Antiviral
Quando la moglie è in vacanza – Concrezioni eidetiche
Più che di un film narrativo, o esclusivamente narrativo, potremmo parlare di Quando la moglie in vacanza (The Seven Year Itch, dir. B. Wilder, 1955), come di un un film-saggio sul divismo. Un’eziologia della figura divistica (nello specifico, di Marilyn Monroe), riconosciuta (e rappresentata) nel processo di concrezione attraverso cui un modello immaginario si incarna, si fa corpo. Ogni corpo divistico è il contenitore deputato a ospitare e pragmatizzare una determinata idea (termine qui impiegato nel senso più inclusivo possibile). Nello specifico, Monroe è una chimera costituita dal binomio sesso/innocenza. Ogni suo gesto, sguardo, parola nel film di Wilder è al contempo altamente erotico e infantile (o, se si preferisce, innocente). Doppio. Ma è la figura divistica tout court a essere doppia, di una doppiezza cristologica, dionisiaca: immaginario, incarnato. Il divo è sicuramente divino, ma la carne è un tramite fondamentale. Oltre a essere scaturigine della rete multimediale da cui ogni figura divistica è corollata (cinematografica, fotografica, televisiva, letteraria, etc), il corpo è la garanzia, la prova, che da quel cloud di immagini che ci sovrasta possa discendere, emergere, un totem palpabile, osservabile. Esperibile.
Quando la moglie in vacanza è tanto un saggio su “Marilyn” e sulle sue peculiarità quanto, ampliando lo spettro, sul chimerismo connaturale a qualsiasi figura divistica. Tralasciando dunque l’innocenza con cui dispiega il suo potenziale erotico, o l’erotismo di cui la sua innocenza è costantemente carica, vediamo come al momento della sua apparizione (una vera e propria epifania) a convivere e compenetrarsi nel corpo di Monroe siano divinità e carnalità.
“The Girl” (Marilyn Monroe, il cui personaggio resta nel film innominato) è invocata ed evocata da Richard Shermann (Tom Ewell), dal suo costante delirare monologante e immaginante: ogni sua visualizzazione mentale -sia essa un ricordo, un’ipotesi su ciò che accade altrove, una proiezione sempre eccessivamente rosea su ciò che il futuro ha in serbo- ha il tono e l’estetica di un film. L’uso di sovraimpressioni fa dello schermo uno schermo ulteriore: sul film di Wilder si sovraimprimono, periodicamente, i film di Shermann. Laddove Marilyn Monroe (l’assenza di un’identità finzionale precisa ci conduce inevitabilmente a individuare nella protagonista del film la stessa Marilyn) è la diva modello, Shermann si configura dunque come lo spettatore medio modello. Un uomo il cui bisogno di evasione è costantemente rimarcato, propenso alla fruizione di quei sogni fabbricati industrialmente che sono i film hollywoodiani, laddove è egli stesso a essere un dilettante filmaker. La sua mente è una fucina di melodrammi cinematografici, e la ragazza con cui si trova momentaneamente a coabitare non è che la sua creazione (allucinazione) meglio riuscita.
L’epifania della “Girl” segna il punto di congiunzione tra il film di Wilder e il meta-film di Schermann. Il corpo di Marilyn è un corpo transdimensionale: varca senza soluzione di continuità il portale che separa reale e immaginario, abitando il primo pur proveniendo del secondo. Non si limita a contaminare la realtà schermica di Quando la moglie è in vacanza sovrapponendovisi -momentaneamente, come gli pseudo-film di Shermann- per mezzo di dissolvenze incrociate. La abita, da protagonista. E innumerevoli sono i richiami fisiologici al suo essere, concretamente, corpo. Caldo, fame. Ristrettezze economiche. Fin dalla scena della sua apparizione, il chimerismo divinità/carnalità proprio della figura divistica è esemplarmente sintetizzato, condensato nella figura della “Girl”.
Incorniciata dalla porta, velata da una tenda semitrasparente, sugli archi della sognante musica di Alfred Newman: così veniamo preparati alla prima immagine di Monroe. Ma, una volta visibile nella sua totalità, i pacchi della spesa che la giovane donna tiene piuttosto maldestramente tra le braccia riconducono quell’immagine così eterea e imprendibile (in quell’attimo di indefinibilità formale) a una dimensione quotidiana, alimentare. Tutto nell’arco di quei pochi secondi necessari a varcare la soglia.
