Potenza, Evento, Persona. Intervista a Rocco Ronchi
Simone Raviola: Sia tu che Giorgio Agamben affrontate il concetto di Immanenza. La «sua» immanenza è però caratterizzata o da una potenza assoluta, come sembra talvolta, o dall’uso come disattivazione della dicotomia potenza/atto. La «tua» immanenza invece si costruisce e consiste completamente nell’atto e si fa carico di una trasvalutazione della dicotomia potenza/atto in virtuale/attuale. Cosa ne pensi delle riflessioni di Agamben? Come spieghi queste divergenze? I vostri pensieri entrano in contatto? Se sì, come?
Rocco Ronchi: Agamben traccia una mirabile genealogia della potenza facendo di Aristotele, Metaph. 9, il luogo sorgivo, l’ “archeologia” del soggetto. Mi sembra che a quel luogo non si possa non ritornare ogniqualvolta si fa questione della potenza del pensiero e del destino della filosofia. Mi sembra però che Agamben, e con lui tutta una tradizione di pensiero influenzata dalla sua riflessione, continui a muoversi all’interno di un orizzonte concettuale determinato dalla soluzione aristotelica dell’aporia sollevata dai megarici. I megarici, lo ricordo ancora una volta, non sono dei bizzarri dialettici, amanti dei paradossi. Essi costituiscono, ad un tempo, la punta dell’iceberg presocratico nella filosofia classica greca e il costante rimosso della metafisica occidentale, un rimosso che non cessa di ritornare. Ritorna, infatti, già nella stessa filosofia aristotelica, la quale, esplicitamente, si era costituita poi come obiezione al megarismo, ma che nei fatti non è in grado di lasciare al possibile alcuna autonomia (si veda, a questo proposito, la lettura che di Aristotele fornisce Hintikka). Tutte le nozioni elaborate dalla teologia politica contemporanea, dalla idea di “sovranità” a quella di “stato di eccezione” fino all’ “inoperosità” e al “potere destituente”, suppongono la bontà della soluzione aristotelica (che era dubbia per lo stesso Aristotele…), vale a dire l’idea di una potenza raddoppiata, una potenza che è riflessivamente rivolta a sé stessa, un potenza che può il potere e che dunque è “in pausa” rispetto al suo esercizio. Ad esempio, la categoria dell’”uso” è introdotta da Platone nella filosofia greca proprio per sospendere la spontaneità mostruosa dell’esercizio agganciandolo ad un soggetto che sovranamente ne dispone. La situazione non cambia se si lascia il versante “continentale” per quello “analitico”. A dispetto del loro reciproco ignorarsi e disprezzarsi, continentali e analitici condividono la stessa ipotesi metafisica. La metafisica analitica ha infatti eletto la pseudosoluzione aristotelica a principio esplicativo del reale, il quale sarebbe articolato in sostanze e disposizioni. Se si guarda la cosa da una sufficiente distanza, si potrebbe anzi dire che la metafisica analitica è la metafisica che sottende l’operazione di Agamben e di tutta la cosiddetta italian theory. Se ne trova una conferma nell’interessantissimo lavoro teorico svolto negli ultimi anni da Gaetano Chiurazzi. Nei suo testi, infatti, la metafisica analitica è rivendicata apertamente e con dovizia di argomentazioni come fondamento di una “ontologia del possibile” “Ontologia del possibile” è probabilmente l’etichetta più precisa sotto la quale si possono raccogliere, almeno in Italia, esperienze di pensiero tra loro certo eterogenee, ma che sono ispirate tutte da una medesima sensibilità (sul versante “filosofico- politico” si va da Agamben a Esposito a Virno, su quello più “teoretico” da Cacciari a Vitiello a Vattimo, solo per fare qualche nome esemplare). Ora, un pensiero dell’immanenza , a mio avviso, non può formularsi finché il dispositivo potenza-atto non è disarticolato. Non è un caso se i grandi pensatori dell’immanenza siano stati megarici, anche senza saperlo. Il megarismo in filosofia è come il marranesimo nella storia delle religiosità ebraica: è presente ed operante in modo dissimulato ai suoi stessi agenti e operatori i quali credevano in buona fede di essere cristiani... Nelle loro mani, torna sistematicamente a ripresentarsi quell’equazione perfetta tra physis, dynamis ed energheia che costituiva l’evidenza per il pensiero fino a Platone e che proprio in Platone comincia a sgretolarsi. La mia tesi è che in ogni momento capitale della storia della filosofia, vale a dire in quei puncta in cui la filosofia non ha cessato di “cominciare” (sfidando l’ingiunzione scettica), quell’equazione ha fatto nuovamente capolino. Un solo esempio, forse il più eclatante: l’ “ego sum, ego existo” della seconda meditazione cartesiana, vera e propria riproposizione, all’alba della modernità, della equazione megarica natura-potenza-atto.
