Emil Cioran: il bisogno di "essere lirici"

Chiamo poesia ciò che trafigge il cuore come una lama.

(Dopo aver letto la poesia di Juan Ramón Jiménez: Yo no soy yo)1.

Il rapporto di Cioran con la poesia è un rapporto molto profondo, autentico, sentito. Cioran non è mai stato un poeta, non ha mai scritto versi, ma ama infinitamente i poeti, perché considera la poesia la dimensione originaria che ci permette di cogliere la verità più profonda del nostro essere: la nostra intimità, la nostra interiorità, la nostra spiritualità. Cioran riconosce ai poeti il ruolo di poter accedere all’inaccessibile, al “sottosuolo”, alla nostra zona d’Ombra. Soltanto i poeti riescono a dire la ferita che ci abita, la “morte dell’anima”, il senso e l’essenza della nostra solitudine. La poesia per dirla con Joë Bousquet esemplifica la “nudità della vita”2.

Cioran è un pensatore antiaccademico, quindi un pensatore privato, un filosofo nichilista, tragico, nato nel 1911 in Romania3. Cioran si laurea in filosofia a Bucarest nel 1932 con una tesi su Bergson. Ha una solida, robusta preparazione filosofica. Conosce alla perfezione i classici della storia del pensiero, con particolare attenzione all’idealismo moderno (Kant, Fichte, Hegel), e alla filosofia dell’esistenza contemporanea (Jaspers, Heidegger, ecc.). Quando però inizia a soffrire di depressione e di insonnia, sin dall’età di 17 anni, egli si accorge che tutto quel bagaglio teorico e teoretico, che ha acquisito durante gli anni universitari a Bucarest e di specializzazione in Germania, non gli serve a nulla.

È questo il tema dell’“addio alla filosofia”, così come sarà poi descritto in maniera esemplare nel Sommario di decomposizione, prima opera redatta in lingua francese e pubblicata a Parigi nel 1949:

Avevo diciassette anni e credevo nella filosofia. Ciò che non si richiamava a essa mi sembrava peccato o lerciume. I poeti? Saltimbanchi adatti al divertimento delle donnette. […] L’amore, la morte? Pretesti di infimo ordine che si rifiutano all’onore del concetto. […] Il concreto, che macchia! Godere o soffrire, che vergogna! Mi sembrava che solo l’astrazione palpitasse […] Mi ripetevo: solo il bordello è compatibile con la metafisica; e spiavo – per fuggire la poesia – gli occhi delle servette e i sospiri delle puttane. Quando giungesti, Insonnia, a scuotere la mia carne e il mio orgoglio, tu che trasformi il bruto giovanile, ne sfumi gli istinti, ne attizzi i sogni, tu che in una sola notte dispensi più sapere dei giorni conclusi nel riposo […] tu mi facesti udire il ronfare della salute […]. E fu allora che mi rivolsi alla filosofia: ma non c’è idea che consoli nel buio, né sistema che resista alle veglie… Il fatto è che le veglie possono cessare, ma la loro luce sopravvive in te: non si vede impunemente nelle tenebre, non se ne raccoglie senza pericolo l’insegnamento; vi sono occhi che non potranno imparare più nulla dal sole, e anime afflitte da notti da cui non guariranno mai…4.


Il giovane Cioran dunque non crede affatto nella poesia, anzi mostra verso di essa un certo disprezzo, una certa ritrosia. A conferma di ciò anche un breve passaggio di una lettera inviata all’amico Bucur Ţincu il 2 novembre 1930 (Cioran ha 19 anni):

Per me, il mezzo migliore per sconfiggere la malinconia è ricorrere a problemi astratti e impersonali. […] Quando si è disgustati dalla vita, non bisogna ricorrere a Baudelaire, ma a uno studio di Leibniz, per esempio, sulla misura o sulla critica del principio di causalità di Hume o, se vuoi qualcosa di più interessante, meglio rivolgersi alle argomentazioni di Zenone contro il movimento. Lo dico per esperienza personale. Perché, come si fa ad annullare la tristezza attraverso la tristezza, come si fa a combatterla attraverso la poesia? Anche se, paradossalmente, devo dirti che secondo me gli uomini tristi dovrebbero occuparsi di matematica, non di poesia. Solo l’oggettività della matematica può sconfiggere il soggettivismo dell’ispirazione poetica o il lirismo della tristezza [...]5.


