Il lavoro dell’inumano
Pur con alcune lievi eccezioni, Il lavoro dell’inumano (2014) può essere considerato a tutti gli effetti una sintesi anticipatoria di Intelligence and Spirit (2018), il più recente e impegnativo lavoro del filosofo iraniano Reza Negarestani. In questo testo denso, complesso, a tratti ermetico, Negarestani propone un serrato ripensamento delle categorie dell’umano, dell’anti-umano e dell’inumano, avanzando la tesi che l’inumanismo non sia altro che l’estensione dell’elaborazione pratica dell’umanismo, l’espressione continuativa e parossistica delle capacità pratico-cognitive della ragione. Colta come un lavoro di progressiva emancipazione dai propri vincoli, la ragione non si rivela solo un formidabile vettore di revisione e di riprogettazione delle facoltà razionali, ma anche quanto di più inumano e catastrofico alberghi nell’umano.
Traduzione a cura di Gioele P. Cima
Parte I: l’Umano
L’inumanismo è l’estensione dell’elaborazione pratica dell’umanismo. Esso scaturisce da un diligente impegno nel progetto dell’umanismo illuminista. Onda universale che cancella l’autoritratto dell’uomo disegnato sulla sabbia, l’inumanismo è un vettore di revisione che rielabora incessantemente il significato dell’essere umani, rimuovendone i tratti apparentemente auto-evidenti e conservandone alcune invarianti. Allo stesso tempo, l’inumanismo si pone anche come un progetto di costruzione che, trattando l’umano come un’ipotesi costruibile, uno spazio di navigazione e di intervento, richiede di definire cosa voglia dire essere umanii.
L’inumanismo si oppone concretamente a qualsiasi paradigma che tenti di degradare l’umanità, di metterla di fronte alla propria finitudine o di umiliarla davanti al Grande Fuori. In buona parte, il suo lavoro consiste nel depurare il valore dell’umano da qualsiasi significato predeterminato o dalla sua particolare importanza così come stabilito dalla teologia – così da ripulire la comprensione del valore umano da qualsiasi venerazione derivante da qualche genere di giurisdizione teologica (Dio, un’ineffabile genericità, un assioma fondazionalista, eccetera)ii.
Quando il tronfio e onorifico concetto di uomo è rimpiazzato da un contenuto reale, minimalista ma funzionalmente consequenziale, anche il culto umiliante frutto della confusione teologica tra il significato e la venerazione perde il proprio slancio deflazionista. Incapace di preservare il proprio valore senza ricorrere ad un’idea di crisi cagionata dalla teologia, o di estrarre il significato dell’umano sbrogliando il nodo patologico tra importanza reale e glorificazione, l’antiumanismo dimostra di trovarsi sulla stessa bagnarola teologica che appare tanto determinato ad affondare.
Incapace di identificarsi in base alla fisica che lo postula, anziché secondo la metafisica che lo gonfia, l’unica soluzione dell’antiumanismo per superare la propria presunta crisi di significato consiste nell’affidarsi all’eterogeneità culturale di false alternative (le sempre più numerose varianti di ritirate comunitarie, post- qualcosa, come le cosiddette alternative alla totalità, e così via). Radicate in un sincretismo originario mai risolto, tali alternative oscillano costantemente tra estremi bipolari – inflazioniste e deflazioniste, mistificanti e demistificanti -, spargendo una nebbia di libertà che soffoca qualsiasi ambizione universalista e ostacola la collaborazione metodologica necessaria a definire e raggiungere un obiettivo comune per uscire dall’attuale pantano planetario.
In breve, il netto eccesso di false alternative propinato dai programmi della libertà liberale conduce ad un deficit terminale di alternative reali, imponendo al pensiero e all’azione l’assioma che, di fatto, non esista alcuna alternativa. La principale tesi di questo saggio è che l’universalità e il collettivismo non possano essere pensati, tanto meno raggiunti, tramite il consenso o il dissenso tra tropi culturali, ma solo intercettando e sradicando ciò che dà vita all’economia delle false scelte, ed elaborando attivamente e a pieno la consistenza del valore umano.
