La ripetizione da identità a differenza. Un viaggio tra Freud e Deleuze

Dalle più spontanee e naturali convinzioni, ritenute sicure ed indubitabili, la ripetizione viene considerata come un meccanismo che, non senza stereotipia e automatismo, garantisce la costante riproposizione dello stesso; alla luce delle interpretazioni e delle letture usuali, essa si staglia come la ripresentazione ininterrotta ed analoga di un oggetto, implicando, evidentemente, una certa monotonia ed insistenza ed escludendo, di conseguenza, qualsiasi occasione di modificazione, alterazione, trasformazione. È proprio questo argomento, assai radicato nella consuetudine, che Gilles Deleuze, per mezzo dell’opera Differenza e ripetizione, una delle massime espressioni del suo pensiero risalente al 1968, tenta di demolire: egli, scardinando le solide certezze del senso comune, si propone di rovesciare le forme tipiche della riflessione per concepire in modo nuovo i temi della ripetizione e della differenza; questi, secondo una logica innovativa non più assoggettata a previe determinazioni, possono essere pensati come ripetizione “pura” e differenza “in sé”, ovvero come principi liberati dai concetti preesistenti e dalle immagini precostituite in cui, tendenzialmente, vengono incastonati.

La più diffusa percezione della ripetizione, forgiata dal versante tradizionale del pensiero, poggia per lo più sui sistemi della rappresentazione concettuale e della generalità; il primo, che consiste nel rapporto tra il concetto e il suo oggetto, servendosi delle categoria dell’identità e della similitudine, del negativo e della contraddizione, coglie la ripetizione nella sua materialità, cioè nel suo essere ritorno dello stesso. Il secondo, a cui inevitabilmente la rappresentazione si offre, gravita attorno all’ordine delle leggi e, adottando come criteri fondamentali l’equivalenza e la somiglianza e come norma suprema la possibilità di scambio o di sostituzione di termini particolari, stima la ripetizione come ciò che, attraverso i molteplici casi che si verificano nel mondo, supporta un medesimo paradigma; è quello che si riscontra, ad esempio, nel contesto della sperimentazione scientifica, in cui si rintracciano le condizioni sotto le quali un fenomeno appare sempre uguale a se stesso, oppure nella sfera dell’etica, laddove in nome del rispetto per la legge morale si istituisce un’abitudine durevole non piegata a variazioni.

Ma è ammissibile osservare la ripetizione solo attraverso il filtro dell’analogia? È plausibile figurarsi la ripetizione soltanto come ciò che, obbedendo a rigorosi precetti e ad intransigenti regolamenti, assicura l’omologia? Tendenzialmente, a causa della devozione ai rassicuranti archetipi che da Platone in poi si sono imposti, non ci si pongono tali quesiti, mentre la meditazione deleuziana, che si erge come vera e propria rivoluzione, vi risponde con una decisa negazione, criticando l’ideologia solita e prevalente; la ripetizione, se è possibile, è strumento “indifferente”, ovvero estraneo a qualsiasi specificazione mediante concetto, e trasgressione disinteressata che abbatte ogni legalità e necessità: essa, che prevede il miscuglio di singolarità uniche ed insostituibili, va contro la legge per essere eccezione, contro l’ordinario per essere straordinaria, contro l’identità per essere differenza. Ebbene, se generalità e rappresentazione, a causa dei postulati a cui si appoggiano, non possono che dare origine ad una ripetizione nuda, cioè bruta e piatta, in quanto riciclo che evita ogni straripante sorpresa, Deleuze aspira ad una risignificazione della ripetizione, che la renda più profonda e che ne capti potenzialità e risorse; e come lui, anche la filosofia dei giorni nostri, per non incappare più nelle trappole che sterilizzano la ripetizione, dovrebbe proseguire nella sua evoluzione sulla scia del «fallimento della rappresentazione»[1].

Tale anarchica operazione, tuttavia, non è stata di immediata ricezione, né di facile applicabilità: parecchie discipline, infatti, conservano un tenace annodamento sulle posizioni maggioritarie, non avendo il coraggio di abbracciare schemi alternativi rispetto a quelli totalizzanti del buon senso e del ragionamento classico, o meglio, di non adottarne alcuno. La psicoanalisi, ad esempio, benché abbia dato inizio ad un’importante riforma nell’ambito dello studio della psiche umana, nel momento in cui affronta la questione della ripetizione sembra rimanere fermamente ancorata al mondo della rappresentazione, dal momento che, di nuovo, la articola secondo la concezione del continuo ripristino dell’uguale. Fu Freud ad avanzare per primo, all’interno dell’orizzonte psicoanalitico, questo modello mediocre della ripetizione: egli lo introdusse nel testo del 1920 Al di là del principio di piacere, sia in riferimento ad attività definite “normali”, sia attraverso la cosiddetta “coazione a ripetere”, nozione che gli permise di segnalare la presenza, all’interno della vita psichica, di una pulsione di morte unita al principio di piacere.

