L'arte della guerra

Il terribile conflitto israelo-palestinese si sta avvalendo di uno strumento che nessuno avrebbe immaginato potesse essere impiegato come vera e propria arma di guerra. Nell’articolo presentato qui in traduzione, l’architetto ed accademico Eyal Weizman riflette sull’impatto che la filosofia contemporanea – in particolare il Post-strutturalismo francese – ha avuto e sta tutt’ora avendo tanto nella formazione dei generali israeliani quanto nell’elaborazione di nuove strategie e tattiche militari.

Articolo apparso originariamente il 6 maggio 2006 su Frieze: https://frieze.com/article/art-war

A cura e traduzione di Maximiliano Carli

Le forze di difesa israeliane sono state fortemente influenzate dalla filosofia contemporanea, evidenziando il fatto che vi è una considerevole convergenza fra i testi teorici ritenuti essenziali dalle accademie militari da una parte, e le scuole di architettura dall’altra.

L’attacco condotto dalle unità delle forze di difesa israeliane (IDF) alla città di Nablus nell’aprile del 2002 fu descritto dal loro comandante, il generale di brigata Aviv Kokhavi, come una “geometria inversa”, che egli spiegò nei termini di «una riorganizzazione della sintassi urbana mediante una serie di azioni micro-strategiche»1. Durante la battaglia i soldati si spostarono all’interno della città attraverso “tunnel sotterranei” lunghi centinaia di metri, scavati in una struttura urbana densa e compatta. Sebbene diverse migliaia di soldati e guerriglieri palestinesi stessero agendo simultaneamente in città, essi si ritrovarono “saturati” a tal punto nel tessuto urbano che solamente pochi sarebbero risultati visibili dallo spazio aereo. Per di più essi non utilizzarono né vicoli, strade, vie o cortili, né tantomeno porte esterne, scale interne o finestre per muoversi, bensì si spostarono orizzontalmente attraverso i muri e verticalmente attraverso i buchi nei soffitti e nei pavimenti. Questa forma di movimento, descritta dai militari come “infestazione”, tenta di ridefinire l’interno, l’esterno e gli spazi domestici come vie di comunicazione, zone di passaggio. La strategia delle IDF di “passare attraverso i muri” richiama una concezione di città non solo intesa come luogo di guerra, ma anche come il vero strumento della guerra – uno strumento flessibile, quasi liquido, sempre contingente e in continuo mutamento.

I teorici militari contemporanei sono oggi impegnati a ri-concettualizzare lo spazio urbano. In ballo ci sono concetti, ipotesi e principi fondamentali che determinano strategie e tattiche militari. Il vasto ambiente intellettuale che il geografo Stephen Graham ha definito un “mondo oscuro” internazionale di istituti di ricerca e centri di addestramento militari urbani, i quali sono stati istituiti per ripensare le operazioni militari nelle città, potrebbe essere inteso come qualcosa di simile alla matrice internazionale delle migliori accademie di architettura. Comunque, secondo il teorico di urbanistica Simon Marvin, il “mondo oscuro” dell’architettura militare sta attualmente formulando programmi di ricerca in ambito urbanistico più intensi e ben finanziati di tutti i programmi universitari messi insieme, ed è certamente a conoscenza delle ricerche di urbanistica all’avanguardia condotte nelle istituzioni di architettura, in particolare per quanto riguarda il Terzo Mondo e le città africane. V’è un’importante convergenza tra i testi teorici considerati essenziali dalle accademie militari da una parte, e dalle scuole di architettura dall’altra. Infatti, le reading lists delle istituzioni militari contemporanee comprendono testi prodotti intorno al 1968 (con particolare enfasi sui lavori di Gilles Deleuze, Félix Guattari e Guy Debord), così come scritti più contemporanei su psicologia, urbanistica, cibernetica, teorie post-coloniali e post-strutturaliste. Se, come sostengono alcuni scrittori, lo spazio per l’aspetto critico si è drasticamente ridotto nella cultura capitalista della fine del XX secolo, ora sembra aver trovato nell’esercito militare un terreno dove fiorire.