Come vedremo, la verità del valore umano – non nel senso di un significato originario o di una dote naturale, ma di un lavoro che elabori ampiamente cosa voglia dire essere umani, praticato attraverso una serie di performance espandibili – è rigorosamente inumana.
Pensando l’umanità da un punto di vista storico – nel senso psico-biologico e socioeconomico più ampio della storia - come un’indispensabile fuga verso di sé, la forza dell’inumanismo opera come un deterrente retroattivo contro l’antiumanismo.
Ma che cos’è l’umanismo? Quale specifico tipo di impegno designa l’essere umani, e in che modo la sua piena elaborazione pratica ci condurrebbe all’inumanismo? In altre parole, cos’è che nell’umano dà forma all’inumano, una volta che quest’ultimo si sviluppa nei termini delle sue prerogative e delle sue conseguenze? Per rispondere a simili domande, dobbiamo prima definire cosa voglia dire essere umani e quale sia l’esatto impegno che questa condizione comporti. Dopodiché, occorrerà analizzare la struttura di un simile impegno, in modo da comprendere come la sua assunzione – in senso pratico – tenda all’inumanismo.
1. L’impegno come elaborazione estesa e multimodale
Un impegno ha senso soltanto in virtù del suo contenuto pragmatico (significato tramite uso) e della sua necessità di adottare un’attitudine interventista. Sarebbe a dire, un’attitudine che tenti di elaborare il contenuto di tale impegno, così da aggiornarlo seguendo le ramificazioni e gli impegni collaterali esplicitati nel corso di tale elaborazione. In breve, un impegno – sia esso assertivo, inferenziale, pratico o cognitivo – non può essere né esaminato né propriamente assunto senza il suo rispettivo processo di aggiornamento e senza dispiegare le sue conseguenze attraverso una completa gamma di pratiche multimodali. In questo senso, l’inumanismo è un vero e proprio impegno nei confronti dell’umanità, ma per comprendere questo punto occorre esaminare cosa sia un impegno, cosa sia l’umano e a cosa ci conduca la loro combinazione.
Ciò significa che l’analisi della struttura e delle leggi che rendono possibile tale impegno, così come il significato pragmatico dell’essere umani (scevro da una concezione intrinseca di significato, celata nella natura, o da un’idea predeterminata di uomo), costituiscono un passo iniziale fondamentale per accedere al dominio della costruzione delle prescrizioni (che siano sociali, politiche o etiche). Prima di tutto, è necessario specificare cosa occorra per creare una prescrizione, o cosa occorra fare perché la prescrizione di un obbligo o di un dovere sia valida, come ad esempio il collegamento di diversi doveri e la loro revisione. Ma bisogna anche riconoscere che una prescrizione dovrebbe equivalere ad un insieme di descrizioni da sincronizzare di volta in volta con il sistema della conoscenza moderna, che a sua volta produce e modifica tali descrizioni. In breve: una descrizione senza prescrizione costituisce il germe della rassegnazione, e una prescrizione senza descrizione è un mero capriccio.
Analogamente, si tratta di un tentativo per comprendere come si metta a punto una prescrizione, o cosa voglia dire creare una prescrizione per l’umano e dall’umano. Senza una simile comprensione, le norme prescrittive non possono essere adeguatamente distinte dalle norme descrittive (non ci può essere alcuna prescrizione), né si possono costruire prescrizioni adeguate senza degenerare nella vacuità di prescrizioni senza descrizioni.
La descrizione del contenuto dell’umano è impossibile se non la si elabora in un contesto di usi e pratiche, così come, se non si seguono delle leggi di elaborazione dell’impegno, inferenza e giudizio minimamente prescrittive, è questa stessa elaborazione a rivelarsi impossibile. Descrivere l’umano senza ricorrere alle descrizioni fondazionali o all’accesso a priori a delle risorse descrittive costituisce già un minimo ma funzionale progetto di prescrizione egemonica che aderisca al dovere di specificare ed elaborare il senso dell’essere umani attraverso le proprietà e i requisiti del suo utilizzo. “Gravido di oneri” (Wilfrid Sellars), l’umanismo non può essere inteso come un’affermazione sull’umano professata una sola volta e successivamente trasformata in un fondamento o in un assioma, chiudendo così l’intera faccenda. L’inumanismo è la nomenclatura dell’impraticabilità di questa professione una tantum. Esso è l’incarnazione dell’impossibilità di mettere a tacere una simile questione una volta per tutte.
