L’Avvenire Del Materialismo: intervista a Catherine Malabou

Catherine Malabou è una filosofa  allieva di Jacques Derrida e influente nel dibattito francese contemporaneo. La sua riflessione è un materialismo che segue i più recenti sviluppi delle neuroscienze e della biologia e che articola una critica al pensiero della Differenza del suo Maestro. Per superare le tesi ancora ‘dualiste’ dello Strutturalismo bisognerebbe rinunciare a un rapporto ‘archeologico’ e fondazionalistico tra scienza e filosofia, e pensare un rapporto di scambio reciproco;tuttavia senza rinunciare a fissare un ‘trascendentale’. Per Malabou, qui portata in traduzione, va pensato un rapporto positivo con la tecnica, che non è solo volta alla manipolazione e strumentalizzazione degli esseri viventi, ma possiede anche  possibilità di emancipazione e di resistenza.

Articolo originariamente apparso su Global Performance Studies, Vol.2,no.2,2019, https://gps.psi-web.org/issue-2-2/gps-2-2-8/

A cura e traduzione di Lorenzo Esposito 

SORELLE HENRICUS (SH): A partire dal tuo primo libro, dunque da ormai più vent’anni, affianco alla filosofia continentale, hai preso in considerazione tesi importanti  della scienza contemporanea. Ribadisci continuamente che una filosofia critica debba prendere in considerazione integralmente le scoperte scientifiche.  In questo modo, la tua opera ha dimostrato un metodo consistente – attraverso le letture di Hegel, Kant e altri pensatori più recenti- verso l’attuale filosofia e scienza, in particolare la biologia. La tua recente considerazione sul fenomeno “epigenetico” amplia la tua considerazione; dal pensare un organo (il cervello) a pensare il processo di vita biologica in generale. Potresti elaborare sull’imperativo di  pensare in modo serio sulla scienza contemporanea dalla prospettiva continentale e forse persino per essa? Voglio portarti a elaborare su questo tema dato che hai addirittura espresso che questa è una questione di sopravvivenza per la tradizione della filosofia continentale.

Catherine Malabou(CM): Innanzitutto devo sviluppare una breve  autobiografia intellettuale  per rispondere a questa difficile domanda. Ho scritto la mia tesi di dottorato sotto supervisione di Jacques Derrida. Dalla metà degli anni ottanta fino a metà anni novanta (ho discusso la mia tesi nel 1994), ho seguito il lavoro di Derrida molto attentamente e ho percorso il cammino filosofico che egli aprì così poderosamente: la  decostruzione. Eppure, intorno al 1990,ho iniziato a notare che nel suo modo di pensiero stava avvenendo una trasformazione radicale. Molti suoi discepoli hanno ribadito che  questo cambiamento non possa essere ricondotto a una svolta teologica. Tuttavia, io ritengo proprio che lo sia. Temi come la messianicità, l’indecostruttibile, il totalmente altro, eccetera, iniziarono a comparire, e io dapprima segretamente e poi più apertamente, iniziai a essere dubbiosa sullo scopo della decostruzione. Ai suoi esordi, la “grammatologia” fu presentata come una nuova scienza. La Grammatologia doveva rimpiazzare la semiologia di Saussure, e Derrida la caratterizzò, in Della Grammatologia(1977), come una “scienza positiva”. Una tale scienza non vedette mai la luce del giorno, e il progetto della sua elaborazione fu abbandonato. L’opera di Derrida divenne sempre più rivolta alla letteratura, a complessi problemi aporetici, discorsi interminabili sulla impossibilità di tutte le possibilità, e finalmente verso le questioni mistiche che ho menzionato. A un certo punto, mi apparse chiaro che non potevo andare oltre su questo cammino. Qualcosa in me cominciò a resistergli; chiamiamola la mia razionalità. Forse questo non è un concetto decostruttivo/decostruito, ma non importa. Amo questa parola, “razionalità”. Penso, e lo farò sempre, che nessuna filosofia è possibile fuori dalla razionalità anche se essa ha bisogno di una critica costante. Come sappiamo da Kant, il dialogo tra razionalità e critica è costitutivo alla stessa attività della ragione.