All’età di 22 anni, Cioran comprende invece che la filosofia appresa all’università e di cui era fiero adepto, non serve a niente di fronte all’inquietudine interiore e al disagio psichico. La filosofia non riesce a lenire il malessere e il male di vivere. Le categorie, i concetti, i ragionamenti, i sofismi e anche il linguaggio astruso e criptico, talvolta, della tradizione speculativa non possono nulla in relazione al naufragio dell’anima, di un’anima nel pieno dell’assurdo dolore, di una coscienza infelice (trafitta, afflitta, affranta, infranta) che avverte in sé la scissione, la lacerazione, lo squarcio, la lesione, ossia la separazione tra sé e il mondo, tra sé e sé.

Rammentando gli anni giovanili, in un’intervista rilasciata nel di­cembre del 1978 al giornalista colombiano Ben Amí Fihman, Cioran afferma:

Quando sono sprofondato in questo dramma, tutto ciò che avevo letto non mi serviva più a niente. Kant mi era inutile, come pure quasi tutti i filosofi. È in quel momento che mi sono rivolto un po’ verso la poesia… Ho abbandonato tutte le mie ambizioni “serie”, la carriera da professore di filosofia. Mi sono reso conto che questo non serviva a nulla… Perché la filosofia, se non aiuta, non ha alcun senso. Perché apprendere la filosofia? Essa non si appren­de. Ho capito che era falso e quindi mi sono distaccato da tutto quel mondo che avevo frequentato. Ma la poesia mi ha aiutato. Nei poeti si trovano delle esperienze profonde, non nei filosofi6.


Nel 1934, quindi, all’età di 23 anni, Cioran pubblica il suo primo libro, che contiene i concetti fondamentali della sua drammatica “visione del mondo” (angoscia, solitudine, morte). Il titolo è emblematico: Al culmine della disperazione. Si tratta di un volume che comprende brevi saggi in prosa, molto lirici. Cioran ricorre cioè ad un linguaggio “poetico”, “lirico” appunto, per esternare il malessere che vive, il disagio interiore, il conflitto psichico, il fuoco che brucia dentro. Tra l’altro, il primo paragrafo (e dunque l’incipit) di questo volume, s’intitola per l’appunto Essere lirici. Cosa intende Cioran con tale espressione?

Essere lirici significa non poter restare chiusi in se stessi. Tale bisogno di esteriorizzazione è tanto più imperioso quanto più il lirismo è interiore, profondo e concentrato. Perché l’uomo diventa lirico nella sofferenza e nell’amore? Perché entrambi questi stati, sebbene diversi per natura e orientamento, sorgono dal fondo più remoto dell’essere, dal centro sostanziale della soggettività, che è una sorta di zona di proiezione e di irraggiamento. Diventiamo lirici quando la vita dentro di noi palpita a un ritmo essenziale, e quando ciò che stiamo vivendo è talmente forte da sintetizzare il senso stesso della nostra personalità7.

Secondo Cioran vi sono esperienze al limite, “situazioni limite”, per dirla con Jaspers, esperienze che portano in alto (che ci mettono le ali) come l’amore o che invece ci trascinano in basso come il dolore. L’amore esalta la nostra interiorità e la nostra personalità e ci rende leggeri, predisposti a confrontarci con la vita e ad affrontare il mondo. Nell’amore, la coscienza non si sa scissa, ma integrata con la vita. L’amore sostiene Cioran è una “sorgente d’esistenza” (source d’existence)8. Il dolore invece rende muti e inchioda il corpo alla solitudine. Chi vive un sentimento di dolore vive con fatica il peso della vita.