Riccardo Lazzarato: Ci stiamo misurando oggi, in modo più esplicito di ieri, con la potenza del reale: come si può affrontare il carattere traumatico dell’evento che «accade»? In che modo integrare il “kata dynamin” nel governo del flusso dell’evento?
RR: Nicolai Hartmann chiamava la potenza del reale “durezza del reale” e “ristrettezza del possibile”. L’idea dell’evento che si desume dalla sua analisi modale - che è, come è noto, una ontologia - è, credo, quella più precisa. Di essa il politico che ha come compito esclusivo quello “cibernetico” di “governare” il reale dovrebbe tenere assolutamente conto, abbandonando la superstiziosa idea che la politica sia l’arte del possibile. Nei termini di Hartmann l’accadere (il flusso dell’evento) è segnato dalla conversione improvvisa dell’impossibile nel necessario tramite creazione del possibile reale, vale a dire il possibile che non può non realizzarsi. Possibile e necessaria è ciò che una cosa diventa, accadendo . “Prima” era letteralmente impossibile. Anzi, a dire il vero, non era nemmeno impossibile dal momento che l’impossibile è il contraddittorio del possibile, e dunque può apparire solo in coppia con esso. Nessuno dei modi (possibile-impossibile, necessario-contingente) “morde” su di esso. Infatti Hartmann fa dell’accadere reale il “modo fondamentale”, relegando gli altri modi (con una eccezione sulla “casualità” che qui non posso spiegare) a modi “relazionali”. Non ci poteva essere trasgressione più spudorata del dogma centrale della metafisica dei moderni, quello enunciata da Heidegger, quando pone il possibile in alto, molto più in alto del reale. Perché l’ipotesi hartmaniana (anticipata per altro da Schelling, Bergson e Scheler) è per me seducente? Perché fa della potenza del reale qualcosa che non è né possibile/impossibile, né necessario/contingente non essendo per altro altrove che là, in quelle modalizzazioni in cui, come tale, non è. Questa potenza del reale era indubbiamente ciò che Bergson pensava per la sua “durata creatrice”, ciò che Whitehead poneva, in Processo e realtà, come “categoria dell’ultimo”, ciò che Gentile pensa per il suo actus purus. Essa costituisce poi il cosiddetto principio di Alexander, vale a dire è l’effettivo che funzione come criterio dell’essere e del non essere. Ma è soprattutto la potenza dei megarici, quella potenza che non può non esercitarsi. Non è dunque la necessità, come ritengono i liquidatori del megarismo, senza però, per questo, essere contingenza. In questo giro vorticoso di pensieri si sta probabilmente dando all’accadere reale la forma del “trauma”. Il trauma non è qualcosa che accade a…, bensì è il puro accadere di ciò che accade a… Ora, ciò che accade si disporrà poi inevitabilmente nel quadrato delle opposizione modali, ma l’accadere come tale non trova posto in esso. Il trauma è il colpo in sé, il trauma il colpo dato senza essere ricevuto (i fenomenologi dicono: l’essere del fenomeno che non è un fenomeno). Si dirà che questa è una pura astrazione da filosofi, che se c’è esperienza ci deve essere qualcuno che la fa ecc., ma una delle più grandi lezioni della psicoanalisi non è stata forse quella di porre all’origine dei processi di soggettivazione una catastrofe o una serie di catastrofi senza testimoni (Ferenczi), crolli che hanno avuto luogo senza che ci fosse ancora il soggetto-sostrato che lo subisce (Winnicott)? Anzi , la psicoanalisi ha fatto del soggetto-sostrato un effetto après coup di quello stesso crollare originario. Ebbene, quando si paragona il politico al cibernauta, quando si fa del “governo” l’arte politica, qual è il mare in tempesta nel quale lo si fa navigare? Il mare, credo, è quello dell’evento. L’oceano è la catastrofe