Scienza, fisica, filosofia. Intervista a Carlo Rovelli
Simone Raviola/Arianna Locatello: Qual è il ruolo e il senso della ricerca scientifica nel nostro tempo? Delle molte definizioni possibili della scienza contemporanea, tre ci sembrano degne di rilievo. 1) La scienza (e la fisica in particolar modo) è semplicemente uno degli strumenti umani di semplificazione della vita. 2) La scienza funziona come “genere letterario”, strumento grazie al quale l’uomo racconta ciò che lo circonda (La scienza è dunque uno dei possibili modi di interpretare la realtà). 3) La scienza è uno dei modi con cui l’uomo insegue le sue necessità “spirituali”, siano queste a favore di o in conflitto con gli istinti vitali.
Secondo te, la scienza, oggi, è strumento vitale, atto mitopoietico o conoscenza fine a se stessa? Oppure un insieme di queste cose? Ci sono altre “forze” che guidano la scienza che non abbiamo qui considerato?
Carlo Rovelli: È tutto questo, e altro. La scienza è un’attività umana complessa, che coinvolge persone diverse, motivazioni diverse, attività diverse e risultati diversi. Come tutte le attività di questo genere, non si può racchiudere in un’unica formula che la definisca. È come chiedere che cosa sono le case. Servono per difenderci dalla pioggia, per soddisfare un bisogno spirituale di identità, oppure per permettere all’anagrafe di schedarci? Tutto questo, e molto altro ancora. Se si volesse cercare una caratterizzazione, io direi che prima della civiltà, per centinaia di migliaia di anni, gli uomini hanno usato le ricche risorse del loro cervello, particolarmente sviluppato rispetto agli altri mammiferi, in tre direzioni principali: per raccontarsi grandi narrazioni attorno al fuoco la sera, per litigare fra loro nello stabilire gerarchie, e per meglio comprendere dalle tracce dove si trovi l’antilope da cacciare. La scienza è l’evoluzione moderna di quest’ultima attività: imparare a decifrare tracce per vedere e prevedere qualcosa che per qualche motivo ci interessa. Ma l’umanità è complessa e le attività si influenzano sempre, l’antilope cacciata durante il giorno diventa un dio-antilope nei racconti serali. Le grandi narrazioni di cui vive il nostro pensiero si confrontano con le necessità concrete della vita, le influenzano e ne vengono influenzate. Il pensiero razionale per l’umanità si è rivelato la sua arma mentale più efficace, è quello che ci ha permesso di costruire città e case, ci ha permesso di vivere 80 anni invece di 20, ci ha fatto comprendere mille cose del mondo che non conoscevamo. È lo stesso pensiero che ci permetteva di seguire le tracce delle antilopi da cacciare. La sua caratteristica è quella di saper cambiare idea: pensiamo che le tracce vadano in una direzione, ma il nostro cuore è sempre teso verso il pensiero che forse ci stiamo sbagliando. Questi dubbi sono quelli che ci permettono di trovare le antilopi. Questi dubbi sono quelli di cui si nutre la scienza, che vive rimettendo in discussione di certezze. Poi, però, questa stessa operazione diventa pane per lo spirito, alimentata da una delle più grandi motivazioni istintive che la nostra natura di primati ci ha dato in eredità: una sfrenata curiosità. Vogliamo sapere. Vogliamo sapere cosa c’è dietro la collina, cosa c’è sulla luna, cosa c’è dentro la materia. Per cui la scienza non è solo il modo di pensiero che ha più possibilità di farci raggiungere l’antilope, o di farci raggiungere un vaccino per difenderci dal Covid: è anche un’attività motivata dalla pura curiosità. Il cacciatore dimentica l’antilope perché si è incuriosito di una piccola valle che non aveva mai notato prima. Non serve a nulla, ma è la curiosità che ci ha permesso di sapere tutto quello che sappiamo, che ha fatto l’intero nostro grandissimo ma ancora limitato sapere.
SR/AL: Negli ultimi tempi la scienza raccoglie sempre più avversari: scettici moderati, complottisti di varia natura, etc. Quali sono, secondo te, le cause di questo diffuso consenso anti-scientifico? Non è forse vero che la complessità di alcune scienze (la fisica, la medicina, etc) le sta rendendo perciò stesso sempre più elitarie (e in questo senso non popolari)? La scienza è democratica? Il tuo lavoro come divulgatore rappresenta in questo senso un tentativo di “fare ponte” tra la scienza e il corpo sociale?
