Le affinità elettive o sull’amore disperato
«Sinora la mia vita è stata soltanto un preludio, un indugiare, oziare, sprecar tempo, sinché non ho trovato lei, non l’ho amata e ho conosciuto l’amore autentico […]. Voglio vedere ora chi mi supera in fatto d’amare. Certo, è un’arte miseranda, di dolori e di pianto. Ma io, per me, la trovo naturale, e così mia, che difficilmente vi rinuncerei.»[1]
Non esiste un romanzo di Goethe che riesca a conciliarne il lavoro scientifico e la sperimentazione poetica, che ci restituisca il Goethe scienziato (o, direbbe qualcuno, “esploratore”) dell’anima, in maniera più riuscita de Le affinità elettive (Die Wahlverwandtschaften, 1809). Dal concetto chimico-alchemico che dà il titolo al testo si schiude un quadro clinico dei rapporti e degli istituti sociali dell’epoca, uno su tutti il matrimonio, al contempo figli e vittime del caro vecchio eros. Tuttavia, la stratificazione dei significati del romanzo non è più di tanto costruita su questa forza, non si sviluppa a partire da essa, ma concresce in e sull’eros. Secondo quali meccanismi? Un tentativo di spiegazione viene dalla chimica, in particolare dalla scoperta delle affinità elettive, che Goethe trasporta sul piano umano.
«Quelle sostanze che, incontrandosi, subito si compenetrano e si influenzano reciprocamente, le chiamiamo affini. […] Ad esempio, ciò che chiamiamo calcare è una terra calcarea più o meno pura, intimamente legata ad un acido debole, che noi conosciamo allo stato gassoso. Se immergiamo un pezzo di questa pietra in acido solforico diluito, questo attacca la calce che si trasforma in gesso, mentre l’acido debole e aeriforme si libera. In tal modo è avvenuta una separazione e una nuova combinazione, e ci si sente davvero autorizzati ad impiegare la parola “affinità”, perché sembra proprio che una relazione venga anteposta a un’altra, che si faccia una scelta. […] in sostanza, è solo questione di occasioni. L’occasione genera le relazioni, come fa ladro l’uomo. […] Nel caso in questione, mi dispiace solo che quel povero acido aeriforme debba tornare ad arrabattarsi per l’infinito.»[2]
Il matrimonio di Charlotte (A) e Eduard (B) funziona a meraviglia. Innamorati e benestanti, si dedicano, con grandi ambizioni estetiche, alla cura della loro proprietà. Il loro, all’apparenza, inscalfibile rapporto attraversa qualche turbolenza con l’arrivo, presso la loro tenuta, degli altri due personaggi protagonisti. È soprattutto Charlotte ad essere inizialmente perplessa rispetto all’introduzione di un terzo nella vita di coppia, temendo che quell’elemento C possa legarsi a B, escludendo A. Eduard insiste e convince Charlotte a sfruttare l’occasione per richiamare dal collegio il quarto elemento, che avrebbe stabilizzato idealmente l’equazione. Conosciamo così il Capitano (C), vecchio amico di Eduard caduto in disgrazia, e Ottilie (D), giovane nipote di Charlotte, giudicata inadatta alla vita dell’istituto collegiale in cui si trova insieme a Luciane, la figlia che Charlotte ebbe dal suo primo (infelicissimo) matrimonio. Come in tutte le cose, è il caso di dire “beati i primi tempi!”: «può passare un certo tempo, prima che il nuovo ingrediente provochi una fermentazione rilevabile e trabocchi schiumeggiante oltre l’orlo. […] Ciascun membro della comunità si sentiva felice, e godeva della felicità altrui.»[3]
In un ritmo vitale scandito dalla fretta della corsa del destino, però, bastano una decina di pagine perché la decisione di accogliere i due ospiti si riveli fatale. Su un fronte, il Capitano e Charlotte vengono colti in fallo da un’attrazione reciproca inizialmente ambigua, ma non trascurabile; sull’altro, una passione amorosa incontenibile travolge Eduard ed Ottilie:
«Li univa reciprocamente un fascino indescrivibile, quasi magico. […] solo una stretta prossimità poteva acquietarli, ma pienamente, e quella prossimità bastava: non c’era bisogno di sguardi, di parole, di gesti, di un contatto; soltanto stare insieme. Allora non erano più due persone, ma una sola, in una beatitudine dimentica e perfetta, in armonia con se stesse e col mondo.»[4]
Da un lato Eduard, che non intende rinunciare al suo amore per la bella Ottilie, dall’altro la moglie Charlotte, decisa a resistere alle tentazioni. La situazione è destinata a sfuggire di mano e la sofferenza di Eduard, preda del desiderio, emerge di colpo durante l’ultima notte di passione tra i due coniugi, in cui egli immagina di unirsi ad Ottilie mentre fa l’amore con Charlotte, la quale, dal canto suo, sta immaginando nello stesso momento di concedersi al Capitano. Chimicamente parlando, B è pronto a legarsi a D, che giudica più “affine”, rompendo il suo legame con A, mentre A potrebbe fare lo stesso con C; dopo un po’ di schiuma e subbuglio, probabilmente l’equilibrio sarebbe presto ristabilito.