Lo psicoanalista notò che nei sogni che si danno nelle nevrosi traumatiche e nel gioco infantile spesso emerge una robusta spinta ripetitiva, portata avanti in maniera per lo più consapevole e con comprensibili motivazioni. In relazione al primo caso, la ripetizione sta nella disposizione secondo cui l’individuo viene riportato continuamente sul punto del trauma che gli ha causato la malattia, probabilmente per far sì che egli possa dominare retroattivamente l’angoscia e prepararsi adeguatamente all’intoppo; rispetto al secondo contesto, invece, essa affiora nell’insaziabile volontà dei bambini di soffermarsi sulle stesse attività ludiche: il nipote di Freud, ad esempio, non si stancava mai di ripetere il gioco del lancio e del ritiro a sé di un rocchetto ogniqualvolta la madre si assentava, forse per provocare attivamente i suoi allontanamenti senza subirli più in maniera passiva, esprimendo così un desiderio di vendetta o appagando l’impulso a diventare adulto. È chiaro che entrambi gli avvenimenti giacciono nella culla di una ripetizione scarna e grossolana: essi convocano la revocazione assillante di un identico coefficiente, la ricorrenza frequente di un’ossatura indeclinabile, la fissazione su un punto immutabile.

Un «eterno ritorno dell’uguale»[2] si palesa, poi, anche in una propensione che, essendo più inconscia ed incontenibile, si scosta dalla precedente: si tratta della coazione a ripetere, un’inclinazione che conduce alcuni individui a rivivere costantemente esperienze dolorose e che, in quanto tale, conferma l’esistenza di una forza primitiva ed originaria all’interno della realtà psichica dal carattere regressivo e autodistruttivo, dal momento che «si afferma anche contro il principio di piacere»[3]. Questo rituale ripetitivo si manifesta facilmente nella condotta dei nevrotici, che, nel contesto della traslazione, vale a dire della relazione col medico, si pongono senza sosta in situazioni di sofferenza non elaborate e sottoposte a rimozione: i malati sono indotti pertanto a «ripetere il contenuto rimosso nella forma di un’esperienza attuale, anziché a ricordarlo come parte del proprio passato»[4], cioè mettono in atto riproduzioni e repliche fedeli di eventi indesiderati invece di metabolizzarli.

Tanto la reiterazione tipica degli svaghi d’infanzia e delle visioni oniriche quanto la coazione a ripetere evidenziano come il padre della psicoanalisi si ponga nell’alveo del metodo rappresentativo quando qualifica la ripetizione: questa, stando alle circostanze osservate, si declama come un inarrestabile loop che, come in un circolo senza via d’uscita, propone lo stanziarsi interminabile di copie, rendendo impossibile ogni opportunità di progressione, di cambiamento, di diversificazione; non a caso, la coazione a ripetere si rivela essere un potente ostacolo alla cura: essendo una ripetizione assoluta, atemporale e sedentaria del medesimo nucleo, non può che rallentare lo sviluppo del trattamento e preannunciarsi come ostinata resistenza alla novità.