Essere umani è un marchio distintivo tra, da un lato, il rapporto tra il mentale e il comportamento tramite l’intervento dell’intenzionalità discorsiva e, dall’altro, di quello tra l’intelligenza senziente e il comportamento in assenza di una simile mediazione. È una distinzione tra la senzienza come categoria fortemente biologica e naturale e la sapienza come soggetto razionale (da non confondersi con quello logico). La sapienza è una designazione normativa specificata da diritti e analoghe responsabilità. È importante notare che la distinzione tra sapienza e senzienza costituisca una demarcazione funzionale, piuttosto che strutturale. Pertanto, è ancora pienamente storica e aperta alla naturalizzazione, pur distinguendosi per la sua specifica organizzazione funzionale, per il suo insieme espandibile di abilità e responsabilità, e per le sue esigenze cognitive e pratiche. Il rapporto tra senzienza e sapienza può essere compreso come un continuum che non è differenziabile in ogni sua parte. Laddove una simile e complessa continuità permetterebbe di naturalizzare gli obblighi normativi a livello della sapienza – la loro spiegazione in termini di cause naturalistiche –, essa non consente a nessuna delle risorse concettuali e descrittive specifiche della sapienza (come il particolare livello del mentale, di responsabilità e, di conseguenza, delle prerogative normative) di estendersi alla senzienza e oltre.
Questa demarcazione razionale è insita nella differenza tra la capacità di riconoscere una legge e il rimanere semplicemente vincolati ad essa, tra la comprensione e la semplice reazione istintiva agli stimoli. Essa è nella differenza tra una comunicazione stabilizzata attraverso i concetti (resa possibile dallo spazio condiviso del linguaggio e delle forme simboliche) e le tipologie di risposta e di comunicazione caoticamente instabili o transitorie (come le reazioni complesse innescate da stati puramente biologici o da esigenze organiche, o dai richiami e dalle allerte di gruppo degli animali sociali). Senza una simile stabilizzazione della comunicazione attraverso i concetti e le modalità di inferenza coinvolte nell’ideazione, sia l’evoluzione culturale sia l’accumulazione e il raffinamento concettuale richiesti per l’evoluzione della conoscenza come impresa condivisa sarebbero impossibiliiii.
In definitiva, sia il contenuto necessario sia la possibilità reale dell’umano si fondano sulla capacità della sapienza – come funzionalmente distinta dalla senzienza - di praticare inferenze e di avvicinarsi ad una verità non-canonica, entrando nel gioco deontico del dare e del chiedere ragioni. La ragione è un gioco esclusivamente nel senso che coinvolge pratiche tolleranti l’errore e basate su regole che sussistono in assenza di un arbitro, in cui prendere-per-vero attraverso il pensiero (tipico del credente) e rendere-vero attraverso l’azione (tipico dell’agente) sono costantemente contrapposti, misurati e calibrati. Si tratta di un circuito a feedback dinamico in cui l’espansione di un confine – prendere-per-vero o rendere-vero, comprensione o azione – offre al confine successivo nuove alternative e opportunità per diversificare il proprio spazio e allargare i propri orizzonti secondo le proprie caratteristiche e i propri requisiti specifici.
2. Un “noi” discorsivo e costruibile
Ciò che mette assieme la capacità di inferire e quella di approcciare la verità (verità come dare un senso al prendere-come-vero e al rendere-vero, separatamente e in rapporto l’uno all’altro) è la capacità di impegnarsi in pratiche discorsive così come ci viene descritta dal pragmatismo: la capacità di (1) ricorrere ad un vocabolario, (2) ricorrere ad un vocabolario per specificare un insieme di abilità o di pratiche, (3) elaborare un insieme di abilità-o-pratiche e (4) utilizzare un tipo di vocabolario per definirne un altroiv.
