"Le origini" di Reiner Schürmann
In uno dei suoi romanzi meno conosciuti, Joseph Roth scrive: «Io so soltanto che non è stata, come si dice, la “inquietudine” a spingermi, ma al contrario – una assoluta quiete. Non ho nulla da perdere. Non sono né coraggioso né curioso di avventure. Un vento mi spinge, e non temo di andare a fondo» (Fuga senza fine. Una storia vera, Adelphi Milano 2015, p. 58.). Queste parole sono attribuite ad una lettera che il protagonista del romanzo, Franz Tunda, scrive all’autore stesso. Sono parole forti, astratte rispetto alla narrazione che precede e che segue; se vogliamo, con la vicenda stessa di Tunda, queste frasi hanno poco a che fare. Eppure, le parole arricchiscono la trama del libro di una luce che ne mostra i risvolti, i chiaro-oscuri, il senso ulteriore. La luce poetica che le parole di un romanziere esprimono non sono accessori di un racconto altrimenti giornalistico; piuttosto, queste stesse frasi avvolgono la “trama”, dischiudendone la radicalità, facendo di una storia qualsiasi una “roba” da romanzo. Ogni romanziere fa questo: racconta una storia e, nel farlo, illumina le radici dell’esistenza che il racconto attraversa.
Qual è il volto di un’esistenza in cui un vento spinge e colui che è trapassato da questo vento non teme di andare a fondo? Forse, con un po’ di immaginazione, potremmo dipingerlo così: smagrito, smunto addirittura, allungato, con il naso appuntito, degli occhi vispi, e dei denti “da castoro” a coronare un ampio sorriso. È la descrizione più banale e più ovvia possibile di un filosofo tedesco del secolo scorso. Un nome: Reiner Schürmann. Ma perché mai questa avventurosa associazione, Tunda-Schürmann o addirittura Roth-Schürmann?
Pochi mesi fa è uscita in Italia la traduzione del romanzo autobiografico di Reiner Schürmann, intitolato Les Origines e pubblicato per la prima volta in Francia nel 1976 (Le origini, Edizioni Efesto, Roma 2020, pp. 288). Tradotto da Ferruccio Scabbia, amico personale dell’autore, e curato da Francesco Guercio (sua l’ottima introduzione), curatore delle lezioni di Schürmann alla New School for Social Research, il racconto è una grande tentativo da parte di Schürmann di mettere a fuoco il proprio passato. In particolare, ciò che assilla Schürmann sono le sue radici tedesche. Nato nel 1943 in Germania, Schürmann si sente responsabile e, al contempo, impotente rispetto alle atrocità del nazismo. Il racconto si snoda lungo otto capitoli nei quali è messa al centro la questione del passato, della memoria e delle origini. Il primo rapporto che Schürmann intrattiene con il suo passato è caratterizzato dalla fuga. Il primo tipo di fuga è linguistico: l’autore si rifiuta di scrivere nella sua lingua madre, il tedesco: «Hanno insozzato la mia lingua» (p.102) scrive, come se il rifiuto di utilizzare il tedesco per i suoi scritti fosse dettato da un’esigenza improrogabile. La seconda fuga che Schürmann mette in atto è quella che conduce dal proprio nome, marchiato dall’origine familiare, all’uso dei pronomi “io” e “tu”. Reiner Schürmann nel libro non è presente, letteralmente. Il suo nome viene taciuto. Come scrive giustamente Guercio, non è casuale che
Il soggetto che nel libro si racconta, non assuma d’altronde nel libro altra identità se non quella anonima dei pronomi “io” e “tu”. Un’identità differente e differita, sganciata dal proprio nome, e dal nome proprio, “Reiner” - un nome che lega indissolubilmente al nome di famiglia, al nome del padre, “Schürmann” - inchiodando la singolarità delle sue origini, al suo nome, e quindi alle origini del suo nome, nel nome Reiner Schürmann (p. xvi).
La fuga dell’autore dal suo passato viene esplicitata attraverso l’eclissi del suo nome dal racconto. Il nome infatti agisce da “marchio”, e costringerebbe l’autore a riconoscere la sua origine: la Germania nazista, di cui il padre era stato collaboratore. Oltre alla dimensione linguistico-formale, la fuga raccontata è anche geografica: Creta, Ginevra, Parigi, Haifa, il ritorno in Germania, Berlino, Mosca e, infine, gli Stati Uniti; il pensatore si racconta nelle sue peregrinazioni di città in città.