Intorno al medesimo periodo che iniziai ad avere quei dubbi, cominciai a leggere sul cervello e quella che è conosciuta come “rivoluzione neurobiologica”, come la chiama Jean-Pierre Changeux, ovvero la svolta di paradigma introdotta dalla scoperta della neuroplasticità. Da quel momento, non ho mai smesso di valutare le conseguenze di un tale cambio di paradigma per la filosofia. Dopo il mio primo libro Che cosa fare del nostro cervello?(2004), ho continuato a pormi domande sulle implicazioni dell’attività cerebrale nelle teorie della mente e nelle teorie della vita psichica. Questo ha portato alla scrittura di altri libri (Ontologia dell’accidente, Les nouveaux blessés).Più tardi, ho esteso il mio campo d’interesse alla biologia molecolare e in particolare alla epigenetica. Questo ha formato il cuore del mio nuovo libro Before tomorrow: epigenesis and rationality, dove argomento, contro il realismo speculativo, che la visione trascendentale nelle scienze (in particolare biologica) non è incompatibile con una visione del mondo come altamente contingente. Come saprai, il realismo speculativo asserisce che il mondo è costantemente modificabile, che la necessità fisica non esiste, e che Kant argomenta in suo favore solo per dogmatismo infondato. Invece, per me, il trascendentale, che è in Kant  la struttura fondamentale della razionalità, non implica nessun limite alla plasticità del mondo, al contrario, ne consente l’accesso. Kant definisce il compito della sua terza Critica, Del Giudizio,come l’elaborazione della “legalità del contingente”. Legalità del contingente: questa potrebbe essere una perfetta definizione in generale della scienza.

Tornando alla tua domanda: la filosofia continentale deve certamente riesaminare la propria relazione con la ricerca scientifica contemporanea. E ciò non solo con le matematiche ma anche con la fisica, la biologia, e anche la geologia (cfr.l’Antropocene) e con le scienze umane come l’antropologia, archeologia (cfr archeologia cognitiva), psicologia, linguistica, per fare alcuni esempi.

In un’epoca in cui la mente, la psiche, l’organismo si trovano a essere ridefinite e rielaborate fondamentalmente,come potrebbe la filosofia rimanere indifferente a una rivoluzione che è innanzitutto filosofica?.Sono sempre sorpresa dall’assenza di curiosità verso le ricerche cerebrali da parte di così tanti miei colleghi, dalla loro ignoranza delle più recenti messe in questioni del determinismo genetico da parte della biologia, o delle nozioni di codice o programma. Il famigerato concetto di “biopolitica” poggia le proprie basi su una vetusta concezione della biologia… 

SH: Il tuo indicare  come le tematiche legate a quelle che oggi chiamiamo “scienze della vita” siano già presenti all’interno del canone filosofico suggerisce una correlazione tra i modi del “pensare la natura” e “pensare il pensiero” che risale addirittura ad Aristotele. Dalla “plasticità” fino  alla “epigenesi” la tua opera sembra dire, “Guardate! è già tutto qui nei vecchi testi della tradizione Occidentale. Non buttiamo il bambino con l’acqua sporca restando a pensare  al giorno d’oggi solo all’interno del nostro settore, e rimanendo ancorati alle nostre modalità prestabilite”. Proseguendo questo ragionamento quali pensi siano le ulteriori implicazioni per le distinzioni presenti attualmente tra “scienza” e “filosofia”(e le infinite varianti e aspetti enfatizzati all’interno delle discipline stesse)?

CM:Ovviamente quel che ho detto della sconcertante noncuranza della filosofia continentale dalle scienze è,generalmente parlando, vera anche viceversa. Stiamo assistendo a un forte ritorno del positivismo all’interno del settore scientifico. In Francia, ad esempio, molti scienziati cognitivi rifiutano qualsiasi ricorso alla filosofia per determinare cosa sia la coscienza. Sostengono che la filosofia riguardi soltanto enunciati metafisici e che non servono a niente per comprendere la percezione, la memoria la vita cosciente in generale. Secondo loro, nonostante tutte le imprese critiche  decostruttive, la filosofia è rimasta intrappolata in una visione Cartesiana dell’ego come sostanza, e della coscienza come un punto assoluto di distacco da tutte le intellettuali e persino sensoriali. La situazione nei dipartimenti di scienza è assolutamente drammatica, in quanto non include nessuna preparazione filosofica. Di nuovo in Francia, gli studenti di medicina seguono un percorso di studi di undici anni senza una solo esame di epistemologia o filosofia. Hanno solo una scarna formazione in etica praticamente ridotta all’osso. I neurobiologi a volte si riferiscono alla filosofia ma sempre di stampo analitico. Per questo sembra più che importante ricordare agli scienziati di tutti i campi che le categorie biologiche sono state per prima elaborate dai filosofi della Grecia antica.