CR: I nemici del pensiero scientifico ci sono sempre stati, non è una novità contemporanea. Giordano Bruno è stato bruciato vivo e i libri di Galileo sono stati bruciati. Venditori di rimedi magici hanno sempre riempito i mercati del mondo. Curiosamente, l’anti-scientismo attuale non è stato nutrito da una mancanza di spirito critico nella gente, ma da un eccesso di spirito critico. Tantissima gente crede di pensare con la propria testa perché legge delle scempiaggini online che criticano il sapere condiviso, e pensa di avere molto spirito critico prendendole per buone. Questa buffa situazione è all’origine dei terrapiattisti, degli antivax e di quelli che credono alle strisce nel cielo. Forse l’errore fatto, di cui anche io mi sento molto colpevole, è stato quello di continuare a dire alla gente “pensate con la vostra testa”. Il risultato è l’esplosione della stupidità. La scienza non è più complicata oggi di quanto non lo fosse in passato. Il libro di Copernico è più illeggibile di un testo tecnico di meccanica quantistica. La scienza è sempre stata fatta da relativamente pochi, ma non perché sia particolare: anche la politica, il calcio, la pittura e la musica sono fatte bene e in maniera innovativa da pochi. E anche alla scienza, come alla politica, al calcio, alla pittura e alla musica, possiamo però appassionarci e farci coinvolgere da essa.
SR/AL: Nel 2020, qual è il rapporto che vige tra filosofia e fisica? Queste “scienze” si parlano? Hanno qualcosa da dirsi? Il tuo libro L’ordine del tempo, ad esempio, mostra come l’interpretazione del tempo della fisica teorica e quella filosofica non si escludano a vicenda. Credi che sia nell’interesse della fisica teorica tentare di fare più luce sulla compatibilità di questi due modi di intendere il tempo? E non credi che sia giunta l'ora per la fisica di fare i conti, in maniera radicale, non solo con Aristotele e con Newton, ma anche con Heidegger, Deleuze e i grandi pensatori del Novecento?
CR: La fisica e la filosofia si sono sempre parlate. Per Kant è stato cruciale studiare a fondo Newton. Per Einstein è stato cruciale studiare a fondo Kant. Gli esempi sono innumerevoli. Deleuze mi ha appassionato da ragazzo, era una lettura obbligata per la mia generazione. Credo che qualcosa del suo pensiero mi sia rimasto, soprattutto per quanta riguarda un’organizzazione non gerarchica del sapere. Per quanto riguarda Heidegger, sono immerso proprio ora nella lettura di Essere e tempo. Sto arrivando alla fine e ci penso molto. Credo di trovarci qualcosa da imparare. Ma nonostante l’influenza che ha avuto Heidegger su alcune scuole in particolare, io non definirei né l’uno né l’altro “i grandi pensatori del Novecento”. Grazie al cielo, il Novecento ha prodotto molto altro pensiero.
SR/AL: Recentemente si è diffusa una nuova ondata di realismo all’interno della filosofia occidentale. Dopo secoli di criticismo (“non possiamo conoscere com’è fatto realmente il mondo poiché siamo sempre noi uomini a conoscerlo”), la filosofia sta tornando a costruire delle interpretazioni realiste del mondo. Un esempio su tutti è l’Object-Oriented Ontology di Graham Harman. Conosci Harman? In generale, cosa ne pensi della filosofia contemporanea? Chi apprezzi maggiormente tra i filosofi viventi?
