serie di segni e simboli, visibili e invisibili, di comportamenti, di frasi, di codici, di menzogne e di finzioni che ci rendono possibile dire: c’era una volta un Re.

Ad un certo punto della serie The New Pope di Paolo Sorrentino, Jude Law nonché Lenny Belardo nonché Pio XIII si rivolge a Silvio Orlando ovvero al Cardinal Voiello con più o meno queste parole: «I Papi passano, lei, Voiello, resta». La frase chiaramente deve essere inserita nella narrazione della fiction e ad un primo livello significa semplicemente che rispetto all’alternanza e al succedersi che c’è stato fino a quel momento dei Papi, Voiello ha sempre mantenuto il suo posto inalterato. Ma se provassimo ad andare un po’ oltre? E ci chiedessimo qual è il ruolo di Voiello? Perché lui resta e gli altri passano? Non è una faccenda solo di corpi. La frase può essere portata ben oltre la storia letterale e materiale della serie, possiamo farle squarciare il tendaggio della narrazione. Voiello non è certo immortale o non ha una vita che percorre qualche secolo di storia, ma è il Segretario di Stato della Santa Sede, e non è poco. È, come lui stesso si definisce, l’uomo dietro le quinte e mentre gli altri recitano sulla scena lui dirige, conta l’incasso, scrive la sceneggiatura; gli applausi non fanno per lui e nemmeno gli inchini a fine spettacolo. È senza dubbio il personaggio principale di una serie che non è sulla figura del Papa ma sulla Chiesa, e Voiello è, in un certo senso, la Chiesa. In The Young Pope afferma: «Se vedi il Papa digli di non fare troppo tardi: io, a differenza sua, ho tante cose da fare. Devo mandare avanti tutta la baracca che mi ha lasciato quel pescatore indeciso di Pietro», ogni decisione, ogni scelta, ogni indecisione passa sotto le sue mani, acquista tinte e sfumature violacee della sua porpora cardinalizia. Voiello sa tutto: quello che accade nei palazzi vaticani e quello che accade nelle parrocchie del mondo cattolico, ma soprattutto sa che il potere è conoscenza e che cadere o trionfare è tutta una questione di venire a conoscenza delle cose prima o dopo gli altri. Ma Sua Eminenza non è semplicemente una di quelle figure del potere che eccitano particolarmente lo spettatore maschio contemporaneo, quel personaggio molto in voga cinico e spietato, disposto a tutto per completare voracemente la sua scalata sociale, no, niente di tutto questo: il potere che ha e che si costruisce ogni giorno non lo esercita per il proprio interesse personale ma, come spesso ripete, per il Bene della Chiesa. È il servo del potere, non nel senso che ne è dominato, me che ne è al completo servizio, ne è il perfetto e professionale ragioniere: il Cardinal Voiello, l’uomo dietro le quinte, il ragioniere del potere. Voiello fa i conti del Signore, batte a macchina per lui, firma, stipula contratti e prende decisioni in sua vece, è completamente dedito alla Causa e l’unico aspetto che è propriamente suo perché, forse, non condiviso con Dio, è la passione per il Napoli. Voiello incarna per transustanziazione la macchina organizzativa, amministrativa, economica e politica della Chiesa, incarna, in due parole, la Santa Sede. Questo è il motivo per cui lui resta e gli altri passano, non può esserci un Papa senza Voiello, può esserci Voiello senza un Papa, figura che, per come la conosciamo noi oggi, è nata ben mille anni dopo la nascita della Chiesa. Si può navigare tranquillamente con una sede vacante. «I Papi passano, lei, Santa Sede, resta». Anche Voiello certamente passerà, forse diventerà Papa, forse fiorista, ma la questione sta tutta nello staccarsi dalla vita materiale del personaggio, nel lacerare il legame tra Silvio Orlando e il ruolo che ricopre, quest’ultimo è la vera maschera del Cardinal Voiello, e c’è molta più realtà nella maschera che dietro di essa. Proviamo a spingere oltre il riferimento cinematografico immaginando una sequenza d’immagini, facciamogli cambiare l’andamento e il ritmo del testo: inquadratura sulla monumentale facciata di San Giovanni in Laterano, coi marmi bianchi illuminati dalla fredda luce di un’alba d’autunno, la telecamera che si avvicina piuttosto velocemente al portone centrale, lo attraversa e percorre speditamente la grande navata inquadrando solo il pavimento, che scorre con le sue figure geometriche davanti allo sguardo. Ora rallenta. Passa l’altare. Dal transetto di destra si alza un coro a tinte cupe che invita il pellegrino a pentirsi, da sinistra voci di beatitudine e carità dalle tonalità luminose. L’inquadratura inizia ad alzarsi lentamente e davanti a noi, sotto ad un grande mosaico dorato in stile bizantino e un’ampia fascia di marmi policromi, sopra cinque gradini, un magnifico trono in marmo bianco illuminato da due fasci di luce che lasciano nella penombra tutto il resto. Questo trono è il simbolo ufficiale della Santa Sede. Un trono vuoto, una santa sede vacante, il soglio pontificio è un salto nel vuoto. È un trono pesante, in marmo, eppure così etereo, e, come tutti i troni d’altronde, funziona senza il bisogno di un corpo che ci stia perennemente sopra, anzi proprio in ciò trova la sua esistenza, che vortica introno ad un posto vuoto: non importa se a sederci sopra è Pio XIII, Jude Law, Giovanni Paolo III, Sir John Brannox, Bergoglio, o Voiello, se non ci si siede nessuno tanto meglio, qui il corpo da nudo è sparito, è sparito il Re, è sparito il Papa, abbiamo solo la stoffa invisibile: il trono di uno spettro, il velo di un fantasma, ed è sufficiente alla Santa Sede per esistere, all’Amore per accadere, alla Sovranità per governare. Alla fine, ammesso che sia possibile, quanto valgono i corpi senza i vestiti, visibili o invisibili che essi siano? Meno di niente forse, ed è per questo che continuiamo a filare e tessergli attorno delle narrazioni, fino a farli quasi sparire. I corpi presi nella loro semplice nudità sono solo un insieme di muscoli, ossa e nervi, semplicemente ammassi di cellule, ma basta un velo, materiale o simbolico, reale o immaginario e qualcosa accade: di fronte al Cristo Velato nella cappella Sansevero di Napoli si è come sospesi dalla commedia della città, davanti al corpo più spoglio che si possa immaginare, eppure non è un corpo nudo, è velato, è più che nudo: è spettrale. Quando miracolosamente iniziano a narrarsi, a essere narrati, a iscriversi in gesti, simboli e segni, in sguardi, tracce, secrezioni, ferite e storie, quando iniziano in fine a truccarsi, velarsi e mascherarsi davanti allo specchio, pronti ad entrare in scena o da quest’ultima sparire come spettri e infestare le nostre vite, allora si, che i corpi sono davvero stupendi e forse è questo quello che vedo, davanti a un corpo, ai bordi delle strade.

Luca Rocco

Luca Rocco ha studiato Filosofia prima a Bologna e poi a Verona, dove è nato e abita attualmente. I suoi interessi vertono sulla Filosofia teoretica, in particolare quella francese del ‘900, e sulla letteratura. Insegna Storia e filosofia al Liceo.

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