L’Epigenesi è un ottimo esempio. Fu usata per la prima volta dalla tradizione Aristotelica per indicare la variabilità della prole, e lo sviluppo dell’individuo vivente, ciò che noi oggi chiamiamo ontogenesi. Descartes stesso era un grande pensatore del cervello. Al contrario della visione volgare che in troppi hanno di lui, la sua teoria delle passioni anticipa la neurobiologia contemporanea. È vero che Cartesio afferma l’esistenza della mente e del corpo come di due sostanze o realtà separate. Ma sarebbe un grave errore limitare il discorso di Descartes a questo dualismo. In Les Passions de l'âme,spiega chiaramente che le passioni sono ciò che fonda l’unità della mente e del corpo attraverso l’attività cerebrale. In seguito evidenzia che senza il cervello, la mente non sarebbe interessata a sopravvivere. In un certo senso, senza il cervello, la mente e il corpo morirebbero entrambi  nella loro autonomia, separati e senza reciproco interesse. Non dobbiamo dimenticarci che  per Descartes l’unita della mente e del corpo è  grazie a una terza sostanza che è tenuta in vita grazie all’attività cerebrale.

Se i discorsi scientifici continueranno a ignorare le fonti filosofiche della propria concettualità e del modo di impostare i problemi, ciò avrà conseguenze anche sulle soluzioni date a questi ultimi. Ovviamente, gli scienziati possono rispondere che a loro non interessa la filosofia: i loro libri vendono bene, il pubblico ha fede in loro, possono rimanere perfettamente ciechi e sordi a problematiche filosofiche. Ma verranno colpiti da questo atteggiamento  nella misura in cui non saranno in grado di risolvere i problemi che presuppongono di potere risolvere con le loro sole forze. Per fare un esempio, malgrado enormi progressi, i neurobiologi non riescono ancora a curare la depressione. Il Prozac non basta. Per non parlare delle malattie neurologiche. Penso che la filosofia, anche se non è infusa con qualche magico potere terapeutico, è assolutamente necessaria per aiutare a elaborare un approccio alla psiche che non si basi unicamente su antidepressivi e agenti chimici. Le persone dovrebbero diventare consapevoli del fatto che la scienza in realtà progredisce senza progredire. Intendo che le tecnologie stanno migliorano, nuove scoperte vengono fatte, ma c’è un ovvia paralisi dei risultati. Ad esempio, le persone oggi vivono più a lungo grazie ai progressi scientifici. Ma cos’è la vecchiaia? Come trattare le personalità  dipendenti? E i pazienti di Alzheimer?  Dove e quali sono le risposte scientifiche a queste domande.

SH: I concetti che hai citato, l’epigenesi, la plasticità, eccetera, appaiono chiaramente come concetti interdisciplinari che mostrano un antico e consolidato intreccio tra scienza e filosofia. Questi concetti dovrebbero essere indicativi di cosa andrebbe sviluppato in futuro: una nuova collaborazione tra i ricercatori di questi diversi campi. E, ribadisco, non per la sola bellezza del gesto, ma al contrario per una maggiore efficienza nei processi di problem-solving.

Questo mi porta alla domanda sul futuro e del “domani”,il tema del tuo libro più recente. Come hai evidenziato, esiste una lunga storia di coabitazione tra gli approcci del “pensare la natura” - in quella che oggi chiamiamo “scienza” e “filosofia” - che sono spesso elise per via del modo di pensare la conoscenza Categoricamente. Tuttavia,suggerisci che i tentativi di fare i conti con queste categorie attraverso gesti che,nelle tue parole,“rinnegano il trascendentale” non si prospettano come le vie più feconde da percorrere. Potresti argomentare una prospettiva più ampia sul “momento” nel quale si trova attualmente la filosofia? Ad esempio, nella tua mappa della rilevanza di certi idee della tradizione continentali dimostri come, nonostante tentativi che durano addirittura secoli, nessuno ne è stato capace. Movimenti come il realismo speculativo e il nuovo materialismo, che hai preso molto seriamente nei tuo lavori recenti, potrebbero essere letti come sintomi del cammino della conoscenza nel ventunesimo secolo?