Nelle sue opere, Cioran racconta dunque il dolore. Il dolore è ciò che viene detto, ciò che viene trascritto, ciò che viene raccontato. Il dolore è dunque il “fenomeno”, ciò che appare, ciò che si manifesta. Ma cosa c’è dietro? Cosa c’è dietro questo grido di dolore? Cosa c’è dietro la disperazione di Cioran? È possibile ipotizzare che dietro tanta sofferenza vi sia un bisogno d’amore, il desiderio di un abbraccio, la nostalgia di un amore passato, e che la scrittura sia un solo palliativo, una strategia di auto-difesa o un atto soggettivo di carattere psicoanalitico per resistere al trauma della propria solitudine? È possibile ipotizzare che Cioran viva “in conflitto con l’eros”9 e che tutta la sua produzione letteraria sia un modo per nascondere quella che lo psicanalista svizzero Peter Schellenbaum definisce «la ferita dei non amati»10?

In Cioran, questa ferita mai cicatrizzata di un’anima straziata, lacerata, graffiata, squarciata si tramuta, nel corso degli anni e al costo di una vita intera, nella scrittura dolorosa delle lacrime. Come vedremo, il desiderio assoluto dell’amore si converte in Cioran in preghiera, una preghiera insolente che accusa Dio, il “funesto demiurgo”, dell’“inconveniente di essere nati”, di aver vissuto una vita senza amore, inchiodata alla croce di una solitudine estrema. È lo stesso grido lanciato da Ungaretti ne La pietà: «Non ne posso più di stare murato / Nel desiderio senza amore. […] Sono stanco di urlare senza voce»11. Scrive infatti Cioran: «Quando ami con tutto te stesso, un amore inappagato non può condurti che al crollo. Le passioni grandi e impossibili portano alla morte più rapidamente delle gravi deficienze organiche. Perché se in queste ultime ci si consuma in un’agonia progressiva, nelle altre ci si spegne in un attimo»12.

In realtà, in tutte le opere rumene (Al culmine della disperazione del 1934, Il crepuscolo dei pensieri del 1936, Lacrime e santi del 1937, Il libro delle lusinghe del 1940), Cioran adotta questo pathos, questa scrittura “lirica”, dove l’io è messo a nudo, dove l’io si fa parola. A Cioran (quello del periodo rumeno) non interessa affatto lo stile e la forma della scrittura, perché dentro di sé avverte il ribollire di un magma incandescente (di un vuoto ontologico, strutturale) e la scrittura ha questa finalità terapeutica e catartica di esteriorizzare la crepa, la ferita, la lesione. Cioran lo capisce subito: un suo articolo giovanile dell’ottobre 1933 si intitola per l’appunto La scrittura come mezzo di liberazione 13.

Nei Quaderni scriverà: «Il vero scrittore non pensa né allo stile né alla letteratura: scrive e basta, vede cioè delle realtà, non delle parole»14. E ancora: «Sbagliano completamente quelli che mi attribuiscono o mi riconoscono uno ‘stile’. Io non ho stile, ho […] un ‘ritmo’. Un ritmo che corrisponde alla mia fisiologia, al mio essere; è la mia cadenza organica, il mio ansimare isterico che riesce a passare nelle frasi. Ma è sbagliato assimilare questa capacità di proiettarvi i miei moti interiori a uno ‘stile’ o a un qualsiasi talento. No, non ho né talento né stile, ho un tono cadenzato che deriva, fra l’altro, dal mio pressoché continuo stato di ansia»15.