Ho condotto un’intervista con Kokhavi, comandante della brigata paracadutista, che a 42 anni è considerato uno dei giovani ufficiali più promettenti delle IDF (ed è stato il comandante dell’operazione per l’evacuazione degli insediamenti nella Striscia di Gaza). Come molti ufficiali in carriera, egli si prese una pausa dall’esercito per conseguire un diploma universitario; sebbene originariamente intendesse studiare architettura, egli finì con un diploma in filosofia presso la Hebrew University di Gerusalemme. Quando mi spiegò il principio guida della battaglia a Nablus, trovai interessante non tanto la descrizione dell’azione in sé, quanto piuttosto il modo in cui articolò la sua concezione. Egli disse:

Questo spazio che vedi, questa stanza che vedi, non è altro che una tua interpretazione. […] La domanda è: come concepisci il vicolo? […] Noi lo avevamo concepito come uno spazio proibito da attraversare a piedi, e la porta come uno spazio proibito dal quale passare, e la finestra come uno spazio proibito dal quale guardare, perché un’arma ci aspettava nel vicolo e una trappola esplosiva ci aspettava dietro la porta. Questo accade perché il nemico interpreta lo spazio in maniera tradizionale, classica, ed io non voglio obbedire a questa interpretazione e cadere nelle sue trappole. […] Io voglio sorprenderlo! Questa è l’essenza della guerra. Io devo vincere. […] Questo è il motivo per cui abbiamo adottato la strategia di passare attraverso i muri…. Come un verme che si fa strada in avanti, che sbuca in alcuni punti e poi scompare. […] Dissi alle mie truppe: “Amici! […] Se fino ad ora eravate abituati a muovervi lungo le strade e i marciapiedi, dimenticatevelo! Da ora in poi noi cammineremo attraverso i muri!”2.

Lo scopo di Kokhavi in battaglia era di entrare in città per uccidere i membri della resistenza palestinese e poi andarsene. La terribile schiettezza di questi obiettivi, come mi raccontò Shimon Naveh, l’istruttore di Kokhavi, fa parte di una più generale politica israeliana che tenta di intralciare la resistenza palestinese a livello sia politico che militare mediante uccisioni mirate condotte tanto via aerea quanto terrestre.

Nel caso in cui crediate ancora, come vorrebbero le IDF, che la strategia di passare attraverso i muri sia una forma di guerra relativamente moderata, la descrizione della prossima sequenza di eventi potrebbe farvi cambiare opinione al riguardo. Per cominciare, i soldati si riuniscono dietro il muro e poi, usando esplosivi, trapani o martelli, creano un’apertura abbastanza ampia per passarci attraverso. In seguito, vengono a volte lanciate granate stordenti, oppure sparati casualmente alcuni proiettili all’interno di quello che di solito è un salotto privato occupato da ignari civili. Quando i soldati sono passati attraverso il muro, i residenti vengono chiusi dentro una stanza, dove sono obbligati a rimanere – a volte per svariati giorni – finché l’operazione è conclusa, spesso senza acqua, bagno, cibo o medicinali. I civili in Palestina, così come in Iraq, hanno sperimentato l’inaspettata penetrazione della guerra nella proprietà privata, nella loro casa, come la forma più profonda di trauma e umiliazione. Una donna palestinese identificata solo come Aisha, intervistata da un giornalista del Palestine Monitor, descrisse l’esperienza:

Immaginalo – sei seduto nel tuo salotto, che conosci così bene; questa è la stanza dove la famiglia guarda insieme la televisione dopo cena, e improvvisamente quel muro scompare con un boato assordante, la stanza si riempie di polvere e detriti, e attraverso il muro si riversa un soldato dopo l’altro, urlando ordini. Non hai idea se stiano cercando te, se siano venuti per impossessarsi della tua casa, o semplicemente se la tua casa si trovi sulla loro strada verso un altro obiettivo. I bambini urlano, sono nel panico. È anche solo possibile immaginare l’orrore vissuto da un bambino di cinque anni quando quattro, sei, otto, dodici soldati, con i loro volti dipinti di nero, le mitragliatrici puntate ovunque, le antenne che sporgono dai loro zaini facendoli sembrare insetti alieni giganti, si fanno strada attraverso quel muro?3.

Naveh, un generale di brigata in pensione, dirige l’Istituto di Ricerca sulla Teoria Operativa, il quale forma gli ufficiali delle IDF e altri militari in “teoria operativa” – definita nel gergo militare come qualcosa a cavallo fra strategia e tattica. Egli riassunse così lo scopo del suo Istituto, fondato nel 1996:

Noi siamo come l’Ordine dei Gesuiti. Tentiamo di insegnare e formare i soldati a ragionare. […] Leggiamo Christopher Alexander, riesci a immaginarlo? Leggiamo John Forester e altri architetti. Stiamo leggendo Gregory Bateson; stiamo leggendo Clifford Geertz. Non io, ma i nostri soldati, i nostri generali stanno riflettendo su questi tipi di materiali. Abbiamo dato vita ad una scuola e sviluppato un curriculum che forma “architetti operativi”4.

