Note per un Lacanismo Nero: il pessimismo di Lacan

1. Per introdurre il Lacanismo Nero

Negli ultimi decenni, gli studi lacaniani hanno conosciuto una straordinaria diffusione, che ha aperto l’insegnamento di Lacan al dialogo con discipline dalla incredibile varietà concettuale: la filosofia, l’antropologia, gli studi culturali, la cibernetica, la letteratura, l’epistemologia sono solo alcuni dei campi in cui oggi possiamo rinvenire delle importanti applicazioni della psicoanalisi lacaniana. Questa galassia, che propongo di riunire sotto il nome generico di Lacanismo, ha estratto dall’opera di Lacan una quantità talmente eterogenea di saperi che, propriamente parlando, non è possibile parlare di un unico ed omogeno Lacanismo, ma di uno sciame di diversi lacanismi, a volte persino incommensurabili tra loro. Tuttavia, nel novero di questi studi vi è ancora un argomento che figura da grande assente: il pessimismo lacaniano. Più commentatori hanno identificato diversi aspetti della psicoanalisi lacaniana che potrebbero essere ragionevolmente ricondotti alla corrente del pensiero pessimo. Ma la loro tendenza, sino ad ora, è stata quella di appiattire troppo facilmente tale argomento sugli ultimi anni di vita dello psicoanalista francese, concependolo illecitamente come un pessimismo affettivo, psicologico, frutto di un inesorabile “crepuscolo” intellettuale. La maggioranza di tali analisi ha così ridotto il pessimismo di Lacan ad un triste disfattismo[1], o ad una banale serie di (piuttosto trascurabili) biografismi[2]. Probabilmente, sono due i motivi che hanno viziato tale superficialità esegetica: da un lato, la caratteristica impenetrabilità dell’insegnamento di Lacan, eclettico e ombroso, spesso reputato “difficile” e non meritevole di essere ulteriormente approfondito nei suoi punti più problematici; dall’altro, il pregiudizio verso il pessimismo, sovente marchiato da un vero e proprio anatema filosofico-culturale, e concepito da molti come un mero «melodramma della futilità»[3], o tutt’al più come una «curiosità intellettuale»[4] incapace di condensarsi in un vero e proprio sistema.

Il Lacanismo nero è un particolare approccio all’insegnamento di Lacan che intende minare entrambe queste facili riduzioni. La sua tesi, in questo senso, è duplice: non solo il pessimismo di Lacan sarebbe a tutti gli effetti un pessimismo filosofico o, per dirla con Jean-Claude Milner, un «pensiero»[5] (un tratto irriducibile e non sottostimabile della sua produzione intellettuale, articolabile in tesi e assunti specifici), ma esso sarebbe anche estendibile a tutto l’insegnamento dello psicoanalista francese – e non concentrato esclusivamente nelle sue fasi terminali. Secondo questa prospettiva, Lacan sarebbe un autentico pensatore pessimista, sia in senso morale e soggettivo (come attitudine verso il mondo e l’esistenza), che in senso metafisico e oggettivo (come sistema di enunciati sul mondo e sull’esistenza). In altre parole, e in netta opposizione a molte letture convenzionali di Lacan, esiste una regione della galassia lacaniana (o, se si preferisce, un modo del Lacanismo) che costituisce una preziosa fucina del pensiero pessimo, un sistema denso e sconvolgente, che non si limita a riflettere le tesi di altri grandi esponenti di tale corrente, ma arriva persino a formulare un discorso unico nel suo genere, che fa di Lacan un Maestro del pessimismo a tutti gli effetti.