Deleuze, che aizza il fuoco per far bruciare ed incenerire le direttive filosofiche preminenti, non può non insorgere di fronte alla definizione psicoanalitica della ripetizione, racchiusa ancora in una cornice di postulati assodati, previsti, familiari; egli giudica «realistica, materialistica e soggettiva o individualistica»[5] l’immagine freudiana della tensione ripetitiva, poiché questa si concentra e accade nel presente nonostante richiami parti del passato, suppone il prototipo di un macchinoso e ricorrente ritornello di un corpo invariabile e vede la sottomissione dell’elemento ripetuto alle rappresentazioni consce e inconsce, manifeste e latenti, del soggetto; essendo manovrata dal principio di identità e dalla regola della somiglianza, essa va perciò a concordare perfettamente con quel concetto scarno e arido di ripetizione e «si trova così subordinata alle esigenze della semplice rappresentazione»[6]. La proposta deleuziana, a questo punto, vira decisamente verso un’altra impressione: non vale più l’idea secondo cui si ripete perché si rimuove, bensì quella per cui si rimuove perché si ripete, giacché attraverso l’esperienza della ripetizione non riemerge incessantemente qualcosa, ma qualcosa viene cancellato, ovvero quella rappresentazione «che media il vissuto rapportandolo alla forma di un oggetto identico o simile»[7]. Il tentativo, dunque, è quello di passare dall’identità alla differenza, di scostarsi dal «teatro della rappresentazione» per approdare al «teatro della ripetizione»[8]: il primo dramma, infatti, è falso ed ingannevole, dato che si fonda su un movimento illusorio che snatura ed impoverisce la ripetizione; tangibile dimostrazione ne è il procedimento dialettico, che, concentrandosi sul lavoro di mediazione tra due opposti e privilegiando il momento positivo della tesi a cui ogni negatività, in fondo, deve essere ricondotta, rimane un moto involutivo asservito alle esigenze di un sistema organico ed armonico che solo apparentemente sconvolge i capisaldi della rappresentazione. Il secondo scenario, invece, racconta l’autenticità della ripetizione: questa non viene più cristallizzata in forme immutabili e disciplinate, non si profila più come concatenamento robotizzato che si aggroviglia eternamente su se stesso, ma diventa un fecondo movimento capace di smuovere ogni pianificazione, di uscire da ogni limitazione, di abbattere ogni barriera; da cortocircuito improduttivo, la ripetizione si fa ordine dinamico che, essendo alimentato da «vibrazioni, rotazioni, gravitazioni, danze o salti che tocchino direttamente lo spirito»[9], è in grado di porsi al di fuori di ogni intento rappresentativo, producendo così qualcosa di nuovo. Tale vero motore, in effetti, spicca per la sua essenza generativa, resa possibile dall’accoglienza della differenza: la ripetizione fa sorgere la novità perché in ogni sua pulsazione ingloba una discrepanza che resiste a qualsiasi apparato teorico già esistente, perché in ogni suo attimo è discordia; essa sollecita la nascita di un’originalità, di un’invenzione, di un rinnovamento grazie al suo porsi come un’avventura che, non ostinandosi più ad assecondare la permanenza del simile ma approvando turbolenze e mutamenti, vede nel suo corso l’intrecciarsi di noccioli eterogenei, l’incastro di vettori non uniformi. Si pensi al rifacimento di opere o alla rivendicazione di medesimi soggetti da parte di alcuni artisti: questi processi non corrispondono ad un minuzioso recupero degli stessi motivi decorativi, ma alla possibilità di introdurre un bacillo d’estraneità all’interno di un campo ripetitivo. Monet, nella serie infinita di dipinti della facciata della Cattedrale di Rouen, lungi dal calcare con precisione immagini sempre uguali, va a «sviluppare nell’eterogeneo»[10] i segni della sua pittura: egli, nello spazio della ripetizione, inserisce inevitabilmente delle differenze, immette immancabilmente delle variazioni, tradisce senza scampo le impronte antecedenti, regalando ogni volta un capolavoro inedito nonostante le affinità con le tele precedenti. Ecco che l’arte non si erge mai come imitazione, ma come pratica che mentre ripete sostiene l’alterità, come attività che nel ribadire un tema non smette di combinare diversamente gli esemplari che adotta, come linguaggio che non descrive sempre le stesse cose ma che si misura con la disparità; l’arte moderna rovescia quell’urgenza di corrispondenza per farsi sperimentazione, per farsi ambiente plastico pronto ad ospitare curvature, metamorfosi, cessioni. Ed è solo là dove c’è squilibrio, instabilità, rottura, che ci possono essere autentici concepimenti e procreazioni, attendibili produzioni ed itinerari: grazie ai punti differenziali da cui è scossa, la ripetizione non è più asettica, infruttuosa e inanimata come quella volgare, che non fa altro che ritrarre elementi ordinari e coerenti, ma è accesa, fertile, vivace e campeggia come piena potenza creatrice.