Cioran quindi ha un unico obiettivo: scrive per guarirsi da questo “continuo stato di ansia”, che egli chiama cafard, per attenuare un sentimento di asfissiante e cronica solitudine: «Non trovare nella natura neanche un filo d’erba o un granello di sabbia con cui sentirsi solidale, ecco l’infinito rovesciato della solitudine»16. “Essere lirici” significa dunque attutire lo squarcio che si avverte dentro di sé e che è incomunicabile, ineffabile. Il lirismo è un bisogno, una necessità, per non esplodere, per non implodere. È il grido strozzato, l’urlo senza voce, il pianto soffocato in gola, le lacrime che gli bagnano gli occhi. Con Zweig, affermiamo che il lirismo (come la lirica) è «pensiero senza logica […] pensiero privo di coerenza, istinto e presentimento, sintesi fulminea e priva di regole, associazione e non concatenazione, melodia e non gerarchia»17.

Leggiamo ancora un passo tratto da una lettera giovanile e vediamo cosa Cioran scrive all’amico giornalista, di origine armena, Arșavir Acterian il 9 gennaio 1936:

Caro Arșavir,

nonostante siano passati un paio di mesi senza leggere alcun poeta, mai come ora avverto necessaria e confortante la loro presenza nel mondo. Mi muovo in una regione dove si incontrano religione e poesia; regione che sembra restare perennemente parallela alla terra. Dato che non ho avuto la fortuna di essere un poeta, ciò che mi resta è la consolazione di essere qualcuno da cui i poeti potrebbero imparare qualcosa. Ho il diritto di credere che la mia speranza non sia illusoria giacché, non avendo più nulla da imparare dagli uomini, i poeti, gli ultimi tra loro, avranno qualcosa da imparare da me18.

Quando Cioran scrive queste righe ha già pubblicato la sua opera prima Al culmine della disperazione. A questo testo seguiranno altri volumi tutti caratterizzati, da questo elemento lirico molto accentuato, dove Cioran parla in prima persona, parla di sé, del proprio stato d’animo, delle proprie emozioni e dei propri sentimenti. Questa è la differenza che intercorre tra i teorici dell’esistenzialismo contemporaneo (Heidegger, Jaspers, Sartre, Levinas, Nancy) e i pensatori esistenziali come Cioran, Pessoa, Stig Dagerman, Pär Lagerkvist, o il già citato Joë Bousquet.

Nel primo caso, nel caso della filosofia dell’esistenza, l’esistenza è ridotta a una categoria astratta che viene analizzata e descritta, quasi fosse un oggetto di esperienza e conoscenza possibile. Nel secondo caso, nel caso dei pensatori esistenziali, ci fermiamo più umilmente nell’ascolto della soggettività sofferente, nell’ascolto di un’esperienza singolare, specifica ed irripetibile.

Secondo Cioran infatti «solo quelli che non parlano che di se stessi, delle proprie esperienze e delle proprie vicissitudini rischiano di imbattersi in qualche verità e di fare scoperte significative. Lavorano su ciò che conoscono, e dunque necessariamente danno qualcosa agli altri. Non è il filosofo, ma il poeta a raggiungere l’universalità»19. Il poeta raggiunge l’universale, l’universalità, il generale. Ma il poeta non sta parlando di sé, cioè della sua singola “esperienza vissuta”? Come avviene questo passaggio dall’individuale all’universale, dal particolare al generale, dalla sfera della soggettività alla dimensione della intersoggettività? La risposta la ritroviamo sempre nel paragrafo Essere lirici, quando Cioran afferma che «le esperienze soggettive più profonde sono anche le più universali, perché in esse si tocca il fondo originario della vita. La vera interiorizzazione conduce a un’universalità inaccessibile a quanti restano alla superficie»20.

Una domanda sorge però ora spontanea: quali sono i poeti cui fa riferimento Cioran? Una volta che ha compreso che la filosofia non può aiutarlo a sconfiggere la noia e l’insonnia che lo affliggono, dove si rifugia il pensatore di Sibiu? In quale mondo o luogo o radura cerca riparo, refrigerio, dopo che è crollato il mito ambizioso, altezzoso, altero e tracotante della filosofia come “sapere assoluto” o “scienza rigorosa”?