2. Del pensiero pessimo

Da un punto di vista tematico, il pessimismo di Lacan appare una realtà celata, una tendenza silenziosa, non immediata, e che attraversa tutto il suo insegnamento sotterraneamente, come un fiume carsico. Tuttavia, se seguito nei particolari, tale pessimismo si rivela una filosofia complessa, originale e articolata su più livelli argomentativi:  non si tratta di un pessimismo “ingenuo”, inteso come il mero rovescio dell’ottimismo, o di un pessimismo radicale, fondato sull’idea che il nostro sarebbe, puramente e semplicemente, «il peggiore dei mondi possibili»[6]. L’assunto di base del Lacanismo nero è che, così come il Lacanismo tout court, nemmeno il pensiero pessimo sia univoco, ma si dispieghi in forma reticolare, aprendosi in una galassia di posizioni e approcci diversi, spesso in antitesi tra loro. Esiste un pessimismo morale (come quello di La Rochefoucauld, di Chamfort o di Vauvenargues), metafisico (Schopenhauer, Solovyov), letterario (Huysmans, Kafka, Pessoa), religioso (Pascal, Kierkegaard), esistenziale (Dostoevskij, Camus, Unamuno), redentivo (Mainlander), e così via. Ciascuna di queste declinazioni del pessimismo non è mai definitiva, e la sua arborizzazione interseca numerosi punti delle altre forme del pensiero pessimo. In generale, ad accomunare questa ampia eterogeneità c’è l’idea che il mondo sia un luogo in cui prevaricano la sofferenza e la miseria, o quella che la vita sia intrinsecamente dolorosa. Oltre tutto, è importante notare come, una volta riconosciuta l’eterogeneità di tale corrente, non sia più necessario che un autore rigetti in toto la vita e la felicità per essere considerato un pessimista. A causa della complessità dell’argomento, è opportuno specificare che la questione del pensiero pessimo non si risolva in un aut-aut (o si è pessimisti o si è ottimisti). Il pessimismo può presentarsi spesso sotto forma di germe o di transito[7], e dunque anche indirettamente o in modo dissimulato: così come si può essere pessimisti a priori (è il caso, su tutti, di Schopenhauer), sostenendo ad esempio che la sofferenza costituisca il principio fondamentale e metafisico dell’esistenza, è anche possibile essere pessimisti ex post (si pensi a Voltaire, Gracian o Pascal). A differenza del primo tipo di pessimismo, in questo secondo caso il pensiero pessimo costituirebbe l’esito (non necessariamente volontario) di una data forma di pensiero, l’amara constatazione che, voltandosi verso il proprio sistema filosofico, non ci si sia lasciati dietro altro che uno sconsolante male, oppure un’agghiacciante indifferenza.

Questa specificazione è fondamentale per le sorti del pessimismo di Lacan, che può essere considerato a tutti gli effetti un pessimista di secondo grado, qualcuno che ha pensato il pessimismo al di là del pessimismo. Come specifica lo stesso Lacan nel Seminario VI, «il cosiddetto pessimismo», quello «patetico» e limitato al «sensibile», è «fatt[o] ancora per velarci ciò di cui si tratta»[8]. In altri termini, per Lacan le forme di pessimismo dirette e aprioristiche non porterebbero a niente, perché l’assunto che questo sarebbe già il peggiore dei mondi fungerebbe da ennesimo velo per schermare l’inessenzialità del reale. In tali autori, il pessimismo sarebbe un alibi, e i loro lamenti un escamotage per prevenire l’horror vacui: che qualcosa esista – pur nella sua sconfortante amarezza - è sempre meglio del nulla, del vuoto assoluto. L’idea di una sofferenza «inesorabile» è, per dirla alla Cioran, il nostro «ultimo rifugio» di consolazione. Di che pessimismo si tratta dunque nel caso di Lacan?

In generale, è possibile distribuire il pessimismo secondo tre assunti principali, che possono essere presenti in un dato pensiero tutti assieme o in forma separata.

Primo: nella vita di ciascuno, il dolore è più significativo del piacere o, detto altrimenti, il dolore è l’unica realtà dell’esistenza, essendo il piacere nient’altro che una momentanea cessazione del dolore.

Secondo: la natura è profondamente indifferente al bene o al male morale, così come alla felicità o all’infelicità delle sue creature.

Terzo: il male prevarica inevitabilmente il bene, e per questo non essere è meglio di essere.