CM: Rendo chiaro, in After Tomorrow, perché io non segua la strada di Quentin Meillassoux in Dopo la Finitudine. Prima che spieghi perché non mi consideri un realista speculativo, permettimi di ribadire che nessuna dottrina filosofica sarà mai “capace” di elaborare una visione del mondo universale, consensuale e moralmente convincente  per una la vasta maggioranza della popolazione di tutto il mondo. Ci sono e per sempre ci saranno diverse filosofie emergenti in uno stesso periodo, spesso in competizione reciproca. La domanda non è dunque come ridurre la pluralità, ma come pensare filosoficamente la pluralità delle filosofie. Negatività,scetticismo e pensiero dialettico sono intrinseche alla filosofia. Questo non per dire che la filosofia sia aporetica e non porti da nessuna parte, ma che filosofia voglia dire dialogo. La filosofia è l’apertura del senso come dialogo. Tutto inizia con una diade. Parlare vuol sempre significare un rispondere. La prima espressione è sempre una risposta, anche quando non c’è domanda. Se c’è qualcosa come una domanda, essa viene da una risposta. La Filosofia è la risposta all’assenza di una domanda originaria. È per questo che, paradossalmente, la filosofia è essenzialmente un percorso di domande.

Partendo da questi presupposti, direi che il realismo speculativo non si sottrae a questa situazione generale. È una tendenza filosofica come qualunque altra, nato da un dialogo con altre tendenze. Verrà anch’esso contestato al suo tempo. In secondo luogo, vorrei ribadire che le scienze non sono così differenti dalla filosofia quando si tratta dell’origine delle loro inchieste. C’è una grande tradizione epistemologica,in Francia, guidata da Gaston Bachelard, che insiste sul carattere dialettico della storia delle scienze. Ogni scoperta scientifica è una risposta, una rispossta negativa: dice “no” per cominciare (vedi Philosophie du Non di Gaston Bachelard.

Il carattere dialogico del pensiero è paradossalmente l’unica via di andare avanti. E c’è veramente progresso filosofico. Il realismo speculativo è progresso nella misura in cui permette una revisione estremamente utile e potente del criticismo. Ma di nuovo, questo non vuol dire che il realismo speculativo sia la filosofia definitiva.

Il mio problema con esso inizia quando afferma arrogantemente che tutte le filosofie passate sono state modalità del “correlazionismo”, ovvero, della relazione soggetto-oggetto. Il “Reale” è ciò che si sottrae a una tale correlazione e sarebbe indifferente a qualsiasi approccio soggettivo. Innanzitutto, non credo che alcuna filosofia della tradizione continentale sia riducibile al correlazionismo. In secondo luogo, ci sarebbe da chiedere quale sia il valore politico e sociale di un tale “reale”, il cui legame con il reale della tradizione Lacaniana o Marxista non è mai interrogato. Come se il realismo speculativo avesse inventato il concetto del reale.

SH: Se anche riuscissimo a convincere la “filosofia continentale” a prendere la scienza contemporanea e le sue scoperte seriamente ( via da te ), quali strategie si possono implementare,oggi, per  o intervenire nei saperi ? Per guidarli verso il futuro? Intendo, ad esempio nella genetica, che nonostante la recente diffusione presso gli scienziati contemporanei dei principi della epigenetica, l mondo della ricerca va avanti a testa dritta con le proprie priorità e obbiettivi – l’editing genomico è il più recente tentativo di reificare il Genetico come “codice”. Questa è ormai una domanda classica nel pensiero continentale, ma la chiedo comunque. In questo clima – con il progresso dell’industrializzazione della produzione dei  saperi e delle pratiche nella scienza e non solo, la diminuzione in molti luoghi delle “discipline umanistiche” veramente critiche all’interno delle università, e la spinta verso una “interdisciplinarità” pensata in modo che gli studi umanistici diventino una risorsa rivolta a  una  industria basata sulla  tecnologia e guidata dal capitale, qual è il ruolo del pensiero continentale nel clima del sapere attuale? Esiste un posto per un pensiero critico affianco e insieme alle scienze al di là di una certa performatività della conoscenza presente sia nella filosofia che la scienza contemporanee?  