Le pratiche discorsive inaugurano il gioco del dare e del chiedere ragioni e definiscono lo spazio della ragione come uno sfondo di navigazione piuttosto che un accesso a priori a norme esplicite. Si tratta di un modo inferenzialista, procedurale e non codificato di rendere conto della ragione come di un armamentario espandibile di pratiche regolamentate ma anche tolleranti l’errore e revisionabili. La capacità di impegnarsi in pratiche discorsive è ciò che distingue in senso funzionale la sapienza dalla senzienza. Senza tale capacità, essere umani sarebbe solo una questione biologica, incapace di per sé di fornire alcun concetto proposizionale basato su uno speciale tipo di condotta e di attribuzioni di valore e valutazione. Se non si presta attenzione a questo aspetto cruciale, parlare della storia dell’umano rischia di ridurre la costruzione sociale ad una sopravvenienza biologica, in cui la storia viene privata di qualunque possibilità di intervento e di riorientamento.
In altre parole, senza la capacità di accedere allo spazio della ragione tramite pratiche discorsive, essere umani non può significare nulla in grado di instaurare un rapporto pertinente tra pratica e concetto. L’azione è ridotta ad un puro “fa qualcosa e basta”, la collettività non può mai essere metodologica o esprimersi nei termini di una sintesi di diverse abilità per concepire e raggiungere un obiettivo comune, e impegnarsi nel legame tra l’azione e l’intelletto diviene impossibile. Potremmo anche sostituire l’“umano” con qualsiasi altra cosa vogliamo, e costruire una filosofia materialmente orientata e un’etica non umana in cui “essere una cosa” presupponga semplicemente l’essere buoni l’uno con l’altro, o con il mondo vegetale, per quel che importa.
Una volta che le pratiche discorsive che delineano lo spazio della ragione sono sminuite o accantonate, tutto scivola verso l’individuale, o verso un’alterità noumenica in cui un’innumerabile pluralità, sguarnita di qualsiasi dovere o richiesta, viene preservata senza sforzo. Le pratiche discorsive, radicate nell’uso-del-linguaggio e nell’uso-degli-strumenti, generano uno spazio deprivatizzato ma comunque stabilizzante e contestuale, attraverso cui prendono forma i veri processi di collettivizzazione. È nello spazio della ragione che alberga il nucleo funzionale di una collettività concreta, un progetto collaborativo di libertà pratica definito come un “noi”, i cui confini non sono solamente negoziabili ma anche costruibili e sintetici.
È opportuno ricordare che il “noi” è un modo di essere, e un modo di essere non è né un dato ontologico, né il dominio esclusivo di un insieme di categorie fondamentali o di descrizioni fisse. È una condotta, uno speciale tipo di performance che prende forma man mano che diviene visibile agli altri. Se precluso di questo “noi” esplicito e discorsivamente mobilizzabile, il contenuto dell’“essere umani” non si traduce mai in un “impegno per l’umano/l’umanità”. Assicurando questo “noi”, le pratiche discorsive tramutano l’impegno in una serie di traiettorie ramificate tra il dire e il fare di una comunità, decretando la creazione di uno spazio in cui la costruzione o l’elaborazione pratica estensiva dell’umanità divengono un progetto collaborativo.
Impegnarsi in un progetto vuol dire oscillare tra il fare qualcosa affinché valga come dirla, e il dire qualcosa di specifico che esprima e caratterizzi quello stesso fare.