Più o meno esplicitamente, si può rintracciare ciascuno di questi assunti anche nella psicoanalisi lacaniana. Rispetto al primo punto, si può facilmente notare che l’asimmetria tra dolore e piacere sia una tesi fondamentalmente freudiana, rinvenibile nella definizione idraulica e pulsionale del principio di piacere: per la metapsicologia, che Lacan segue fedelmente per gran parte del suo insegnamento, non esiste alcuna concezione positiva del piacere. Piuttosto, quest’ultimo equivale sempre ad un abbassamento della tensione libidica, allo scarico di un ingorgo pulsionale. Quanto al secondo punto, specificatamente lacaniano, Lacan sosterrà in più occasioni che quel che siamo soliti chiamare natura è in realtà «profondamente snaturata»[9], un «pot-pourri» che «si distingue» da ciò che «viene nominato»[10]. Detto altrimenti, la natura è il reale che resiste al significante, e il fatto che l’uomo spacci questa falsa dimensione per una costruzione omogenea è frutto di un banale «procedimento logico», un modo per «accostar[e]»[11] ciò che non può essere nominato e che esula dal taglio del significante. E se il reale è per definizione ciò che esclude il senso, il non simbolizzabile per eccellenza, allora anche quel che si cela al di sotto della natura è necessariamente consegnato ad una sovrana indifferenza, a quel regno oscuro a cui l’uomo non ha alcun accesso logico: in quanto reale, la natura è ciò che se ne “infischia” del significante. Il terzo punto, recentemente riportato alla ribalta da antinatalisti come Benatar e Crawford[12], è probabilmente il più radicale della triade, e la sua compatibilità con la psicoanalisi lacaniana può apparire non immediata. Tuttavia, esiste una sfumatura del pessimismo lacaniano che, se portata alle sue estreme conseguenze, rischia di volgersi sorprendentemente a suo favore. Oltre a biasimare chi compiange la tragicità dell’esistenza, Lacan si differenzia anche da chi spinge il pensiero pessimo verso le sue derive catastrofiche ed estinzioniste, sostenendo al contrario che la “disgrazia” dell’esistenza si consumerebbe proprio nella sua indefinita prosecuzione, e non nel rischio di una sua improvvisa cessazione:

Io non sono pessimista. Non succederà niente. Per il semplice fatto che l’uomo è un buono a nulla, nemmeno capace di distruggersi. Personalmente, un flagello totale promosso dall’uomo lo troverei meraviglioso. La prova che finalmente è riuscito a combinare qualche cosa, con le sue mani, la sua testa, senza interventi divini, naturali o altro. […] Il reale avrà il sopravvento, come sempre. E noi saremo, come sempre, fottuti[13].

Parafrasando Lacan, poiché l’uomo è un «buono a nulla», totalmente incapace di agire sul reale, essere «fottuti» ed esistere significano la stessa cosa: venire al mondo vuol dire incorrere nell’angoscia, un’angoscia originaria, primitiva, «costitutiva» della «comparsa» del soggetto[14], che non conosce alcuna compensazione certa[15]. Anche se dunque Lacan non arrivi mai a porsi apertamente contro l’esistenza, si può dire che per lui l’angoscia costituisca una componente indissociabile della nascita, un’esperienza inesorabile, a cui nessuno può sottrarsi. Da un punto di vista economico e speculativo pertanto, anche per Lacan la non-esistenza è, dopotutto, preferibile all’esistenza.

3. Lacan Pessimista

Appurata la complicità di Lacan con il pensiero pessimo, si tratta ora di delineare le tracce costituenti del Lacanismo nero. Rispetto alla coesistenza di più pessimismi, quello di Lacan può essere concepito come un originale pessimismo della futilità, un pessimismo di secondo grado, imperniato sulla sconsolante indifferenza del reale e sul primato logico dell’insensatezza dell’esistenza, articolabile in tre distinte direttrici: il pessimismo filosofico, il pessimismo politico, il pessimismo clinico.

3.1 Il pessimismo filosofico

Come è noto, per Lacan l’esistenza è definibile a partire dalla sua captazione in tre registri: l’immaginario, il simbolico e il reale. Nel corso degli anni, Lacan rimaneggerà più volte la sua «triade infernale»[16], riconcependone sia le caratteristiche discrete, che il rapporto di interrelazione. Per quanto riguarda l’immaginario, Lacan associa sin da subito tale registro all’alienazione, al misconoscimento e all’“ottusità” animale. L’immaginario è il registro dell’aggressività pulsionale, nonché la principale molla delle formazioni sintomatiche umane: i sintomi, che provocano disagio e sofferenza, sono descritti in Funzione e campo come dei «camuffamenti» immaginari dell’inconscio[17]. Non solo per il Lacan filo-hegeliano dei primi anni ’50 la risoluzione del sintomo avverrebbe tramite una bonifica dialettica dell’immaginario, ma l’ipotetica presenza di un immaginario-senza-simbolico farebbe piombare l’animale umano in una bestialità genocida/suicida, eventualità che porrebbe rapidamente fine all’intera razza umana. Dagli anni ’70 in poi, pur rivalutando l’immaginario e depurandolo della sua componente cieca e irrazionale, la revisione di Lacan sarà tutt’altro che ottimistica: l’immaginario è ora una valvola che inibisce il pensiero, uno scotoma cognitivo, o un anestetico che addormenta l’uomo sedandolo con illusorie costruzioni fantasmatiche.