sempre in atto. Io la chiamo, con espressione sartriana, la spontaneità mostruosa della natura. L’arte politica non consiste allora nella realizzazione di possibili dati, non sta nel progetto, quanto piuttosto nella capacità di estrarre dall’evento traumatico il suo possibile e il suo necessario. Cosa fanno infatti gli eventi? Gli eventi producono trasformazioni che prima del loro aver luogo non erano nemmeno possibili. L’evento, insomma, è tale perché genera del possibile “reale”. Si tenga presente che qui “possibile” non vuole dire altro che praticabile. Possibilità significa poter fare qualcosa. La possibilità reale non è niente di astratto, non è la libera immaginazione di altri mondi migliori di questo. Se si rimane su un piano pragmatico, senza indulgere alla metafisica, possibilità è solo “potenza” e potenza non è nient’altro che azione, attività determinata. La “virtù” dell’evento consiste allora nel rendere possibile modalità operative che, “prima”, erano semplicemente impossibili, addirittura impensabili.
RL/SR: Al workshop di Torino sul “post-umano” a cui hai partecipato, ci parlavi di una ridefinizione del concetto di “persona” all’interno del tuo pensiero, anche in maniera critica rispetto a tue precedenti riflessioni. Cosa ci puoi dire in merito? È in corso una “svolta” o semplicemente stai saldando il sistema che hai aperto con “Il canone minore”?
RR: Dopo il Canone, mi sono reso conto che l’impersonale stava diventando un motivetto facile che dava a chi lo fischiettava l’impressione di essere filosoficamente “radicale”. Lo si sentiva ripetere perfino dai teorici della comunità “inoperosa” fondata sulla radicale assunzione della finitude e della contingenza dell’esistere… In realtà l’emancipazione della esperienza dal presupposto della coscienza, che era uno dei compiti che mi proponevo nel Canone, produce una revisione della nozione di prima persona non la sua abolizione. La nozione di “godimento” porta esattamente in quella direzione. Che cosa risultava infatti dall’attraversamento dell’aporia in cui sempre precipita una fenomenologia conseguente, cioè radicale? Che il soggetto che si costituisce nella relazione e grazie alla relazione, vale a dire il soggetto della riflessione, non poteva essere il soggetto ultimo. L’ultimo vero assoluto, già per Husserl, non poteva essere l’assoluto della correlazione coscienza-mondo. A suo fondamento e come sua causa non poteva non esserci quella famosa “macchia cieca” sulla quale tanto si è arrovellato Merleau-Ponty. Prima della coscienza come intenzionalità, visione, luce, estasi, trascendenza verso il mondo, cogitatio ecc. si deve supporre, per fedeltà alla esperienza, una coscienza buia, che non è a distanza da sé e che non si rapporta a sé e che, tuttavia, se è esperienza, è in qualche modo coscienza di sé (autoaffezione, cogitatio sui). Raymond Ruyer prima, Gilles Deleuze poi, hanno paragonato questa autoaffezione originaria ad un sorvolo del piano di immanenza su stesso ad una velocità che deve essere necessariamente infinita (la costante c introduce infatti la relazione, il tempo e lo spazio). Parafrasando l’incipit del § 16 della seconda edizione della deduzione trascendentale kantiana, si potrebbe allora dire che se la coscienza non si sentisse traumaticamente in quel punto cieco, niente sarebbe dato a lei come fenomeno. L’ “io penso”, che non può non accompagnare tutte le rappresentazioni, perché si succedano come perle sul filo della mia esperienza, è “un atto della spontaneità”. La spontaneità mostruosa del sentire svolge il ruolo dell’appercezione pura o della appercezione originaria, la quale, secondo la lezione kantiana, ”produce la rappresentazione Io penso” che “deve