Durante una conferenza Naveh mostrò un diagramma che somigliava ad un “quadrato delle opposizioni” che traccia una serie di definizioni logiche tra determinate proposizioni che si riferiscono a operazioni militari e di guerriglia. Etichettate con espressioni quali “Differenza e Ripetizione – Le Dialettiche della Strutturazione e della Struttura”, “Entità Rivali senza Forma”, “Manovra Frattale”, “Velocità contro Ritmi”, “La Macchina da Guerra Wahabi”, “Anarchici Postmoderni” e “Terroristi Nomadi”, esse sono spesso riferite ai lavori di Deleuze e Guattari. Le macchine da guerra, secondo i due filosofi, sono polimorfe; organizzazioni diffuse caratterizzate dalla loro abilità di trasformarsi, formate da piccoli gruppi che si dividono o si fondono fra loro, a seconda della situazione e delle circostanze (Deleuze e Guattari erano consapevoli che lo Stato può volontariamente trasformare se stesso in una macchina da guerra. Allo stesso modo, nella loro riflessione sullo “spazio liscio” è implicito che tale concezione possa condurre ad uno stato di dominio).

Chiesi a Naveh il motivo per cui Deleuze e Guattari fossero così popolari tra i militari israeliani. Egli rispose che

numerosi concetti di Millepiani diventarono fondamentali per noi […] permettendoci di spiegare situazioni contemporanee in un modo in cui altrimenti non saremmo riusciti. Il testo aveva problematizzato i nostri stessi paradigmi. L’aspetto più importante fu la distinzione che essi sottolinearono fra i concetti di “spazio liscio” e “spazio striato” [che di conseguenza riflettono] i concetti organizzativi di “macchina da guerra” e “apparato di Stato”. Oggi nelle IDF utilizziamo spesso l’espressione “rendere liscio lo spazio” (“to smooth out space”) quando vogliamo fare riferimento ad un’operazione condotta in uno spazio come se esso non avesse confini, muri, ostacoli. […] Infatti, le aree palestinesi potrebbero essere pensate come “striate” nel senso che sono racchiuse da recinzioni, muri, fossati, blocchi stradali e così via5.

Quando gli chiesi se camminare attraverso i muri ne facesse parte, egli mi spiegò che «a Nablus le IDF compresero la guerra urbana come un problema spaziale. […] Spostarsi attraverso i muri è una semplice soluzione meccanica che unisce teoria e pratica»6.

Per comprendere le strategie delle IDF per passare attraverso i muri degli spazi urbani palestinesi, è necessario capire come esse interpretino l’ormai familiare principio dello “sciame” (“swarming”) – un termine che è stato una parola d’ordine nella teoria militare fin dall’inizio della dottrina americana post-Guerra Fredda, conosciuta come Rivoluzione negli Affari Militari. La manovra a sciame fu infatti adattata dal principio dell’Intelligenza Artificiale della swarm intelligence, la quale presuppone che le abilità di problem-solving si trovino nell’interazione e nella comunicazione di operatori relativamente poco sofisticati (formiche, uccelli, api, soldati), con un controllo centralizzato minimo o inesistente. Lo sciame esemplifica il principio di non-linearità apparente in termini di spazio, tempo e organizzazione. Il paradigma di manovra tradizionale, caratterizzato dalla geometria semplificata dell’ordine euclideo, è trasformato, secondo i militari, in una sorta di complessa geometria frattale. La descrizione del piano di battaglia viene rimpiazzata da ciò che i militari, utilizzando un’espressione foucaultiana, chiamano “toolbox approach”, secondo il quale le unità ricevono gli strumenti di cui hanno bisogno per affrontare i diversi scenari e situazioni, senza però poter prevedere l’ordine attraverso cui tali eventi avranno luogo7. Naveh: «I comandanti operativi e tattici dipendono l’uno dall’altro e apprendono i problemi costruendo la narrazione della battaglia; […] l’azione diventa conoscenza, e la conoscenza diventa azione. […] Senza un possibile risultato determinato, il vantaggio principale dell’operazione è il miglioramento del sistema in quanto sistema»8.