Le cose non vanno esattamente così, perché se potessimo diluire un po’ di realtà ed osservarne il comportamento dal vetro di una provetta, ci accorgeremmo ben presto che sì, le sue leggi sono quelle che sono, che dei legami A-C e B-D possiamo magari intravedere i contorni sfocati, ma senza poterne dichiarare propriamente lo stato di legame, appunto. Una (troppo) umana fitta nebbia di scelte, fraintendimenti, mezze parole, è pronta a frapporsi, forse per sempre, tra gli elementi protagonisti. L’esperimento si realizza in un campo senza spettatori, e Goethe lo sa. Qui dunque, il primo vero colpo di scena: il Capitano è costretto a trasferirsi per lavoro, mentre Charlotte, che ha fiutato l’attrazione fatale tra Ottilie ed il marito, cerca di cogliere la vantaggiosa occasione proponendo di “affidare” (per meglio dire, “spedire”) la giovane ragazza ad un’amica altolocata, che le avrebbe senz’altro riservato le migliori cure. Eduard è ovviamente contrario, al punto che, impassibile dinnanzi alle richieste della moglie, decide di lasciare la tenuta.
Inizia così la seconda parte del romanzo, in cui gli elementi B e C sono fuori dai giochi e le regole sono dettate dalla separazione. Eduard, devastato dalla nostalgia, decide di partire per la guerra, auspicando un po’ la morte, per porre fine ad una sofferenza ormai divenuta insopportabile, e un po’ una sopravvivenza segno-del-destino, che lo voleva veder combattere per unirsi finalmente all’Ottilie innamorata: «Niente al mondo le pareva incoerente, se pensava all’uomo che amava; senza di lui, non capiva che coerenza potesse mai esserci.»[5]
Nel frattempo, Charlotte scopre di essere rimasta incinta proprio dopo quell’ultima notte di passione con Eduard, che non saprà della gravidanza fino al suo ritorno a casa, dopo la nascita del piccolo Otto. Il neonato, guarda caso, somiglia spaventosamente al Capitano e soprattutto ad Ottilie, quasi come se il concepimento fosse avvenuto tra i gameti di pensiero unitosi quella notte nell’immaginazione dei suoi genitori biologici. Eduard, fuori di sé, dichiara il suo amore ad Ottilie:
«“Questo piccolo è nato da un adulterio duplice: divide me da mia moglie, e mia moglie da me, quando avrebbe dovuto unirci. Possa tu sentire, Ottilie, sentire davvero che quell’errore, quel delitto, non m’è dato d’espiarlo che tra le tue braccia!”. […] lei lo abbracciò, e lo tenne teneramente a sé. La speranza balenò via sopra il loro capo, come quando dal cielo cade una stella. Sognavano, credevano d’appartenere l’uno all’altra»[6]
Lo stesso giorno, mentre Eduard cerca di chiarire la situazione alla moglie, Ottilie attraversa in barca, insieme al piccolo Otto, il lago nei pressi dalla tenuta per rincasare. A partire da questo momento, sulle acque del lago, ad una manciata di pagine dalla fine del libro, prende vita un vortice di morte e caos, che congiungerà e separerà per sempre, e che preferiamo lasciare al lettore. Sia gli sforzi illuminati di Charlotte, figlia della ragione, di seguire il sentiero della rinuncia, che gli istinti fanciulleschi del marito, vengono messi a dura prova e piegati dal gioco del destino. Per non parlare di Ottilie, la cui purezza, apprendiamo leggendo alcune pagine del suo diario, viene inghiottita dalle ombre della sua anima fragilissima. Ed è proprio lei, o meglio, è il viso di lei, sono gli occhi di lei, ad essere il personaggio più caro a Goethe, che è la prima vittima di questa bellissima madonnina ammaliatrice e mistero della natura.