accompagnare tutte le altre (mie rappresentazioni) ed è in ogni coscienza una e identica”. A fondamento dell’Io penso, prima della sintesi a priori, c’è l’immediatezza traumatica del sentire. Questa “autoesperienza trascendentale apodittica” – che non è esperienza di qualcosa né esperienza di qualcuno, “qualcuno” e “qualcosa” ci saranno semmai après coup grazie a quella spontaneità irriflessa – non può essere ovviamente conoscenza, vale a dire “rapporto”. Essa è sentimento immediato del “che c’è e che non può non essere”, di un puro that non qualificato, uno that senza what, una sfera d’esistenza assoluta (quodditas) che precede e fonda ogni essenza (quidditas). Lacan pone al cuore di ogni rapporto il non rapporto. Ebbene, di che altro sta parlando lo psicoanalista francese con il suo celeberrimo “non rapporto sessuale” se non di un sentire senza mondo, senza altro, assoluto nel senso dell’irrelato, perfettamente compiuto e non mancante di nulla, di cui il godimento, la jouissance, il self-enjoyment (termine chiave della grande filosofia inglese dell’inizio del secolo) è la più esatta descrizione? Di tale “godimento-uno” si evidenzia polemicamente il carattere autistico, ma l’autos di questo autismo è l’autos dell’auto-affezione del sentire, è l’ipse che non può mai essere ridotto, che residua ostinatamente al fondo della relazione: in altre parola, è la reale primissima persona, quella che viene prima della relazione io-tu e che non è nemmeno la terza persona del neutro, come vorrebbe la canzone da organetto dell’impersonale. Ricordo che la terza persona non è un vero pronome, ma sta, appunto, per la non-persona. Gilles Deleuze reclamava per questa primissima persona l’invenzione di un altro pronome: la “quarta persona del singolare” tramite la quale “nessuno parla e che tuttavia esiste”. La dico primissima perché solo essa è il pronome personale delle singolarità che popolano il piano di immanenza, il pronome delle ecceità, il pronome di una esperienza non correlata alla coscienza. Solo essa può essere occasione di un incontro traumatico con il reale (con il non poter non). Una verifica empirica immediata è data dall’evento Covid 19. Verso chi ci si impegna, a causa del Covid 19, in un rinnovato senso della responsabilità che va al di là del piano morale? In chi Covid 19 ci trasforma, facendoci abbandonare, d’un solo colpo, le identità precostituite sul piano storico, quelle cioè che dipendono dalla relazione? Bisogna rileggere un passo dell’ultimo scritto di Deleuze per trovarvi la risposta: “La vita dell’individuo ha lasciato posto a una vita impersonale, e tuttavia singolare, che esprime un puro evento affrancato dagli accidenti della vita esteriore e interiore, ossia dalla soggettività e dall’oggettività di ciò che accade. “Homo tantum” di cui tutti hanno compassione e che conquista una sorta di beatitudine. È una ecceità, che non deriva più da una individuazione, ma da una singolarizzazione: vita di pura immanenza, neutra al di là del bene e del male, poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo alle cose la rendeva buona o cattiva. La vita di questa individualità scompare a vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha più nome, sebbene non si confonda con nessun altro.”
Rocco Ronchi insegna filosofia presso l’Università degli Studi de L’Aquila e presso l’IRPA (Istituto di Ricerca di Psicanalisi Applicata) di Milano. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: Come fare. Per una resistenza filosofica (Feltrinelli, 2012); Il canone minore (Feltrinelli 2017); Bertold Brecht (Orthotes 2017). Ha curato Gilles Deleuze. Credere nel reale (Feltrinelli, 2015) e Immanenza. una mappa (con Riccardo Panattoni, Mimesis 2019).