CM: Appare chiaro –come rimanerne ciechi? - che lo spazio, il budget e l’importanza delegate alle Discipline Umanistiche stia diminuendo ovunque. È un fenomeno globale. Nella mia università, Kingston University nel Regno Unito, sta avvenendo un “piano di riallineamento”. Nessuno sa con certezza cosa voglia dire, eccetto il fatto che tutto i dipartimenti che si occupano di teoria critica vengono compromessi. Il motivo di tutto ciò  è chiaramente di cancellare qualunque possibile contestazione e messa in questione delle attuali politiche e dell’ultra-liberalismo (anche “neo” è troppo debole segnalare quello che sta succedendo). Hai ragione a dire che la cultura, l’insegnamento*, e le competenze sono guidate gal capitale. La teoria critica viene considerata improduttiva. Il che è,ovviamente, una bugia. È vero che ci sono pochi lavori nelle Scienze Umane. Ma ce ne sono così tanti di più nelle scienze? O in Giurisprudenza? Darebbe interessante sapere il rapporto tra studenti iscritti ed esiti professionali. I giovani vengono scoraggiati dallo studiare storia o filosofia sotto falsi pretesti. Tutti i dottori che ho seguito hanno lavori. Tutti quanti. Sono accademici, giornalisti, critici d’arte o direttori di galleria. La filosofia è una disciplina che apre al mondo, sviluppa la curiosità e l'audacia, e e dà l’impeto alla creazione. Questo va detto e ribadito. La filosofia permette di trovare il proprio posto nel mondo, professionalmente, simbolicamente, intellettualmente. Intendo gli studi filosofici, non quegli stupidi eventi di “filosofia popolare”, come i “caffè filò” o le “Notte delle idee” o che altro. No, intendo la filosofia basata sulla lettura dei testi, il ragionamento, pensando e leggendo il canone.

Allo stesso tempo, non penso che la filosofia e la teoria critica debbano svilupparsi solo nell’accademia. È senza dubbio estremamente importante, ma non può essere il solo Lebensraum,o spazio vitale, per il pensiero critico. Clandestinità, diaspore geografiche, velatezza e segretezza sono sempre state condizioni di possibilità per il pensiero filosofico. A giorno d’oggi,molti eventi filosofici importanti,nuovi trend, libri all’avanguardia, nascono fuori dall’ambiente universitario, scritti e organizzati da giovani con ben poco denaro. La filosofia accade negli interstizi del potere e delle istituzioni ben consolidate. È presente una dialettica tra le modalità pubbliche e private del filosofare. La situazione attuale è preoccupante. Ma, allo stesso tempo, è una grande sfida. Forse è proprio quando tutto è così buio che nuovi concetti e pensieri liberatori possono emergere. È risaputo che crisi, lo stesso concetto di crisi, è la radice etimologica della parola critica.

Per rispondere all’ultima parte della tua domanda, non penso che si debba scrivere una nuova versione della Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Husserl! In quel grandissimo testo, Husserl afferma che la filosofia debba procurare  un nuovo fondamento al sapere scientifico. Dopo Descartes e Kant, che han lavorato nella stessa direzione, c’è bisogno di un fondamento ancora più stabile per il sapere scientifico, e questo sarebbe il compito della fenomenologia. Un tale fondamento è trovato da Husserl nell’ego trascendentale, l’ego nella sua quasi-purezza, una purezza che né Descartes né Kant riuscirono a trovare. Sicuramente, la filosofia oggi ha abbandonato, per buone ragioni, questa fantasia del fondamento. Nessuno pensa più che queste siano le radici sulle quali possa svilupparsi la scienza. Detto questo, la scienza non può a sua volta essere fondamento della filosofia. Oggi però sembra che stia avvenendo proprio questa inversione del rapporto di fondazione. Piuttosto che dedicarsi a questo giochetto insensato, bisognerebbe lavorare verso un dialogo,comune e dialettico, tra scienza e filosofia, emancipati da qualunque ricerca di un fondamento archeologico e invece orientati verso la questione decisiva sul divenire dell’umanità, in particolare nel suo rapporto col non-umano...

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