Quanto al simbolico, il registro più elaborato dei tre, è possibile enumerarne numerose definizioni e ridefinizioni, tutte contraddistinte da una più o meno velata nota pessimistica. Lacan identifica il simbolico con la cultura, il linguaggio, ma anche con l’inconscio, tre sfere che dovrebbero sancire la separazione dell’animale umano dagli altri “semplici” animali. Già prima di arrivare a bollare il simbolico come il centro della «debilità mentale» umana, egli decostruirà una per una queste sfere, finendo per inscrivere tale registro sotto il segno di un virulento fatalismo. Negli anni ’60, Lacan definirà la cultura la «cloaca maxima» della civiltà, una fogna che ci «scarica completamente dalla funzione di pensare»[18]. L’apparato di simboli e convenzioni che l’uomo lascia dietro di sé non è altro che un sistema di «tubature e fogne», deputato ad accumulare «detriti» e sostanze di scarto[19]. Analogamente, con la grande virata degli anni ’70, Lacan ripudierà la catena significante e proclamerà l’inesistenza del linguaggio, ridefinendolo come una fallimentare «elucubrazione di sapere su lalingua»[20]. Il linguaggio, il presunto attributo specie-specifico che ci renderebbe una specie superiore alle altre, è un mero artificio per venire a patti con il fatto che si parli, con l’evidenza che ci sia un dire. A sua volta, questo dire è un «virus»[21], un «bubbone»[22] che «devasta»[23] irreparabilmente l’animale parlante. Lungi dal costituire una funzione intenzionale, strumentale o direttiva, il linguaggio parla l’uomo, gli mette le parole in bocca, asservendolo ad una forma di godimento coattiva e, spesso, traumatica. Rispetto all’inconscio, la tesi di Lacan sarà ancora più irremovibile: nel Seminario XXIV, egli dirà non solo che l’inconscio, di per sé, non esiste (teoricamente parlando, l’inconscio è il tentativo di rendere razionale una svista della coscienza), ma anche che la stessa logica delle manifestazioni che regola le sue formazioni è piegata ad una insondabile fonte di disagio: l’inconscio ci fa godere, ma anche soffrire grandemente[24].

Il reale infine è il registro più sconsolante, il cui postulato basterebbe da solo a decretare Lacan un pessimista. La diagnosi di Lacan in questo caso rimane chiara e piuttosto costante: da registro puramente negativo (inferibile solo indirettamente), esso diventa l’impossibile (il non simbolizzabile), lo «zero assoluto»[25], ciò che, con crudele indifferenza, ritorna sempre al suo posto. Il reale rappresenta a tutti gli effetti il grande contributo lacaniano alla tradizione pessimista, il nocciolo della definitiva futilità dell’universo. Negli ultimi anni, questa indifferenza sarà estremizzata e frammentata in uno sciame di pezzi staccati, schegge traumatiche che non si condensano mai a formare un “tutto” consistente. Prevaricando sugli altri registri, il reale diffonde su di loro la propria endemica indifferenza: poiché ciascuno dei suoi pezzi è inaccessibile per definizione, anche il simbolico e l’immaginario divengono retroattivamente qualcosa di futile, in quanto incapaci di fare legame con il reale. La vita dell’essere umano è consegnata ad una totale impotenza.

A causa di questa profonda asimmetria, il sapere in ogni sua forma si riduce per Lacan ad una scialba consolazione, un velo che pospone temporaneamente il ritorno dell’angoscia. Il sapere filosofico ad esempio è un marchingegno difettoso, di cui diffidare «come la peste»[26]: la filosofia è un apparato che «gira in tondo» e che, anziché fornire una base all’incertezza ontologica del soggetto, è capace solo di nutrire le Università[27]. Analogamente, il sapere religioso è un grande business, una struttura capace di «dare senso a qualunque cosa»[28]. Di fronte alla religione, «inaffondabile» e schizofrenica, il sapere scientifico non può che mostrare la propria insufficienza. La scienza è per Lacan la quintessenza della futilità, l’esempio più lampante di come ogni sapere sia destinato allo scacco. Per dirla con il pessimismo cosmico di Thacker, la disillusione della scienza equivale alla triste realizzazione di come «dietro il velo della causalità in cui avvolgiamo il mondo non vi sia che l’indifferenza»[29]. Incapace di arginare l’angoscia del reale, la scienza si limiterebbe a fornirci dei gadget, dei gingilli tecnologici per «violentare la natura»[30]. A questi saperi, Lacan ha per lungo tempo contrapposto quello psicoanalitico, che nella logica dei discorsi figura come il solo in grado di prendere sulle proprie spalle la brutalità del reale. Tuttavia, con il prosieguo del suo insegnamento, Lacan ridimensionerà drasticamente le capacità critiche della psicoanalisi, tanto da dire prima che, in un prossimo futuro, quest’ultima sarà spazzata via dalla religione, poi che, in fin dei conti, il suo sapere non è altro che un «sapere di sapere»[31], l’ennesima inaccettabile pretesa di dire qualcosa sul reale.