Certamente un punto di riferimento costante è Baudelaire: «Solo Baudelaire ha provato l’ossessione dell’infelicità quanto me»21. Anzi scrive ancora Cioran, perentoriamente: «Baudelaire è la provvidenza dei vinti»22.

Così pure Rilke, che all’epoca della stesura di Lacrime e Santi, ricorderà «anteponevo a qualsiasi altro poeta»23.

Inoltre l’americana Emily Dickinson è, a suo dire, «una grandissima poetessa, immensa!»24. Proprio parlando della Dickinson, in un’intervista del 1985, Cioran afferma: «Prendiamo Emily Dickinson, che io ammiro, anzi venero. Parla in continuazione di se stessa. Il poeta oggettivo non esiste e non può esistere. L’‘io’ è onnipresente in ogni poesia»25. Inoltre: «Darei tutti i poeti per Emily Dickinson»26; anzi: «Sogno un sistema filosofico espresso in frasi succinte, alla Emily Dickinson»27.

Di grande importanza, secondo Cioran, sono poi anche i poeti inglesi. Lo confessa chiaramente nell’intervista concessa a Jason Weiss nel 1983: «Per me gli inglesi sono stati i più grandi poeti. […] Durante la guerra ho avuto una sorta di passione per Shelley, per l’uomo, di lui ho letto molto. Naturalmente ho letto Keats, che è un grande poeta. Ma anche Blake. E poi ho letto i poeti minori. Ma i poeti minori in Inghilterra sarebbero stati grandi poeti in un’altra cultura. A mio parere, gli inglesi non hanno una filosofia e una metafisica, perché la loro poesia ha sostituito la metafisica. Hanno detto tutto nella loro poesia»28.

Proprio parlando del suo amore per la poesia inglese, nei Quaderni, nell’agosto del 1970, Cioran riporta questa breve annotazione: «Improvvisamente penso a Strofe scritte nello sconforto, presso Napoli, la poesia di Shelley che riassume da sola molti anni della mia vita e, forse, la mia vita stessa. In un certo senso tutto il Sommario non è una variazione su questa poesia. Soltanto La preghiera di un Daco di Eminescu ha svolto per me un ruolo analogo»29.

In questo appunto succinto, Cioran non esprime un giudizio su questo o quel poeta, su questa o su quella determinata poesia. Cioran “assolutizza” perché sostiene che vi sono due poesie (in particolare) che sintetizzano in pieno la sua tragica visione del mondo. Egli si sente emotivamente legato a queste due liriche, che a suo dire esemplificano perfettamente, sul piano poetico, la sua filosofia. È come se queste due poesie fossero la cifra del suo pensiero, la sintesi perfetta e compiuta del suo lirismo filosofico30.

Cosa nominano tali poesie? Per quale motivo egli è così legato ad esse? Perché a distanza di anni affiorano ancora alla memoria? Nelle sue Strofe31, Shelley descrive una condizione esasperata di assoluta solitudine in riva al mare. La bellezza del mondo rappresenta per il poeta una promessa di felicità irrealizzata e irrealizzabile. È una dimensione altra, illusoria e inaccessibile, per chi è stretto nella morsa della propria solitudine. L’altro testo cui Cioran fa esplicito riferimento è il poema Preghiera di un Daco32 di Eminescu. Tale poesia è una preghiera, ma una preghiera blasfema, negativa, di accusa e di rivolta verso Dio.

Come è possibile notare, la riflessione “sul lirismo” in Cioran, ci ha condotto alla “preghiera”, perché scrive Cioran: «La poesia che si avvicina alla preghiera è superiore sia alla preghiera sia alla poesia»33. Poesia e preghiera nascono, secondo Cioran, dalla solitudine dell’uomo perché «sulla nostra fronte sta scritta la parola ‘solitudine’»34. Esse rappresentano l’ultimo rifugio, l’estremo appiglio per non soccombere sotto i duri colpi della vita. Nell’estrema condizione di sconfitta, quando mancano le forze per dire le parole, è il dolore stesso a gridare, in un grido struggente le ferite del tempo. Il dolore si converte così, parafrasando De André, in una «smisurata preghiera».