È il movimento di andirivieni, di circuito a feedback tra i due campi delle affermazioni e delle azioni, che definisce la sapienza come qualcosa di diverso dalla senzienzav. Impegnarsi significa chiedere “cos’altro?”, prestare attenzione a quali altri impegni sottendano un simile atto, e comprendere come tali successivi impegni richiedano nuove strategie di azione e di comprensione, nuove abilità e speciali performance che, in quanto imposte da insiemi di prerogative e richieste più complesse e rielaborate, non siano semplicemente intercambiabili con le abilità precedenti. Se non si ramifica il “cos’altro?” di un impegno tramite la sua elaborazione pratica, se non si naviga in ciò che Robert Brandom definisce il sistema razionale degli impegnivi, un impegno non ha né un contenuto sufficiente né una reale possibilità di valutazione o di sviluppo. Si tratterebbe di un enunciato tanto buono quanto vuoto – e cioè di un enunciato privo di contenuto o di significato, nonostante la sua sincera aspirazione verso l’impegno.
3. L’intervento come costruzione e revisione
A questo punto, se l’umanismo è un sistema di impegni pratici e cognitivi nel concetto di umanità, è possibile trasformare la questione sull’esigenza dell’assumere un impegno in una questione sull’esigenza dell’esseri umani. Il ragionamento procede in questo modo: per impegnarsi nell’umanità, il concetto dell’umano deve essere esaminato a fondo. E affinché ciò accada occorre elaborare i suoi impegni impliciti. Ma questo compito è impossibile se non si conduce l’umanità-come-impegno alle sue estreme conseguenze – chiedendoci cos’altro implichi essere umani e dispiegando i restanti impegni e ramificazioni che questa condizione comporta.
Ma poiché il concetto di umanità si distingue dalla capacità umana di impegnarsi in norme razionali piuttosto che in leggi naturali (dovere anziché essere), il concetto di vincolo per l’umanità-come-impegno è non-monotonico. Sarebbe a dire, quando ci chiediamo che cosa comporti essere umani, questa condizione non rimane più quella di una causa e del suo effetto differenziale, come nelle leggi naturali della fisica o nelle conseguenze delle deduzioni logiche. Nel senso di una forma di inferenza manipolabile, sperimentale e sintetica le cui conseguenze non sono direttamente o linearmente dettate dalle sue premesse o condizioni inizialivii. Poiché la non-monotonicità è un aspetto intrinseco alla pratica e all’euristica complessa, definire l’umano attraverso un’elaborazione pratica vuol dire che il prodotto di questa elaborazione non corrisponderà più a quanto anticipato dall’umano o all’immagine che quest’ultimo si è fatto di sé. In altre parole, il risultato di un’inferenza abduttiva che manipoli sinteticamente i propri parametri – il risultato della pratica come procedura non-monotonica – risulterà radicalmente revisionista rispetto ai nostri assunti e alle nostre aspettative su ciò che il “noi” è e comporta.
Il carattere non-monotonico e abduttivo delle solide pratiche sociali che formano e cingono lo spazio della ragione trasforma quest’ultima e l’atteggiamento interventista da essa favorito in un processo continuo. Difatti, la ragione radicata nelle pratiche sociali non si dirige necessariamente verso una meta specifica, né cerca di stabilire un accordo tramite le altre concezioni sostantive e quasi strumentali di ragione proposte da autori del calibro di Jurgen Habermasviii. Il principale obiettivo della ragione è di conservare e accrescere se stessa. Ed è l’auto-attualizzazione della ragione a coincidere con la verità dell’inumano. In questo caso, la ragione deve essere intesa non come un qualcosa di rigido e immutabile, ma come uno spazio in evoluzione che si ricostituisce attraverso regole rielaborabili che, simultaneamente, preservano l’ignoranza e la mitigano (si veda la non-monotonicità abduttiva).
Estrarre il concetto di impegno nell’umanità, l’analisi di cos’altro l’umanità ci autorizzi a fare, è inconcepibile senza lo sviluppo di un certo atteggiamento interventista che coinvolga simultaneamente la valutazione (o la consumazione) e la costruzione (o la produzione) di norme. Solo questa attitudine interventista verso il concetto di umanità è in grado di estrarre e sbrogliare gli impegni impliciti nell’essere umani. Ed è questa attitudine interventista che conta come vettore abilitante, che rende possibili alcune abilità altrimenti celate o ritenute impossibili.