Antiviral
Nel film d’esordio di Brandon Cronenberg, Antiviral (2012), il rapporto equilibristico tra divinità e carnalità è totalmente sbilanciato verso il secondo termine. Al processo di concrezione se ne sostituisce uno, più radicale, di carnificazione. Nell’universo finzionale presentatoci da Cronenberg, il tessuto che intreccia figure divistiche e spettatoriali non passa più, esclusivamente, per la rete (multi)mediale convenzionale -vale a dire attraverso testi cinematografici, fotografici, letterari, e via elencando-, bensì per il doppio binario della contaminazione e del cannibalismo. È possibile acquistare la malattia dei propri divi favoriti, usufruendo dei servizi di cliniche specializzate come la Lucas Clinic, contraendo per endovena la malattia di cui essi stessi hanno originariamente sofferto così da stabilire una connessione diretta con loro. Oppure è possibile nutrirsi della loro carne, cibandosi delle bistecche ottenute tramite la clonazione delle cellule tumorali dei divi. Tutto è perfettamente legale, il mercato nero non è che una sintomatica escrescenza di un’industria perfettamente operante, florida.
Non vi sono epifanie, soglie. Il divo non è che un grumo di carne in costante espansione: si ramifica, si insidia (viralmente) nei corpi altrui. Alla fruizione “contemplativa” si sostituisce una sorta di sparagmòs del corpo divistico, perpetrato collettivamente, quotidianamente. Una fruizione alimentare (fino al parossismo del cannibalismo), carnale. Il corpo divistico non è più essenziale in quanto concrezione di valori eidetici (e dunque differenziali, e differenzianti il corpo del divo in questione in quanto significante specifico), bensì in quanto coacervo di corpi, scaturigine di carne da consumare, di agenti patogeni con i quali infettarsi per stabilire un contatto diretto, biologico, con il corpo-matrice. Un corpo dunque essenzialmente insignificante, in cui il valore differenziale è costituito eventualmente da una particolarità conformazionale (i genitali di Hannah Geist).
Il film di Cronenberg appare inevitabilmente come un’operazione anacronistica. Tra il 1955 e il 2012 il fenomeno del divismo ha sicuramente subito un processo di attenuamento per quel che riguarda le pratiche idolatriche. Le riprese a Manhattan della celebre scena di Quando la moglie è in vacanza in cui la gonna di Monroe è sollevata dal soffio della metropolitana si svolsero di fronte a una folla delirante (le cui urla incontrollate resero peraltro il girato inutilizzabile). Nel 2016, nessuno riconosce o importuna Henry Cavill (interprete di Superman nelle ultime operazioni cinematografiche del DCEU) in piedi di fronte alla gigantesca locandina di Justice League (dir. Z. Snyder). Di fronte, in altri termini, alla lapalissiana gigantificazione e idealizzazione del suo stesso corpo.
Ma l’operazione di Cronenberg è più sottile. Se il contenuto manifesto di Antiviral ci invita a pensare al fandom contemporaneo come a un organismo delirante, spasimante il ricongiungimento alla carne del divo, una perforazione dell’epidermide del testo ci porta a considerarlo come una rappresentazione non dell’intensificazione della pratica idolatrica del fandom, quanto del mutamento sostanziale delle pratiche fruitive in senso ampio. La volontà spasmodica di esperire, ricongiungendovisi, al corpo-matrice propria del fandom di Antiviral non è dunque che la sintesi del processo di metamorfosi subito da quel sopracitato corollario multimediale che cinge la star. Non è tanto l’idolatria del fandom a farsi più intensa e incontrollabile, quanto la presenza del corpo divistico a farsi più pervasiva. Parossisticamente pervasiva, in quell’ecosistema mediale oggi accecante, in cui ogni evento è prematuramente strappato all’illeggibilità e immediatamente divorato, svuotato, e privato violentemente del suo mistero. Tutto è subito carne, (in)significanza. Fino alla carnificazione della stessa dimensione ultraterrena: l’Afterlife di Hannah Geist non è che la sua carne, epurata di ogni significato, di ogni valore differenziale, in costante infezione e riproduzione. Un corpo materno, insignificante, in cui sprofondare dissolvendosi. Come ogni evento, immediatamente mediatizzato, divorato, epurato della sua singolarità misterica, sacrifica la sua esistenza al fluire accecante della storia evenemenziale contemporanea in cui ogni cosa è (troppo) illuminata.