Se ci ostiniamo a muoverci nel dualismo tra lo scarabocchio della pulsione e le definizioni della ragione, finiremmo sempre per agognare, senza mai toccare, un equilibrio tra i due, sembra dirci Goethe. L’affinità elettiva, al contrario, scavalca entrambi, non distingue eros e logos, e si raggomitola in quelle «figure d’angeli serene, d’arcana affinità» disegnate lungo la capacità di intendersi con uno sguardo, di comprendersi senza quasi conoscersi, innescate da una chimica dei corpi e delle anime che godono di un piacere purissimo, nella vicinanza e nell’assenza. Diremmo allora che questa sintonia totale e folgorazione protratta è la re(l)azione eccezionale dell’affinità elettiva, che elegge, appunto, due mondi insonni e li fa vibrare assieme, dimentichi del tempo e spaesati nello spazio: «Le prese la mano e se la portò agli occhi. Erano forse le mani più belle che mai si fossero congiunte. Gli pareva che il cuore gli si fosse sgravato di un peso, che tra lui e Ottilie fosse crollato un muro»[7]. E ancora:
«[Eduard] a dormire non pensava affatto […]. Va in giro qua e là, è il più inquieto, il più felice dei mortali. Cammina per il giardino, che gli sembra minuscolo, entra nei campi e li sente sterminati. Torna indietro verso il castello, è sotto le finestre d’Ottilie, si siede sulla scala della terrazza. “Muri e serrature ci dividono” pensa, “ma i nostri cuori non sono disgiunti. L’avessi qui davanti, cadrebbe nelle mie braccia, io nelle sue, e cosa d’altro serve più di questa certezza!”»[8]
Le affinità elettive realizzano così una fusione tra vite interiori che ricaccia il sangue freddo nel Brodem primordiale e disarciona le ragioni. Et voilà, «arte miseranda, di dolori e di pianto», l’amore disperato: «nei pensieri e nelle azioni d’Eduard non v’è ormai misura alcuna. La certezza d’amare e d’essere amato lo spinge verso l’infinito. […] la presenza di Ottilie offusca ogni altra, è come sprofondato in lei, il suo essere dilaga totalmente incontro a Ottilie.»[9] E l’amante, spinto verso l’infinito, è disposto a tutto pur di tenere in vita quella rete smagliata che lo lega al suo eletto, anche se lontano, attraverso un lavoro certosino di lettura fra le righe, di disseminazione di indizi che l’amato saprà cogliere nella lontananza e che equivarranno al tocco verissimo di una carezza; così nasce, ad esempio, il «carteggio segreto» tra Eduard ed Ottilie.
L’amore guidato dalle Wahlverwandtschaften ci sgancia da quella «mediocre commedia a episodi» che è la vita senza amore, catapultandoci in un gioco di forze pericoloso che tende alla morte ed esclude qualsiasi forma di potere decisionale. Se, nella chimica, il rompersi e costituirsi dei legami fila liscio perché processo apatico, il travaglio umano dell’affinità elettiva include la ferocia del sentimento nella condizione d’esistenza dell’equazione. «Se l’amore può sopportare tutto, ancor meglio sostituisce tutto»[10], sostituisce noi stessi amanti, che ci uccidiamo negli amati e nell’amore. Così, poveri acidi aeriformi, ci volatilizziamo e ricominciamo ad arrabattarci per l’infinito.
[1] J.W. Goethe, Le affinità elettive, trad. it. Giorgio Cusatelli, Garzanti, Milano 1982, p. 132
[2] Ivi, pp. 36-37
[3] Ivi, p. 56
[4] Ivi, p. 268
[5] Ivi, p. 199
[6] Ivi, pp. 240-241
[7] Ivi, p. 58
[8] Ivi, p. 99
[9] Ivi, p. 100
[10] Ivi, p. 248