Se «L’interno della ripetizione è sempre toccato da un ordine di differenza»[11], se «la vera ripetizione è quella che corrisponde direttamente a una differenza dello stesso suo grado»[12], se, insomma, la ripetizione è pura affermazione del diverso, il suo procedere non sarà omogeneo, lineare e simmetrico, ma, piuttosto, ondeggiante, fluttuante, variabile: esso sarà segnato da accenti, attimi di intensità, punti di flessione ed eventi ritmici, poiché è attraversato da dissimetrie, da disuguaglianze, da difformità. In questo modo, la ripetizione da orizzontale si raddrizza in verticale e, prendendo le distanze dal susseguirsi estensivo di enti gemelli, si tramuta in un agglomerato di zampilli, di vibrazioni, di oscillanti tonalità; da misura e proporzione essa si converte all’alternanza, al sussulto, all’inquietudine. E se questa ripetizione comprende veramente divari e dislivelli, essa non sarà più nuda, cioè statica ricomparsa di un’identità, ma sarà necessariamente vestita: la ripetizione si costruisce solo mascherandosi, si compie solo travestendosi, ed è proprio nel suo essere simulacro, nel suo darsi all’interno del rinvio tra un costume e l’altro, che esprime quelle cuciture distinte e discordanti che appartengono alla struttura di ciò che si ripete. Le maschere assunte dalla ripetizione non sono, pertanto, semplici camuffamenti da cui si fa ricoprire rimanendo di per sé spogliata, non sono delle fodere che indossa per esibirsi, non sono dei rivestimenti da cui si fa occultare; questo è ciò che prospetta la psicoanalisi freudiana, dato che, guardando alla ripetizione come ciò che riappare sotto sembianze diverse, pensa alla condensazione, allo spostamento e alla drammatizzazione come travestimenti che cingono e avvolgono, nei sogni o nei sintomi, per mezzo di un compromesso tra conscio e inconscio, una ripetizione che resta brulla. Gli abiti che la ripetizione indossa, al contrario, sono i suoi elementi congeniti: la ripetizione nasce e cresce abbigliata e non può esistere al di fuori di tali veli, poiché essi non sono mere apparenze o schermi superficiali, ma incarnano i suoi geni, i suoi atomi, le sue sostanze costitutive; le varianti di cui la ripetizione è fornita, senza provenire dall’esterno o applicarsi dall’alto, provano e collaudano la sua densa e sovversiva natura.

È lecito ora chiedersi, a seguito di tali premesse, cosa questo novello quadro della ripetizione possa comportare nel concreto, cosa possa implicare praticamente, cosa possa comunicare nel fattuale; che cosa significa che la ripetizione ama ciò che è sconosciuto, inatteso, vergine? Cosa vuol dire che desidera lo squarcio, l’altrove, lo straniero? In verità, uno degli esiti cruciali a cui la ripetizione riscossa conduce è quello di attribuire un nuovo volto al tempo: Deleuze ricorre e foggia una ripetizione che sia traduzione di dissomiglianze perché questa, riuscendo per sua natura a rendere ragione del divenire, ha a che fare con un tempo svincolato ed incondizionato che, finalmente, si emancipa da qualsiasi universo costrittivo per aprire spiragli, per schiudere varchi, per consentire lo sprigionarsi di qualcosa di inedito. Il tempo che in tal modo trapela è il tempo dell’avvenire: non c’è più presente, ossia abitudine che contrae gli istanti gli uni negli altri e che attende la ripetizione stagnante dei casi, non c’è più passato, ossia memoria che fa scorrere il presente e che in ogni momento attuale fa ricomparire la stessa storia pregressa, ma c’è futuro; e il futuro, superando il povero disegno del tempo come ciclo intramontabile e linea ricurva che le prime due modalità percettive richiamano, abbandonando l’ingenua immagine del tempo come contenitore di avvenimenti empirici che si dipanano cronologicamente al suo interno, traspare come realizzazione di eventi inusitati, di opere insolite, di prodotti sconosciuti. Il terzo tempo, quindi, è un tempo sprigionato, sconvolto, uscito dai propri cardini: esso diventa un ordine puro e vuoto, un tratto incontaminato, un indice assoluto che davvero si svolge, senza assistere semplicemente a qualcosa che in lui si srotola, e che difende l’accadere di un incontro, di una convergenza, di un’esperienza autonoma e priva di riferimenti.

Categoria sovrana di questo tempo non può che essere, allora, la profonda ripetizione, che, promettendo la vittoria della differenza sull’uguaglianza, distrugge qualsiasi presupposto e disfa ogni basamento a vantaggio di una palpitazione, di una contaminazione, di una diversificazione; la furia della ripetizione favorisce un «senza-fondo, universale sfondamento che gira su se stesso e non fa ritornare che l’a-venire»[13], nel cui tremolio germogliano disparati e inconsueti semi. Si potrebbe parlare, anche in questo caso, di un “eterno ritorno”, ma se Freud interpreta il concetto nietzschiano come una restituzione dell’identico, Deleuze lo parafrasa come un’eco perpetua in cui ciò che risuona è sempre e solo l’ineguale, dato che ogni uniformità viene dissolta. L’eterno ritorno deleuziano è riapparizione di ciò che è estremo, eccessivo, smisurato, di ciò che trabocca dalle premesse della rappresentazione per transitare nell’altro, di ciò che raggira l’analogo per distinguersi: in esso non tutto torna, non torna ciò che nega e che non sopporta la prova della dislocazione, non torna l’uno nel suo essere pari a se stesso; in esso viene moltiplicato solo ciò che è filtrato da un decentramento, viene prolificato solo il divergente, il caos, l’imprevedibile.