La poesia diviene preghiera rivolta ad un Dio assente, muto, che non esiste e che vorremmo esistesse per chiedergli ragione della sofferenza e del male nel mondo. La poesia nasce dalla disperazione e diviene implorazione, supplica, richiesta di Pietà (come in Ungaretti) o di misericordia (come in Preghiera in gennaio di De André). Secondo Cioran infatti, «la disperazione che non approda a Dio, che non vi cozza contro, non è vera disperazione»35; anzi, «la preghiera è il residuo della disperazione»36.

Ecco, Cioran è certamente uno dei maggiori rappresentanti di una “religiosità laica”, che attraversa come filo conduttore l’intera storia del pensiero e la storia della poesia. Cioran non ci ha lasciato poesie, ma ci ha lasciato una meravigliosa preghiera “arrogante”, la preghiera di un ateo, intensamente poetica e forse il punto più alto del suo lirismo filosofico:

Signore, datemi la facoltà di non pregare mai, risparmiatemi l’insania di qualsiasi adorazione, allontanate da me quella tentazione d’amore che mi consegnerebbe per sempre a voi. Possa stendersi il vuoto fra il mio cuore e il cielo! Non auspico affatto che i miei deserti siano popolati dalla vostra presenza, le mie notti tiranneggiate dalla vostra luce, le mie Siberie fuse sotto il vostro sole. Più solo di voi, voglio che le mie mani siano pure, al contrario delle vostre che si lordarono per sempre impastando la terra e immischiandosi nelle cose del mondo. Alla vostra insulsa onnipotenza non chiedo altro che il rispetto della mia solitudine e dei miei tormenti. Non so che farmene delle vostre parole; e temo la follia che me le farebbe udire. Dispensatemi il miracoloso raccoglimento che precedette il primo istante, la pace che non poteste tollerare e che vi incitò a praticare una breccia nel nulla per aprirvi questa fiera dei tempi, e per condannarmi così all’universo – all’umiliazione e alla vergogna di essere37.

1 E. M. Cioran, Quaderni 1957-1972, tr. it. di T. Turolla, Adelphi, Milano 2001, p. 1045.

2 Cfr. J. Bousquet, Da uno sguardo un altro, tr. it. di A. Marchetti, Panozzo Editore, Rimini 1987, pp. 37-47.

3 Per un inquadramento generale sulla vita, l’opera e il pensiero di Cioran si rinvia a: F. Rodda, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento, Mimesis, Milano 2006; A. Di Gennaro, Metafisica dell’addio. Studi su E. Cioran, Edizioni Aracne, Roma 2011; G. Liiceanu, Emil Cioran. Itinerari di una vita. L’Apocalisse secondo Cioran (ultima intervista filmata), a cura di A. Di Gennaro, tr. it. di F. Testa, Mimesis, Milano-Udine 2018; V. Fiore, Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia, Nulla Die, Piazza Armerina (En) 2018; B. Mattheus, Cioran. Ritratto di uno scettico estremo, tr. it. di C. Tatasciore, Lemma Press, Bergamo 2019.

4 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, tr. it. di M. A. Rigoni e T. Turolla, Adelphi, Milano 1996, pp. 207-209.

5 Id., Lettere al culmine della disperazione, a cura di G. Rotiroti, tr. it. di M. Salzillo, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 28.

6 Id., Ultimatum all’esistenza. Conversazioni e interviste [1949-1994], a cura di A. Di Gennaro, La scuola di Pitagora, Napoli 2020, p. 62.