Negli anni ‘70, Lacan concretizzerà l’insieme delle sue tesi in quella che lui stesso definirà la “verità d’incompletezza”: l’idea che non esista alcun “tutto” se non a «buchi e pezzi»[32], e che ciò che siamo soliti chiamare il «mondo» sia fondamentalmente «immondo», parti staccate che nessuna logica riesce a tenere assieme[33]. Con la verità d’incompletezza, siglata nella celebre formula del «non c’è rapporto sessuale», quello di Lacan si consacrerà come uno dei più micidiali pessimismi, un sistema paradossale e cupo che, parafrasando Edgar Saltus, offre una «dissoluzione razionalista» della realtà, la definitiva impossibilità di attribuire un senso all’esistenza.

3.2 Il pessimismo politico

Politicamente, la principale tesi del Lacanismo nero mira a ribaltare l’idea che Lacan possa essere considerato un pensatore dell’emancipazione, un presunto erede della sinistra hegeliana o un marxista sui generis. Più che dal lato della Rivoluzione, il nocciolo politico della psicoanalisi lacaniana cadrebbe dal lato della Reazione, ma in un modo del tutto particolare: pur non proclamandosi mai direttamente reazionario, Lacan ha lasciato numerose tracce che favorirebbero un ripensamento politico e dialettico della Reazione. Cerchiamo di capire perché.

Lacan si è sempre dimostrato avverso ad ogni sistema ideologico. Come chiosa sprezzantemente nel Seminario VII, per quanto agli antipodi, comunismo e capitalismo rimarrebbero preda della stessa logica d’interesse, epitomata nella formula «per il desiderio, ripassate un’altra volta»[34]. Sia il capitalismo che il comunismo si sottrarrebbero alla prospettiva di un “futuro migliore” per l’umanità, e la loro definitiva instaurazione non farebbe che ribadire una nuova ed ennesima forma di asservimento: non esiste una società felice, nemmeno in potenza, e tutto ciò che si staglia davanti a noi è l’insopprimibile disagio della civiltà. In secondo luogo, Lacan non ha mai fatto segreto della propria insofferenza verso le fazioni politiche, ripudiando qualunque schieramento ufficiale. Nello stesso seminario, egli definisce l’intellettuale-tipo di sinistra come un «fool», un «sempliciotto» o un «ritardato» in grado di esprimere solo le «verità» che sono «tollerate» dal sistema sociale. Non diversamente, l’intellettuale di destra sarebbe un «knave», un «furfante» il cui unico pregio sta nel non avere scrupoli nel mostrarsi per quello che è veramente: una «canaglia»[35]. Non sorprende allora la severità di Lacan verso i proclami rivoluzionari, o nei confronti di tutte quelle tesi programmatiche che prospettano un’emancipazione a venire: nel clamore del maggio ’68, egli sentenziò con desolante fermezza che chi insorge non farebbe altro che reclamare un nuovo padrone. La Rivoluzione è indissociabile dal suo riferimento al movimento galattico, e «non c’è niente di rivoluzionario nel ricentramento del mondo […] intorno al sole»[36]. Non solo per Lacan quella rivoluzionaria è una pura ideologia, un insieme di assunti che non agiscono in alcun modo sul reale, ma anche laddove fosse possibile insorgere, laddove si producesse un’effettiva breccia nel sistema, tale atto non farebbe che instaurare il dominio di un nuovo significante padrone. Questa posizione trova ampio consenso tra le fila del pensiero filosofico reazionario, ponendosi su quella stessa traiettoria che, partendo da Joseph de Maistre, arriva fino a un pessimista radicale come Cioran:

Non è veramente rivoluzionario che lo Stato pre-rivoluzionario, quello in cui gli spiriti sottoscrivono il doppio culto dell’avvenire e della distruzione. Fin quando una rivoluzione non è che una possibilità, trascende i dati e le costanti della storia, ne supera per così dire il quadro; ma, dal momento che si stabilizza, vi rientra e vi si conforma e, prolungando il passato, ne segue il solco; vi riesce così bene che utilizzerà i mezzi della reazione che aveva poco prima condannati[37].