Questo potrebbe spiegare la fascinazione esercitata sui militari dai modelli spaziali e organizzativi e dalle modalità operative proposti da teorici come Deleuze e Guattari. In effetti, per quanto riguarda l’esercito militare, la guerra urbana è la forma postmoderna definitiva di conflitto. La fede in un piano di battaglia strutturato logicamente e a senso unico si perde di fronte alla complessità e all’ambiguità della realtà urbana. I civili diventano combattenti, e i combattenti diventano civili. L’identità può essere cambiata tanto velocemente quanto è possibile simulare il genere: la trasformazione di donne in uomini combattenti può aver luogo alla stessa velocità necessaria ad un soldato israeliano “arabizzato” sotto copertura o ad un combattente palestinese mimetizzato per estrarre una mitragliatrice da sotto un vestito. Per un combattente palestinese coinvolto in questa battaglia, gli israeliti sembrano «essere ovunque: dietro, sui lati, sulla destra e sulla sinistra. Come puoi combattere in questo modo?»9.

La teoria critica è diventata fondamentale per la formazione e l’istruzione di Naveh. Egli spiegò:

noi impieghiamo la teoria critica principalmente per criticare l’istituzione militare in sé – i suoi fondamenti concettuali statici e pesanti. La teoria è per noi importante al fine di articolare lo scarto fra il paradigma esistente e quello a cui vogliamo arrivare. Senza teoria non potremmo dare senso ai diversi eventi che accadono intorno a noi e che altrimenti apparirebbero sconnessi. […] Attualmente l’Istituto ha un impatto enorme sull’esercito; [esso è] diventato un nodo sovversivo al suo interno. Formando numerosi ufficiali di alto rango abbiamo riempito il sistema [IDF] di agenti sovversivi […] che pongono domande; […] alcuni fra i migliori ufficiali non provano imbarazzo a parlare di Deleuze o [Bernard] Tschumi10.

Chiesi a Naveh: «Perché Tschumi?», egli rispose:

L’idea di disgiunzione presente nel libro di Tschumi Architettura e Disgiunzione (1994) è diventata importante per noi. […] Tschumi aveva un approccio diverso all’epistemologia; egli voleva rompere con la conoscenza basata sulla prospettiva individuale e con il pensiero centralizzato. Aveva visto il mondo attraverso una varietà di pratiche sociali diverse, da un punto di vista in costante mutamento, mai fisso. [Tschumi] aveva creato una nuova grammatica; ha dato forma alle idee che compongono il nostro pensiero11.

Successivamente gli domandai: «Perché non Derrida e la Decostruzione?», egli rispose: «Derrida potrebbe essere un po’ troppo oscuro per la nostra gente. Abbiamo più cose in comune con gli architetti; noi uniamo teoria e pratica. Possiamo leggere, ma sappiamo bene anche come costruire e distruggere, e talvolta uccidere»12.

Oltre a queste posizioni teoriche, Naveh fa riferimento anche ad elementi canonici dell’urbanistica come le pratiche situazioniste di “deriva” (un metodo di deriva attraverso la città basato su ciò che i situazionisti chiamavano “psicogeografia”) e di “deviazione” (l’adattamento di edifici abbandonati a scopi diversi da quelli per cui furono progettati). Ovviamente, queste idee furono concepite da Guy Debord e altri membri dell’Internazionale Situazionista per sfidare la gerarchia della città capitalista e per abbattere le distinzioni tra privato e pubblico, interno ed esterno, uso e funzione, rimpiazzando lo spazio privato con una superficie pubblica “illimitata”. I riferimenti all’opera di Georges Bataille, sia diretti che citati come negli scritti di Tschumi, testimoniano anche un desiderio di attaccare l’architettura e di smantellare il rigido razionalismo dell’ordine del dopoguerra, al fine di sfuggire alla “camicia di forza dell’architettura” e di liberare i desideri umani repressi.

Senza mezzi termini, l’istruzione nelle discipline umanistiche – spesso ritenuta l’arma più potente contro l’imperialismo – sta venendo impiegata come un potente mezzo dall’imperialismo stesso. Certamente l’uso militare della teoria non è una novità – una lunga linea si estende da Marco Aurelio al generale Patton.

I futuri attacchi militari su terreno urbano utilizzeranno maggiormente le tecnologie sviluppate al fine di “smurizzare i muri” (“un-walling the wall”), per prendere in prestito un’espressione di Gordon Matta-Clark. Questa è la risposta del nuovo soldato-architetto alla logica delle “bombe intelligenti”. Queste ultime hanno paradossalmente portato ad un maggior numero di vittime fra i civili, semplicemente perché l’illusione della precisione fornisce al complesso politico-militare la giustificazione necessaria per utilizzare esplosivi negli ambienti civili.