È attraverso la consumazione e la produzione di norme che si può cogliere il concetto di impegno nell’umanità, sia nel senso di valutare che in quello di rendere espliciti gli impegni impliciti cui esso ci dà accesso. Di conseguenza, per comprendere l’impegno nell’umanità e per riuscire in un simile impegno, è fondamentale assumere una posizione costruttiva e revisionista rispetto all’umano. Si tratta proprio dell’attitudine interventista di cui parlavamo poco fa.
Revisionare e costruire l’umano è la definizione stessa dell’impegno nell’umanità. Senza questa perpetua revisione e costruzione, l’“impegno” dell’“impegno nell’umanità” non avrebbe alcun senso. Inoltre, poiché non si può definire l’umanità senza localizzarla nello spazio della ragione (la questione della sapienza), impegnarsi nell’umanità equivale ad attenersi al vettore revisionista della ragione e ricostruire l’umanità secondo una concezione autonoma della ragione.
L’umanità non è semplicemente un dato di fatto che ci precede. È un impegno in cui i fili della rielaborazione e della costruzione inerenti all’assunzione di un impegno e all’adempimento della ragione sono strettamente intrecciati tra loro. In sintesi, essere umani è un conflitto. L’obiettivo di questo conflitto è di rispondere alle richieste di costruire e revisionare l’umano attraverso lo spazio della ragione.
Questo conflitto si caratterizza come la messa a punto di una certa condotta o attitudine tollerante l’errore che si basi sull’autonomia funzionale della ragione – un’attitudine interventista il cui obiettivo è di sbloccare nuove abilità del dire e del fare. In altre parole, si tratta di dischiudere nuove frontiere di azione e di comprensione attraverso differenti modi di costruzione e di pratiche (pratiche sociali, tecnologiche…).
4. Marxismo kitsch
Se impegnarsi nell’essere umani è un conflitto di costruzione e revisione, la maggior parte dell’umanismo moderno si rivela un’impresa vana, che non fa quel che dice e non dice quel che fa. Le filosofie sociopolitiche che tentano di salvaguardare la dignità dell’umanità dall’assalto dei leviatani politico-economici finiscono per unirsi a quest’ultimi facendo il giro dal lato opposto.
In virtù del suo rifiuto di riconoscere l’autonomia della ragione e di investire sistematicamente in un’attitudine interventista – e cioè revisionista e costruttiva – verso l’umano e verso le norme implicite delle pratiche sociali, ciò che si presenta sotto il nome di marxismo contemporaneo non è quasi per nulla in grado di produrre norme di azione e di comprensione. In effetti, esso si sottrae al futuro dell’umanità. È solo attraverso la costruzione di ciò che significa essere umani che si possono produrre delle norme per impegnarsi nell’umanità. Ed è solo revisionando le norme già esistenti tramite quelle prodotte che si possono valutare le norme e, soprattutto, il significato dell’essere umani. Ancora una volta, tali norme dovrebbero essere distinte dalle convenzioni sociali. Né tantomeno dovrebbero essere confuse con delle leggi naturali (non sono leggi, ma concezioni di leggi, ed è per questo che tollerano l’errore e sono aperte alla revisione). La produzione o la costruzione di norme sollecita la loro consumazione e valutazione, che stimola a sua volta la richiesta a produrre nuove abilità e attitudini normative più complesse.
Non si possono valutare le norme senza produrne delle altre. Lo stesso si può dire per la valutazione della situazione dell’umanità, lo stato dell’impegno nell’essere umani: se non si sviluppa nei suoi confronti un’attitudine interventista e costruttiva, non si può valutare l’umanità in alcun contesto o situazione. Ma sviluppare questa attitudine costruttiva verso l’umano vuol dire rielaborare empaticamente il significato dell’essere umani.
La dedizione ad un progetto di militanza negativa e l’abbandono dell’ambizione a sviluppare un’attitudine interventista e costruttiva verso l’umano attraverso differenti pratiche sociali e tecnologiche costituiscono i tratti distintivi del marxismo kitsch. Sebbene non tutto il marxismo dovrebbe essere stigmatizzato come “kitsch”, soprattutto perché la lotta di classe quale assunto centrale del marxismo costituisce un progetto storico indispensabile, oggi la pretesa di essere marxisti è troppo generica. È un po’ come dire: “sono un animale”. Non assolve alcun proposito teorico né pratico.