CR: Conosco Harman. A me suona come ad un cattolico potrebbe suonare un mussulmano che esprima dubbi sul ruolo metafisico di Maometto. E in più trovo il suo realismo mal diretto: che senso ha andare a ricostruire la nozione di oggetto quando la fisica ha demolito questa nozione? Gli scienziati dovrebbero studiare più filosofia, ma anche i filosofi dovrebbero studiare la scienza contemporanea per non andare in direzioni che si rivelano sterili. I grandi filosofi del passato lo facevano, e questo dava solidità al loro pensiero. Io apprezzo e mi sento di imparare dai filosofi contemporanei che fanno lo stesso. Imparo da Bas van Fraassen, da Jenann Ismael, da David Albert, da Huw Price, da John Earman… E dai classici delle generazioni subito precedenti, Quine, Lewis… L’ubriacatura del criticismo, dell’idealismo tedesco, della fenomenologia alla Husserl mi sembra tutta un’immensa perdita di tempo. Non esiste un soggetto della conoscenza che sia separato ed esterno alla natura. Capiamo il soggetto a partire da quanto capiamo la natura, di cui noi siamo uno degli innumerevoli aspetti, non viceversa. È esattamente la prospettiva opposta ad Heidegger. Trovo il dibattito sul realismo tragicamente confuso. Esiste la realtà? Vi sembra una domanda sensata? Com’è costruita? Studiamola, siamo qui per questo. Il vero problema dietro queste questioni, io credo, è il problema della certezza e del fondamento. L’illusione di tanta filosofia è stata quella di voler cercare qualcosa che possiamo affermare con assoluta certezza che funga da fondamento per tutto. Io penso che sia una pia illusione. Tutte le proposte: la materia, Dio, lo spirito, gli atomi e il vuoto, le forme platoniche, le forme a priori della conoscenza, il soggetto, lo Spirito Assoluto, i momenti elementari di coscienza, i fenomeni, l’energia, l’esperienza, le sensazioni, il linguaggio, le proposizioni verificabili, i dati scientifici, le teorie falsificabili, l’essere dell’esserci, i circoli ermeneutici, le strutture… Nessuna è arrivata a convincere… Perché? Perché cercare “il fondamento’, io credo, è una domanda mal posta. Non significa nulla. Allora cosa sappiamo con assoluta certezza? Niente, io credo. È un problema? No, perché mai? Sappiamo tantissime cose con un sapere che è straordinariamente affidabile. Non certo. Quello che vogliamo è che qualcosa sia affidabile, non certo. Come scriveva in Cina Zhuangzi: abbiamo sognato di essere una farfalla, ma siamo sicuri, ora, di non essere altro che il sogno di una farfalla?
SR/AL: Uno dei problemi fondamentali della filosofia è la questione della verità. La verità è affare anche della scienza? Qual è la concezione della verità più diffusa nelle comunità di fisici? Che cos’è la verità per te? Credi che ci siano “depositari della verità” e che dunque il concetto stesso di “verità” significhi ancora qualcosa, o pensi piuttosto che i concetti da analizzare nel nostro tempo siano altri (probabilità, utilità, funzionalità, etc)?
CR: Dipende da qual è il problema. Se il problema è capire che cosa intendiamo nel nostro linguaggio comune quando usiamo l’espressione “verità”, mi sembra un problema interessante. La risposta classica, da Aristotele a Kant, è che la verità è concordanza fra un enunciato e uno stato di cose. È il senso normale che attribuiamo al termine, per esempio, quando un fidanzato geloso chiede “mi dici la verità?” Ci sono state analisi diverse più recenti e più sottili di cosa intendiamo per verità. Questo può essere interessante. Ma credo che la domanda a cui alludete sia diversa e che riguardi una ipoteca Verità, che scrivo con la V maiuscola. Una Verità finale e definitiva. Quella di cui appunto si sentono depositari in molti. Generalmente le Verità di cui gli uni e gli altri si sentono depositari sono diverse le une dalle altre. Per il papa, Gesù Cristo è figlio unigenito di Dio e Maometto è un signore qualunque; per Khamenei, Gesù Cristo è un profeta come tanti altri, e Maometto è il vero Profeta che porta la Verità. Penso che esistano depositari della Verità? Sì, appunto, ne è pieno il mondo, ognuno con la sua, diversa dalle altre. Esiste un ulteriore problema filosofico “della Verità”? Non lo so, qual è? Credo che uno dei grandi pensatori del Novecento (questo sì), Wittgenstein, ci abbia insegnato quanto spesso i problemi filosofici siano imbrogli che ci facciamo da soli perché usiamo parole che non sappiamo bene cosa vogliano dire. “Verità” (con la maiuscola) potrebbe essere una di queste? Ecco, questo mi piace della grande filosofia: insegna qualcosa che poi resta come strumento del pensiero, qualcosa che nutre il nostro bagaglio concettuale, ci insegna qualcosa che resta.