Collimando con il percorso tortuoso dell’eterno ritorno che mette in relazione con la libertà del non-fondato, la ripetizione di tale sintesi temporale guida, non a caso, verso un particolare appuntamento con la morte: la forma sgombra del tempo, infatti, fa precipitare nella mancanza di impalcature, nell’assenza di sostegni, nella carenza di garanzie, alludendo ad un non-essere che è nocciolo dell’essere, ad un decesso che è arma della vita. «Se l’eterno ritorno è in rapporto essenziale con la morte», scrive Deleuze, «ciò accade perché promuove ed implica “una volta per tutte” la morte di ciò che è uno»[14]; in fondo, è questa una realtà che l’intera esistenza umana dovrebbe contemplare: solo se si ha la sfrontatezza di annientare il posizionamento dell’io e l’illusione dell’in-sé si può divenire, solo se si ha il coraggio di dimenticare la propria identità e di scoprire il diverso da sé si può effettivamente crescere, solo se si accetta di morire si può realmente far fiorire la vita. Tale legame tra tempo e morte può essere districato per mezzo dell’insegnamento e del linguaggio freudiano, sebbene ci si debba separare da esso per lo sguardo mancato che riserva alla ripetizione: la pulsione di morte, quel misterioso istinto demolitore correlato al principio di piacere, combacia perfettamente col tempo che porta con sé l’ombra di Thanatos propugnato da Deleuze, con la postilla però che la morte in cui si penetra non è stato inerte e inanimato a cui il vivente propenderebbe a tornare, ma prova del ripudio di ogni entità preliminare. La ripetizione, in quanto tale, porta perciò con sé il privilegio della vita e della morte, possiede il dono del divino e del demoniaco: questo gioco di perdizione e guarigione, di crollo e risurrezione, è il suo segreto più proprio, che le permette di non essere più motivo di incatenamento e di chiusura, ma di mostrarsi come dinamica salvifica che dà accesso ad inauditi e freschi esordi; solo grazie a questa trama che interseca apollineo e dionisiaco la ripetizione si leva come virtuosa energia: «l’istinto di morte vale come principio positivo originario per la ripetizione, essendo qui il suo campo e il suo senso»[15].

Trionfo del crollo, dell’imprevisto e della rinascita è, dunque, la ripetizione. E per apprezzare sinceramente il suo spirito violento e florido, quella «Immagine del pensiero, prefilosofica e naturale, tratta dall’elemento puro del senso comune»[16], ammessa dalla filosofia dogmatica, deve essere sciolta, poiché corrode il reale significato del cogitare e del ripetere: «finché il pensiero resta sottoposto a questa immagine che pregiudica già tutto»[17], infatti, non possono che nascere gravi fraintendimenti, tra cui la scomparsa di ogni fenditura e l’annullamento di ogni incrinatura, che vengono livellate a favore dell’identità e della somiglianza; solo stroncando quest’impostazione speculativa è possibile intuire l’onesta portata della ripetizione, di quel turbinio che rintraccia la sua essenza nello stordimento differenziale. A stravolgere la tradizione metafisica e gnoseologica occidentale deve quindi essere un raziocinio scevro di qualsiasi icona, liberato dalla prigionia della rappresentazione, sollevato da ogni dottrina: sarà questa una ragionevolezza sovversiva, che, per afferrare la differenza e la ripetizione come il vero senso e la vera genesi del pensiero, non aderirà più all’andamento rettilineo, regolare, consequenziale, ma privilegerà risonanze, avvallamenti, costellazioni. «La teoria del pensiero», recita Deleuze, «è come la pittura, ha bisogno di una rivoluzione che la faccia passare dalla rappresentazione all’arte astratta; è questo l’oggetto della teoria del pensiero senza immagine»[18].

[1] Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, p. 1.

[2] Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 165.

[3] Ivi, p. 166.

[4] Ivi, p. 159.

[5] Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 136.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 29.

[8] Ivi, p. 19

[9] Ivi, p. 17.

[10] Ivi, p. 35.

[11] Ivi, p. 38.

[12] Ivi, p. 39.

[13] Ivi, p. 122.

[14] Ivi, p. 151.

[15] Ivi, p. 27.

[16] Ivi, p. 172.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 354.

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