Qui diventa evidente un altro ruolo della teoria come “arma intelligente” definitiva. L’uso seduttivo del discorso teorico e tecnologico da parte dell’esercito tenta di dipingere la guerra come remota, veloce e intelligente, eccitante – ed anche economicamente praticabile. La violenza può allora essere mostrata come tollerabile e il pubblico può essere incoraggiato a supportarla. Come tale, lo sviluppo e la diffusione di nuove tecnologie militari promuovono la finzione proiettata nel pensiero collettivo secondo la quale una soluzione militare è possibile – in situazioni in cui questa soluzione, nella migliore delle ipotesi, è molto dubbia.

Sebbene non fosse necessario Deleuze per attaccare Nablus, la teoria aiutò l’esercito a riorganizzarsi fornendo un nuovo linguaggio con cui parlare a se stesso e agli altri. Una teoria fondata sull’“arma intelligente” ha una funzione sia pratica che discorsiva nel ridefinire la guerra urbana. La funzione pratica (o strategica), la misura in cui la teoria deleuziana influenza le tattiche e le manovre militari, fa crescere le domande circa la relazione fra pratica e teoria. Quest’ultima ha ovviamente il potere di stimolare nuove sensibilità, ma potrebbe anche aiutare a spiegare, sviluppare o persino giustificare idee emerse indipendentemente all’interno di diversi ambiti di conoscenza e con basi etiche piuttosto diverse. In termini discorsivi, la guerra – se non è una guerra totale di annientamento – rappresenta una forma di dialogo tra i nemici. Ogni azione militare è tesa a comunicare qualcosa al nemico. Parlare di “sciame”, “uccisioni mirate”, e “distruzione intelligente” aiuta l’esercito a comunicare ai suoi avversari che è in grado di attuare una distruzione ancora maggiore. I raid possono quindi essere immaginati come l’alternativa più moderata alla capacità distruttiva che possiede attualmente l’esercito, e che scatenerà nel caso in cui il nemico superasse il livello “accettabile” di violenza o violasse qualche tacito accordo. Nei termini della teoria militare operativa è essenziale non utilizzare mai la propria massima capacità distruttiva, ma piuttosto mantenere il potenziale per aumentare il livello di atrocità. Altrimenti le minacce diventano insignificanti.

Quando l’esercito parla di teoria a se stesso, parrebbe voler cambiare la sua struttura organizzativa e le sue gerarchie. Quando esso invoca la teoria nelle comunicazioni con il pubblico – in conferenze, trasmissioni e pubblicazioni – sembra proiettare un’immagine di un esercito civilizzato e sofisticato. E quando i militari “parlano” (come ogni militare fa) al nemico, la teoria potrebbe essere intesa come un’arma particolarmente intimidatoria di “colpisci e terrorizza”; il messaggio è: “Non capirete nemmeno ciò che vi uccide”.

1 Citato in Hannan Greenberg, The Limited Conflict: This Is How You Trick Terrorists, in Yediot Aharonot; www.ynet.co.il (23 marzo 2004).

2 Eyal Weizman intervistò Aviv Kokhavi il 24 settembre presso una base militare israeliana vicino a Tel Aviv. Traduzione dall’ebraico a cura dell’autore; documentazione video a cura di Nadav Harel e Zohar Kaniel.

3 Sune Segal, What Lies Beneath: Excerpts from an Invasion, Palestine Monitor, Novembre 2002; www.palestinemonitor.org/eyewitness/Westbank/what_lies_beneath_by_sune_segal.html (9 giugno 2005).

4 Shimon Naveh, discussione in seguito alla conferenza Dicta Clausewitz: Fractal Manoeuvre: A Brief History of Future Warfare in Urban Environments, tenuta insieme con States of Emergency: The Geography of Human Rights, un dibattito organizzato da Eyal Weizman e Anselm Franke come parte di Territories Live, B’tzalel Gallery, Tel Aviv, 5 novembre 2004.

5 Eyal Weizman, intervista telefonica con Shimon Naveh, 14 ottobre 2005.

6 Ibidem.

7 La descrizione di Michel Foucault della teoria come “toolbox” fu inizialmente elaborata insieme a Deleuze in una discussione del 1972; vedi Gilles Deleuze e Michel Foucault, Intellectuals and Power, in Michel Foucault, Language, Counter-Memory, Practice: Selected Essays and Interviews, ed. e intro. Donald F. Bouchard, Cornell University Press, Ithaca, 1980, p. 206.

8 Weizman, intervista con Naveh.

9 Citato in Yagil Henkin, The Best Way into Baghdad, The New York Times, 3 aprile 2003.

10 Weizman, intervista con Naveh.

11 Naveh sta attualmente lavorando ad una traduzione ebraica di Architettura e Disgiunzione di Bernard Tschumi, MIT Press, Cambridge, Mass., 1997.

12 Weizman, intervista con Naveh.

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