Ma la fuga è anche, quasi metafisicamente, «il primo riflesso della mia vita cosciente: tagliare la corda» (p.19). La fuga è il primo volto che assume il rapporto di Schürmann con il proprio passato. Essa rappresenta la tentazione di cancellare la propria provenienza scappandovi indefinitamente. Una fuga “nevrotica” che non vuole lasciare spazio al passato, alla storia e alle proprie origini, vera dannazione: «Ecco la vera sconfitta: avere delle origini» (p. 70). Cancellare il proprio passato si rivela però impossibile, la propria storia e le proprie origini tornano in continuazione. Gli esempi a tal proposito sono moltissimi: Schürmann, in ogni luogo, da Creta a Washington, incontra l’ostilità di chi i tedeschi li ha combattuti e che non perdono l’occasione di rinfacciargli le sue origini, inchiodandolo al suo passato. Come quando tenta di concorrere per una cattedra di filosofia tedesca, in un congresso a Washington, e si sente rispondere da colui che conduce il colloquio (tra il delirio e l’effettiva realtà): «Se ne torni a casa! […] È fatica sprecata. L’America, intendo, per lei. […] Ci serve un professore di filosofia tedesca. Ma non dev’essere Tedesco» (p. 200).
Oltre alla fuga, il tentativo di fare i conti con la propria storia si cristallizza anche in un’altra forma. Ad un tratto della sua vita, Schürmann crede infatti di essere in grado di poter accordarsi armonicamente con la propria appartenenza «a una stirpe di torturatori» (p. 182). Alla ricerca di un’esperienza catartica, Schürmann si reca nei pressi di Haifa, in un kibbutz. Al dimenticare le origini attraverso la fuga, Schürmann cerca così di sostituire una sorta di redenzione riappacificante. In Israele, il filosofo viene sedotto dall’idea di poter redimere il proprio passato, le proprie dannate radici, le proprie origini, e si convince di poter costruire una storia nella quale tedeschi ed ebrei possano convivere affianco l’uno dell’altro. Ma, come la fuga, anche la diretta riconciliazione con gli ebrei fallisce malamente e Schürmann è costretto a riprendere le sue peregrinazioni.
Ciò che però emerge, come un vero e proprio leitmotiv, lungo tutto il racconto, è una possibile via di uscita, che emerge tra le righe, confusa alla disperazione e alla gioia di una vita che si sta facendo: né dimenticare, né cancellare, né redimere, il passato va abbandonato:
che non vuol dire dimenticare ciò che non può essere dimenticato. E nemmeno: passar sopra al sangue versato. Sono stato preso dentro, mani, testa, tutto, in questa Storia sanguinaria. Non pretendo che cominci una nuova era. So fin troppo bene quanto fetida sarebbe. Nessun domani, solo un presente fastoso e spumeggiante. Da poter guardare l’ingiusto passato dritto negli occhi, senza farmi prendere dalle vertigini (p. 201).
Nel confronto con la sua storia, Schürmann arriva a comprendere di essere inscritto in un «presente fastoso e spumeggiante», dal quale egli può osservare con il necessario distacco le origini della sua esistenza. Questo atteggiamento nei confronti del passato viene articolato da Schürmann nei termini di un “lasciare” e di un fondamentale dispossessamento: «Niente c’è da riparare e da rifare. Lasciare. Non nel senso di abbandonare. Lasciare che tutto sia. Non fare man bassa, né del passato, né delle immagini. L’origine non si rivela. A meno di disimparare il possesso» (p. 87). Né fuga dal passato né riconciliazione, ma lasciare essere: dare «a ogni cosa, nel presente, il peso che gli conviene» (Intervista su Le origini, La croix, Parigi 30 settembre 1977. Ora reperibile in traduzione all’indirizzo link https://quieora.ink/?p=4463, 09 novembre 2020)
Le origini vengono superate, a favore di una potenza unica, e ulteriore: «E se – le origini – arabe, ebraiche, tedesche – non contassero niente? Se sola esistesse la presenza? Devo reimparare a vedere, assolutamente. Se fosse una sola, l’origine?» (p. 60) e ancora
Ho percorso la mia vita a ritroso. Arrivo distrutto, ma ho visto. Ho demolito il passato, a niente devo più dare nome. Adesso, che la vita mi viva. Ho conosciuto l’origine al di là delle origini. Arrivato a destinazione. Lo zenit. Ora so che un’esistenza, per quanto inaccettabile, può essere accettata (p. 227).