Ciascun programma marxista dovrebbe essere valutato sulla base della sua capacità o meno di elaborare i propri impegni, di comprendere i meccanismi sottostanti l’assunzione di un impegno o di possedere un piano per aggiornare i propri impegni in senso globale. Una volta che si valorizza la negatività pratica e che l’attitudine interventista o l’atteggiamento costruttivo vengono liquidati, la valutazione dell’umanità e delle sue situazioni diviene intrinsecamente problematica su più livelli.
Senza il vettore costruttivo, il progetto di valutazione – critica – si trasforma in una mera attitudine consumistica delle norme. Consumare le norme senza produrne delle altre rappresenta la realtà concreta dell’attuale teoria critica del marxismo. Per ogni assunto, esiste un insieme precondizionato di “riflessi critici”ix. Se si fa una dichiarazione in favore di una ragione migliore, il marxista kitsch chiederà: E chi decide? Si dirà, la costruzione attraverso gerarchie strutturali e funzionali. E il marxista kitsch risponderà: il Controllo. Si dirà: il controllo normativo. A quel punto il marxista kitsch ci ricorderà dell’autoritarismo. Gli parleremo del “noi”. Il marxista kitsch declamerà: chi è “noi”? La reazione impulsiva del marxista kitsch non può essere nemmeno intesa come un atteggiamento cinico, in quanto sprovvista del rigore del cinismo. Si tratta di un reattivismo meccanico, istintivo, autentica espressione di un consumismo delle norme privo di qualsiasi impegno concreto a produrne di nuove. Il consumismo delle norme è un altro nome dell’asservimento cognitivo e della pigrizia noetica.
La risposta del marxismo kitsch nei confronti dell’umanità è problematica sul piano della revisione. Smettere di produrre norme rifiutando di assumere un’attitudine costruttiva verso l’umano, nel senso di un atteggiamento regolato dall’autonomia specifica della ragione, vuol dire astenersi dal rielaborare cosa significhi essere umani. Perché? Perché le norme sono valutate e revisionate da norme ancor più nuove attraverso differenti modalità di costruzione, pratiche sociali complesse, e sbloccando nuove capacità di transitare avanti e indietro tra il dire e il fare. Poiché l’umano si caratterizza per la sua capacità di entrare nel gioco del dare e del chiedere ragioni, la sua costruzione deve spingersi verso l’individuazione di un ulteriore spazio della ragione, attraverso il quale differenziare l’umano dal non umano, la sapienza dalla senzienza.
Trasformando l’ethos della costruzione secondo le richieste della ragione nel pathos della negatività, non solo il marxismo kitsch pone fine al progetto di revisione, ma finisce anche per affidarsi ad un concetto di umano esterno allo spazio della ragione – nonostante la forza di revisione della ragione sia l’unica in grado di rinegoziare e ridefinire l’umanità. Una volta che la revisione viene portata a termine, comprendere l’umanità e agire sulla sua condizione non ha più alcuna importanza, perché ciò che si definisce umano non gode più di alcun tipo di pertinenzax. Analogamente, una volta che si comincia a indagare l’immagine dell’umano al di fuori della ragione, è solo una questione di tempo prima che la distinzione deontologica tra sapienza e senzienza collassi e inizi a manifestare segni di puro irrazionalismo – frivolezza, narcisismo, superstizione, entusiasmo speculativo, atavismo sociale e, in definitiva, tirannia.
Pertanto, la prima domanda che occorre porre a un umanista o a un marxista è: i vostri impegni sono aggiornati? Se sì, allora devono essere sottoposti ad un processo deontologico – una specie di versione del processo deontico di Robert Brandom o dell’ordalia deontica di Jean-Yves Girard, in cui gli impegni sono rivisitati sulla base della loro connettività, della loro evasione da circoli viziosi e da contraddizioni interne, e la loro valutazione deve avvenire sulla base della ricusazione, più che della confutazionexi.