SR/AL: Ne L’ordine del tempo scrivi che non hai mai avuto paura della morte («La morte non mi fa paura»). È una frase che ci ha colpito molto. Che cosa ne pensi di quei filosofi, come Heidegger, secondo i quali il rapporto con la morte è ciò che conferisce senso all’esistenza umana? Forse non avere paura della morte è, come la solitudine, cosa divina o bestiale… Non trovi?
CR: La parte di Essere e Tempo sulla morte è affascinante. Trovo Heidegger interessante per diversi motivi, anche se temo che forse sono motivi che non gli piacerebbero: è uno psicologo piuttosto che un filosofo. O meglio, ha uno sguardo molto interessante, diretto sulla prospettiva di un essere umano vivente, lo trovo invece inutile quando prova a fare di questo il fondamento della nostra comprensione di tutto. Con la stessa logica, il fondamento dell’universo è Verona (dove sono nato io). Ma la sua descrizione della nostra situazione esistenziale, di come noi (maschi bianchi dell’Europa) ci rivolgiamo al mondo, è interessante. E mettere la morte al centro di questa descrizione mi sembra un’intuizione acuta. È la nostra finitezza e la consapevolezza di questa finitezza che ci segna. Noi viviamo nel tempo, non nel senso che la nostra esistenza si svolge nel tempo (anche un sasso vive nel tempo in questo senso), ma nel senso che viviamo nel passato e nel futuro, perché ricordiamo e anticipiamo, come ha intuito splendidamente il maestro di Heidegger, Husserl. Siamo narrazioni di noi stessi, memoria, nostalgia, desiderio. Ma questo orizzonte temporale è limitato dalla morte. Io non trovo nulla di tragico e spaventoso o brutto in questo fatto. Troverei agghiacciante la prospettiva di esistere in eterno, piuttosto. La vita è fatta di gioia e dolore, spero di averne una proporzione non troppo sfavorevole, ma in una misura totale ragionevole, non infinita. Quello che mi fa paura, piuttosto, è il dolore, la solitudine, il disamore.
SR/AL: La scienza afferma che il tavolo dove poggio il computer consiste in atomi legati tra loro; io, al contrario, vedo quattro gambe che reggono una superficie quadrata di legno ovvero un poggia-libri, poggia-chiavi, un poggia-x. La scienza descrive l’intima realtà delle cose – microscopica - che, nella mia quotidianità, osservo in maniera differente – macroscopica (e con cui mi rapporto principalmente attraverso l’uso). La scienza afferma che le stelle consistono in gas che bruciano a temperature inaudite, in esse io vedo però solo la forza dell’immensa volta celeste che m’abbraccia e mi stringe le arterie una sera d’autunno. La scienza descrive naturalisticamente ciò che, nel mio stare al mondo, percepisco come poetico, meaningful e misterioso. Esiste realmente tale dicotomia? È possibile una risoluzione armoniosa di questo dualismo? Come tenere insieme queste due visioni? Qual è la relazione fra questi due modi di vedere il mondo?
CR: Perché vedete una dicotomia? Se andate in un paese sulle Alpi, e guardate le montagne, le vedete coperte da un meraviglioso soffice velluto verde scuro: il bosco. Ma se vi incamminate per il sentiero che va verso il bosco, dopo un po’, l’uniforme verde scuro si sgrana in alberi diversi. Vi avvicinate ancora e scoprite che il tronco degli alberi è rugoso e pieno di anfratti. Poi vi avvicinate ancora e scoprite che negli anfratti si muove una coccinella. La prendete in mano e guardate la meraviglia dei suoi occhi iridescenti, e se guardate con una lente, vedete che ci sono innumerevoli piccole cellette… Dov’erano queste cellette quando vedevate il bosco da lontano come un informe velluto verde scuro? Non c’è nessuna dicotomia, c’è una continuità di sguardi più o meno vicini. Poi magari uno di voi non è mai entrato in un bosco e dunque della coccinella sa solo per racconti altrui, e quindi gli sembra un po’ più remoto. Ma ci sono racconti di cose remote a cui diamo grandissimo credito ed affidabilità. Io non sono mai stato a Sydney, ma mi fido di chi ci è stato, mi fido delle fotografie… Nello stesso modo mi fido di chi ha fotografato gli atomi e le galassie lontane.