Fare i conti con il proprio passato, il cammino che racconta la fuga della sua vita, conduce Schürmann alla quiete del distacco; non la quiete dell’asceta, ma la quiete di colui che spinto da un vento di libertà attraversa le turbolenze della vita esperendole fino all’ultimo respiro.
Quando arriva a Washington, Schürmann è finalmente libero. Gli Stati Uniti non sono il luogo che il filosofo tedesco assume per costruirsi un’altra vita, un’altra maglia originaria dentro cui doversi collocare. Il filosofo non cerca una seconda identità. Washington, e poi New York, non sono una nuova origine, attraverso la quale la propria origine tedesca possa essere dimenticata. Piuttosto, in America del Nord, Schürmann riesce a trasformare una fuga “nevrotica” ed ossessiva in un cammino errante, gioioso e contento della propria assenza di origini: «Dopo un tempo di fuga, di ricerca vana di un’origine unica, certa – un fondo di cose che sarebbero stabili, come se potesse esistere una cosa del genere! – ho scoperto questo alla fine: è nell’assenza di un’identità stabile, in questa dislocazione, che bisogna situare la gioia. Lasciar essere è una gioia errante» (R. SCHÜRMANN, Intervista su Le origini, cit.).
Tuttavia, Le origini non sono solamente un racconto “teorico”, anzi. Certo, è facile leggerlo così e anche noi abbiamo ceduto a tale tentazione; ma Le origini è prima di tutto un romanzo fatto di piccoli eventi, storielle, racconti che s’intrecciano nella biografia che lo stesso autore si dipinge. Prima fattosi prete, poi insegnante alla New School for social Research e compagno di Louis, artista canadese (con cui non disdegna le dissoluzioni della carne), Reiner Schürmann è un uomo complesso, dinamico, contraddittorio, gioiosamente tragico. E il racconto rispecchia il carattere drammatico e gaio della sua vita. Attraverso una scrittura concisa di frasi brevi, che alternano il racconto alla riflessione, la descrizione “oggettiva” alla metafora poetica, la gioia della scoperta all’angoscia della memoria, Schürmann conduce il lettore in un mondo crudo e frastagliato, duro fino all’eccesso, in cui il disgusto e il terrore serpeggiano ad ogni piè sospinto, e che non vengono mai del tutto eliminati ma sempre accompagnati da una felicità intrinseca all’esistenza.
La morte, il sesso, la questione sociale (come vivere con “gli altri”?), la memoria, il nazismo: il romanzo attraversa questi e altri temi. attraverso il punto di vista situato di un uomo che sta vivendo la sua vita. Così troveremo pagine che raccontano l’emozione di una scopata; terribili immagini di una partita di calcetto giocata con un bimbo vivo; dei nazisti che rievocano Hitler in America; delle voci che salgono lievi da un’isola sperduta della Grecia; un ragazzino rifiutato “perché ebreo”; una farmacia con un padrone razzista e altro ancora.
Le origini è un racconto astratto, che letto a posteriori (dopo le due grandi opere di Schürmann, Le principe d’anarchie. Heidegger et la question dell’agir e Hégémonies Brisées) fa parte a degno titolo dell’opera filosofica di Schürmann. Questo romanzo illustra, spiega, definisce, svela il percorso filosofico-pratico di Schürmann. Eppure non si limita a questo. Le origini non è un trattato di filosofia, è la filosofia fatta carne e sangue, la carne e il sangue fatti filosofia: è un racconto che oscilla, transitando, tra due mondi apparentemente così distanti e, di fatto, li unisce. Le origini annulla la sacra distinzione che giace al fondo della metafisica dall’alba dei tempi: quella tra teoria e pratica, tra la vita che vive e la filosofia che la descrive. Annulla teoria e pratica, passato e futuro, inizio e comando, e li annulla in un unico soffio che è quello di una vita in cui non dominano altro che la libertà peregrinante (“una libertà che si libera”, dirà altrove) delle esistenze che la abitano: l’unico mondo vero è il mondo che si sta facendo, senza alcun fondamento esterno, senza nessun comando, senza più alcun dominio (passato, nazista, geografico, linguistico o qualsiasi altra forma esso possa assumere).