Giunta alla sua conclusione, ogni insurrezione si rovescia necessariamente in un regime reattivo: il significante padrone decade solo nella misura in cui la sua posizione è rimpiazzata da un ennesimo significante, che distruggerà retroattivamente i principi dell’atto rivoluzionario. La libertà è un miraggio, un discorso ingenuamente «moderno», e per questo «inefficace» e «profondamente alienato» nei fumi delle contingenze storiche[38]. Se esiste un soggetto realmente emancipato, libero dalle costrizioni del significante padrone, è lo psicotico, un «martire» incapace di «ristabilire il senso di ciò di cui testimonia, e di condividerlo nel discorso degli altri»[39]. In linea con questa cinica rassegnazione politica, Lacan ha plasmato nel corso degli anni una implicita ma decisa filosofia reazionaria che, pur criticando l’insufficienza delle istituzioni umane e l’amarezza dell’asservimento, ne ribadisce al contempo l’assoluta necessità. Tale pensiero è inestricabile dal rapporto di Lacan con l’istituzione psicoanalitica tout court: il «gruppo psicoanalitico», come proclamerà ne Lo stordito, è «impossibile», una formazione sorretta da una «oscenità immaginaria»[40], tuttavia, non c’è scomunica, espulsione o persino dissoluzione che non sia raddoppiata dalla ricostituzione di una Scuola. In tal senso, pessimismo e pensiero reazionario costituiscono le due facce della stessa medaglia, i due lati di una medesima e “nera” matrice di pensiero.

3.3 Il pessimismo clinico

A prima vista, psicoanalisi e pessimismo potrebbero sembrare in esclusione reciproca. Essendo una clinica, una pratica del “benessere” che valorizza la conservazione dell’individuo, la psicoanalisi apparirebbe del tutto impermeabile al pensiero pessimo. Ciononostante, questa antitesi è solo apparente. Per cogliere la complicità tra psicoanalisi e pessimismo è sufficiente riferirsi a Freud. Non è stato forse proprio il padre della psicoanalisi che, con la sua grande intuizione sulla pulsione di morte, ha piegato la vita al desolante fatalismo della tanatotropia? Nella sua veste speculativa e clinica, la pulsione di morte è uno dei concetti più terrificanti del pensiero pessimista, tanto da rischiare di trascinare nel suo insondabile abisso la stessa psicoanalisi. Il Todestrieb renderebbe la vita un intervallo trascurabile, una scintilla che brilla effimera nel grande sbadiglio della morte. Ogni esistenza è un momento, una piega trascurabile presto riassorbita nel grande vuoto della non-esistenza. Che venire al mondo sia un «trauma»[41] oppure no, è innegabile che seguire la pulsione di morte implichi concepire la vita come qualcosa di puramente indifferente al registro del reale.