E ora vengo al cuore della vostra domanda: «La scienza afferma che le stelle consistono in gas che bruciano a temperature inaudite, in esse io vedo però solo la forza dell’immensa volta celeste che m’abbraccia e mi stringe le arterie una sera d’autunno.» Ciascuno di noi risuona emotivamente a cose diverse. Conosco persone per le quali l’immensa volta celeste in una sera d’autunno fa solo pensare al bisogno di mettersi una maglia perché fa freddo. Ci sono persone che percepisco come poetico, meaningful e misterioso la volta del cielo notturno, altre che percepiscono come poetica, meaningful e misteriosa solo una canzone, e altre per cui la cosa più poetica, meaningful e misteriosa è proprio l’immensità delle galassie che non vediamo direttamente ma di cui abbiamo imparato con i telescopi, oppure l’immensa complessità della materia che abbiamo imparato con miscroscopi e con studi teorici. L’emozione di cui parlate non solo non è assente nello sguardo scientifico del mondo, ma al contrario ne è forse la più grande motivazione. Uno dei primi e dei più grandi libri di scienza mai scritti, l’Almagesto di Tolomeo, si apre con una citazione: «So che la mia natura è mortale, e di essere la creatura di un giorno, ma quando seguo a mio piacere i movimenti sinuosi degli astri, i miei pensieri non toccano più terra: sono alla presenza dello stesso Zeus e mi sazio d’ambrosia, cibo degli dei.» È l’emozione estrema del contemplare la magica e poetica regolarità dei movimenti del cielo, che non si mostrano direttamente all’occhio. Separare la scienza da ciò che è poetico, significativo e misterioso è come dire a un suonatore di violino: tu non fai nulla di poetico perché non fai altro che schiacciare corde con le dita e agitare un archetto con un braccio. È non percepire l’essenza di cosa sta facendo il violinista.
SR/AL: Ecco invece una domanda riguardo il tuo nuovo libro, Helgoland, uscito qualche settimana fa per Adelphi (una domanda che non potevamo esimerci dal fare, visto che nella seconda parte del libro dedichi pure il titolo di un capitolo alla nostra sconosciuta rivista…): quale spazio lascia alla conoscenza l’interpretazione relazionale della teoria dei quanti? Pensare il mondo come un rete di relazioni ed interazioni implica di poter descrivere il mondo solo dal suo interno. Mi viene in mente un grandissimo poeta e filosofo, Novalis, che definiva l’esterno come «un interno elevato allo stato di mistero». La tendenza, in parte passata, di alcuni filosofi e fisici a trattare il presunto “osservatore” esterno in modo speciale rispetto alle altre parti della natura, può voler dire che costoro si sono lasciati sedurre dall’idea di elevarsi alla posizione di quello «stato di mistero»? La condizione di ascolto della natura in cui ci poniamo descrivendo “dall’interno” ci consente di accedere ad un modo di conoscere più autentico?
CR: Io non credo esistano modi “autentici” e “non autentici” di esistere o conoscere (pace Heidegger). Ci sono tanti modi di esistere, e ciascuno è autentico a modo suo. Penso che il senso del mistero sia un senso genuino che abbiamo in noi, per nostra psicologia, che sia buono e guidi la nostra curiosità. Il ruolo privilegiato dato all’osservatore nelle prime formulazioni della meccanica quantistica è stato forzato dagli esperimenti, ma favorito da una errata metafisica: la metafisica idealistica o dualistica che è implicita nella formulazione classica del problema della conoscenza. L’intera idea su cui costruisce Helgoland è l’idea che il soggetto che conosce sia parte della natura che conosce e la nostra visione della natura deve poter rendere conto anche del soggetto che conosce ed elabora questa stessa visione… Non per arrivare alla Verità, ma perché questo è quel poco che (finora) abbiamo capito della realtà…
SR/AL: Un giovane studente di filosofia vuole leggere un libro di fisica contemporanea, capendoci qualcosa e senza perdersi nella matematica. Oltre a Carlo Rovelli, chi e che cosa consiglieresti? E perché?
CR: Huw Price sullo spazio e sul tempo (con cui concordo), David Albert sulla meccanica quantistica (ma non sono sempre d’accordo con lui). Jenann Ismael su cosa siamo noi nel mondo fisico (libero arbitrio, coscienza….). In Italia ci sono ottimi filosofi che conoscono bene la scienza contemporanea e ne scrivono, come Mauro Dorato e Vincenzo Fano.