7 Id., Al culmine della disperazione, tr. it. di F. Del Fabbro e C. Fantechi, Adelphi, Milano 1998, p. 25.

8 Id., Le livre des leurres, trad. du roumain par T. Bazin et G. Kleweck, Gallimard, Paris 1992, pp. 16-17.

9 Cfr. A. Di Gennaro, In conflitto con l’eros: amore e disperazione in Emil Cioran (Postfazione), in E. Cioran, Lettere al culmine della disperazione, cit., pp. 87-92. Si veda inoltre Id., Emil Cioran: coscienza, scissione amore, in Cioran in Italia, a cura di A. Di Gennaro e G. Molcsan, Aracne, Roma 2012, pp. 149-158, ed infine l’articolo online: Id., Emil Cioran e l’amore, https://zonadidisagio.wordpress.com/2018/06/06/emil-cioran-e-lamore/.

10 Cfr. P. Schellenbaum, La ferita dei non amati, tr. it di D. Besana, Red, Milano 2005.

11 G. Ungaretti, La pietà, in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1995, p. 169.

12 E. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 67.

13 Id., L’écriture comme moyen de libération, in Id., Solitude et destin, trad. du roumain par A. Paruit, Gallimard, Paris 2004, pp. 276-280.

14 Id., Quaderni 1957-1972, cit., p. 228.

15 Ivi, pp. 367-368.

16 Id., Divagazioni, tr. it. a cura di H. C. Cicortaş, Lindau, Torino 2016, p. 62.

17 S. Zweig, Verlaine, a cura di M. Massolongo, tr. it. di M. De Pascale, Castelvecchi, Roma 2015, p. 13.

18 E. Cioran, Opere, vol. 2 (Publicistică, Manuscrise, Corespondenţă), Ediţie îngrijită de Marin Diaconu, Introducere de E. Simion, Academia Română, Fundaţia Naţională pentru Ştiinţă şi Artă, Bucureşti 2012, p. 1088. Il carteggio intercorso tra Cioran e Arșavir Acterian è di prossima pubblicazione in traduzione italiana presso la casa editrice Mimesis, a cura mia.

19 Id., Quaderni 1957-1972, cit., p. 125.

20 Id., Al culmine della disperazione, cit., p. 17.

21 Id., Quaderni 1957-1972, cit., p. 325.

22 Ivi, p. 799.

23 Ivi, p. 1069.

24 Id., Un apolide metafisico. Conversazioni, tr. it. di T. Turolla, Adelphi, Milano 2004, p. 49.

25 Ivi, p. 177.

26 Id., Quaderni 1957-1972, cit., p. 38.

27 Ivi, p. 192.

28 Id., L’intellettuale senza patria (Intervista con Jason Weiss), a cura di A. Di Gennaro, tr. it. di P. Trillini, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 56.

29 Id., Quaderni 1957-1972, cit., p. 910.

30 Cfr. in merito: A. Di Gennaro, Emil Cioran: poesia e preghiera (Appendice), in E. Cioran, Il nulla. Lettere a Marin Mincu (1987-1989), a cura di G. Rotiroti, Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 81-90.

31 P. B. Shelley, Strofe scritte nello sconforto, presso Napoli, in Id., Alla notte e altre poesie, tr. it. di G. Palmery, Il Labirinto, Roma 2002, pp. 12-17.

32 M. Eminescu, La preghiera di un Daco, in Id., Poesie/ Poezii, a cura di M. Mincu, tr. it. di S Albisani, Pontica, Constanţa 2000, p. 106.

33 E. M. Cioran, Quaderni 1957-1972, cit., p. 517.

34 Id., Breviario dei vinti II (70 frammenti inediti), traduzione e cura di C. Fantechi, Voland, Roma 2016, p. 20.

35 Id., Quaderni 1957-1972, cit., p. 631.

36 Ivi, p. 799.

37 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., pp. 116-117. Per un approfondimento sulla concezione di Cioran sulla preghiera si rinvia a: A. Di Gennaro, Tra invocazione e bestemmia: così prega Emil Cioran, in Dio e il Nulla. La religiosità atea di Emil Cioran, a cura di A. Di Gennaro e P. Giustiniani, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 41-57.

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