Nel suo significato clinico, la pulsione di morte esprime la tendenza del soggetto a rimanere fissato alle proprie esperienze traumatiche, che verrebbero rimesse in atto in una varietà di situazioni e condizioni differenti, ripresentando di volta in volta il proprio carico di angoscia e sofferenza. Tuttavia, ad essere estremamente interessante è il fatto che Lacan non assuma del tutto l’intuizione di Freud. Pur insistendo sulla centralità del concetto, Lacan sfronda la pulsione di morte della maggior parte delle sue componenti speculative, esaltandone invece proprio gli aspetti clinici. Nel Seminario II, Lacan dice che la pulsione di morte è «la maschera dell’ordine simbolico»[42], un’ancella del significante. Ascrivendo la pulsione di morte al simbolico, Lacan ne abbandona i rimandi biologici e insiste sulla necessità di separare il concetto da una presunta “nostalgia” per l’inorganico, perché l’idea che la morte abiti la vita è anch’essa un’elucubrazione futile, un fantasma che ci dispenserebbe dallo sforzo di pensare. Ciononostante, Lacan si impegna anche a portare il Todestrieb oltre Freud: mentre per quest’ultimo la pulsione di morte è “muta”, sempre già impastata con le pulsioni sessuali, per Lacan essa non è affatto una pulsione separata. «Ogni pulsione», scrive in Posizione dell’inconscio, «è virtualmente pulsione di morte»[43], intendendo sia che ogni pulsione tenda ad estinguersi nella ripetizione, sia che ognuna di esse rappresenti un tentativo di superare le soglie del principio di piacere, di spingersi dove il godimento è esperito sotto forma di dolore. In altre parole, anche se Lacan ripudia la pulsione di morte come visione del mondo, principio unificatore dell’organico e dell’inorganico, non rigetta la sua egemonia nella vita psichica del soggetto. Questo pessimismo di secondo grado è rinvenibile anche in altri concetti cruciali della psicoanalisi lacaniana, come nell’impossibilità di soddisfare il desiderio (l’oggetto è per Lacan inarrivabile, perché anziché essere davanti al soggetto gli è sempre alle spalle), o nel fatto che, poiché la pulsione è sempre parziale, centrata su se stessa, non vi sia mai rapporto con l’Altro (a meno che non lo si assuma fantasmaticamente, come oggetto). Questo insieme di evidenze contribuisce ad illustrare la posizione definitiva di Lacan rispetto alla pratica analitica. Per lui, non soltanto la psicoanalisi non è mai una “cura”, una terapeutica per “guarire” il soggetto dalla sofferenza del sintomo, ma è lo stesso metodo analitico ad essere profondamente labile, irrisolto: similmente al discorso politico, ciascuna separazione è sempre seguita da una nuova alienazione e, come rimarcherà l’ultimo Lacan, la fine dell’analisi «non consiste nel far sì che ci si liberi dai propri sintomi», ma unicamente nel sapere il modo singolare in cui «si è impietriti» da essi[44]. Anche l’analista è una figura altamente sospetta. Nel Seminario XI, ancor prima di gettarsi nelle più fosche fasi finali del suo insegnamento, Lacan dirà che «nella vita intima di ogni psicoanalista, l’impostura incombe»: non diversamente dal proprio analizzante, anche l’analista è un soggetto che «si ripara» come può, «con un certo numero di cerimonie, di forme e di riti»[45]. Cosa occorre fare dunque?

4. Coda: Rassegnazione infinita?

Nonostante le apparenze, il supremo atto di negazione del Lacanismo nero non deve essere confuso con una forma di rassegnazione nichilistica e senza appello. Tutt’al contrario, il grande impegno del Lacan pessimista sta proprio nel non limitarsi a “distruggere” il mondo (un’accusa frequentemente rivolta agli esponenti del pessimismo), ma nel riuscire a fornire una base originale per conquistare una nuova consapevolezza rispetto all’insensatezza del reale. Per dirla con Cioran, anche Lacan si sarebbe reso conto che «prendere coscienza della nostra radicale distruttibilità» può arrivare a costituire una paradossale forma di «salvezza», un pessimismo al di là del pessimismo[46].

Il pensiero pessimo di Lacan equivarrebbe allora ad un tipo di negazione che, pur aborrendo la consolazione del senso, insegna ad abitare in qualche modo il deserto del reale. Anche il disincanto del mondo può avere un senso, ma a patto che esso sia sempre singolare, insignificabile e incomunicabile. Nel gergo lacaniano, tale attraversamento del pessimismo prende un nome specifico: sinthomo, l’allaccio unico e irripetibile, sempre sull’orlo della disfatta, con cui ciascuno di noi assume il peso della verità d’incompletezza. Il pessimismo lacaniano non si limita dunque a dischiudere la fondamentale inservibilità del senso, il fatto cioè che la consolazione da esso procurata sia transeunte e inconsistente, ma ribadisce anche che il senso, oltre che inservibile, è ineliminabile. Da un lato, l’animale umano non trae alcun concreto beneficio dal ricorso al senso, dall’altro però il senso è anche persecutorio, indistruttibile: il senso e la sua amara fallibilità sono le due facce di una stessa medaglia, e ciascun soggetto è destinato a rimanere intrappolato nel rimbalzo indefinito tra la caduta del senso e la sua inesorabile riaffermazione. È proprio questo apparente raddoppiamento del pessimismo che, tangendo il limite dell’estrema rassegnazione, apre il campo ad una possibile via d’uscita: infondo, a renderci umani sarebbe proprio la nostra capacità di patire indefinitamente il trauma del disincanto. È quest’ultimo particolare che fa di Lacan un pessimista anziché un nichilista: il fatto che il carattere immondo del mondo permetta comunque un’azione partecipativa. Il fatto che sia possibile lasciare aperto uno spiraglio di prassi etico-politica anche in quel desolante vuoto cosmico che Pascal definì fascinosamente il «silenzio eterno degli spazi infiniti».


[1] Cfr. F. Roustang, The Lacanian Delusion, trad. ing., Oxford University Press, Oxford 1990, pp. 3-17.

[2] Cfr. É. Roudinesco, Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero, trad. it., Cortina, Milano 1995, pp. 413-416.

[3] E. Thacker, Infinite Resignation, Repeater, London 2018, p. 3.

[4] E. Saltus, The Philosophy of Disenchantment, Okitoks Press, New York - NY 2017, p. 5.

[5] J.-C. Milner, L’opera chiara. Lacan, la scienza, la filosofia, Orthotes, trad. it., Napoli-Salerno 2018, p. 30.

[6] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it., Mondadori, Milano 2014, p. 1500.

[7] Per la nozione di transito come perversione della filosofia si veda M. Perniola, Transiti. Filosofia e perversione, Castelvecchi, Roma 2003.

[8] J. Lacan, Il seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione 1958-1959, trad. it., Einaudi, Torino 2016, p. 329.

[9] Id., Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale 1956-1957, trad. it., Einaudi, Torino 2007, p. 255.

[10] Id., Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo 1975-1976, trad. it., Astrolabio, Roma 2006, p. 10.

[11] Ibidem.

[12] Si vedano D. Benatar, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, trad. it., Carbonio, Roma 2018; e J. Crawford, Confessions of an Antinatalist, Nine Banded Books, Charleston - WV 2014.

[13] J. Lacan, Freud per sempre, in La Psicoanalisi, 41, Astrolabio, Roma 2007, p. 19.

[14] Id., Il seminario. Libro X. L’angoscia 1962-1963, trad. it., Einaudi, Torino 2007, p. 176.

[15] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 1500.

[16] J. Lacan, Le séminaire. Livre XXII. R.S.I. 1974-1975, inedito, lezione VI.

[17] Id., Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Id., Scritti, trad. it., Einaudi, Torino 2002, p. 234.

[18] Id., Il mio insegnamento, la sua natura e i suoi fini, in Id., Il mio insegnamento e Io parlo ai muri, trad. it., Astrolabio, Roma 2014, pp. 58-59.

[19] Ibidem.

[20] Id., Il seminario. Libro XX. Ancora 1972-1973, trad. it., Einaudi, Torino 2011, p. 133.

[21] Id., Le séminaire. Livre XXI. Les non-dupes errent 1973-1974, inedito, lezione II.

[22] Id., Il sintomo, in La Psicoanalisi, 2, Astrolabio, Roma 1987, p. 22.

[23] Id., Il trionfo della religione, in Id., Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, trad. it., Einaudi, Torino 2006, p. 104.

[24] Cfr. Id., Le séminaire. Livre XXIV. L’insu que sait de l’une bévue s’aile a mourre, inedito, lezioni I, II.

[25] Id., Il sinthomo, cit., p. 117.

[26] Id., Il trionfo della religione, cit., p. 110.

[27] Cfr. Id., L’insu que sait, cit., lezione I.

[28] Id, Il trionfo della religione, cit., p. 96.

[29] E. Thacker, Cosmic Pessimism, Univocal, Minneapolis – MN 2015, p. 15.

[30] A. Caraco, Breviario del caos, trad. it., Adelphi, Milano 1998, p. 52.

[31] J. Lacan, L’insu que sait, cit., lezione V.

[32] Ivi, lezione I. 

[33] Id., Il trionfo della religione, cit., p. 97.

[34] Id., Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi 1959-1960, trad. it., Einaudi, Torino 2008, p. 369.

[35] Ivi, p. 215.

[36] Id., Lo stordito, in Id., Altri scritti, trad. it., Einaudi, Torino 2013, p. 417.

[37] E. Cioran, Saggio sul pensiero reazionario, trad. it., Medusa, Milano 2018, p. 80.

[38] J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi 1955-1956, trad. it., Einaudi, Torino 2010, p. 153.

[39] Ivi, p. 151.

[40] Id., Lo stordito, cit., p. 472.

[41] Cfr. ad esempio O. Rank, Il trauma della nascita, trad. it., Sugar editore, Milano 1996.

[42] J. Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi 1954-1955, trad. it., Einaudi, Torino 2006, p. 275.

[43] Id., Posizione dell’inconscio, in Scritti, cit., p. 852.

[44] Id., Le séminaire. Livre XXV. Le moment de conclure 1977-1978, inedito, lezione IV.

[45] Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, trad. it., Einaudi, Torino 2003 p. 259.

[46] E. Cioran, Il funesto demiurgo, trad. it., Adelphi, Milano 1986, p. 159.

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