Se si identifica l’impegno nell’umanità con una revisione ed una costruzione attiva, cessare di revisionare e rifiutarsi di costruire divengono i tratti distintivi di una forma di irrazionalismo che mira a cancellare il concetto dell’umano. È in questo senso che il marxismo kitsch non dimostra soltanto la propria incompetenza teorica. Esso mostra anche – da una prospettiva sia storica che cognitiva – un impulso alla regressione dalla sapienza alla senzienza.
A questo riguardo, non è esagerato dire che in ciascuna agenda del marxismo kitsch giaccia un germe di ostilità verso l’umanità e verso il progetto umanista. La negatività pratica rifiuta di porsi come una rassegnazione, ma anche di contribuire al sistema e di sviluppare un’attitudine sistematica verso l’“implicita” posizione affermativa insita nella costruzione del sistema.
L’umanismo si distingue per questa attitudine implicitamente affermativa della costruzione. Poiché la rassegnazione del marxismo kitsch implica l’abbandono del progetto umanista e il collasso in una passività regressiva, possiamo dire che il suo rifiuto a rassegnarsi e a costruire equivalga ad una posizione che non è né passiva né umanista. Difatti, questo approccio “né/né” non indica altro che un progetto di antiumanismo attivo di cui il marxismo kitsch si rivela complice – a dispetto delle sue pretese di impegnarsi nell’umanità.
È sulla scia di questo antiumanismo, di questa ostilità verso le ramificazioni dell’impegno nell’umano, che l’identificazione delle agende del marxismo kitsch con l’umanismo si rivela, nel migliore dei casi, una farsa, e nel peggiore un micidiale schema Ponzi per umanisti devoti.
Nella sua missione di collegare l’impegno nell’umanismo ad abilità e impegni più complessi, l’inumanismo si pone come una forza che si oppone sia all’apatia della rassegnazione che all’antiumanismo attivo, implicito nella negatività pratica del marxismo kitsch in voga oggigiorno. L’inumanismo, come si sosterrà più avanti, consiste tanto nell’elaborazione estesa delle ramificazioni nell’impegno nell’umanità quanto nell’elaborazione pratica del concetto di umano fornito dalla ragione e dalla capacità del sapiente di distinguersi in senso funzionale, impegnandosi in pratiche discorsive.
Parte II: L’inumano
L’umanismo illuminato – come progetto di impegno nell’umanità, nel senso concatenato di cosa significhi essere umani e cosa significhi assumere un impegno – è un progetto razionale. Ed è razionale non solo perché pone il senso dell’umano nello spazio della ragione, come uno specifico orizzonte di pratiche, ma anche e soprattutto perché il concetto di impegno a cui aderisce non può essere pensato né praticato come un impulso volontaristico esente da ramificazioni e obblighi crescenti. Al contrario, tale impegno designa un sistema razionale che esplora – nelle loro ramificazioni e nei loro particolari diritti – quegli impegni collaterali che conseguono alla preliminare assunzione di un impegno.
L’interazione con il sistema razionale degli impegni si attiene ad un paradigma esplorativo in cui, affinché l’assunzione di un impegno acquisti un senso, le sue ramificazioni devono essere compulsivamente elaborate e attraversate. È analizzando le ripercussioni razionali dell’assumere un impegno, individuando le sue conseguenze a lungo termine e trattando queste ramificazioni come percorsi da esplorare, che l’impegno verso l’umanità assume la forma di un progetto esplorativo. Qui, l’esplorazione non è solo l’indagine di uno scenario di cui non possediamo una visione d’insieme, ma è anche un esercizio nelle procedure non-monotoniche di orientamento, di delineamento di percorsi, di sospensione di qualsiasi preconcetto esplorativo, di rifiuto o risoluzione dell’incompatibilità tra impegni, di esplorazione dello spazio delle possibilità e di comprensione di ciascun percorso come un’ipotesi verso nuovi percorsi o verso la loro assenza, di transiti così come di ostacoli.
Da un punto di vista razionale, un impegno è una cascata di percorsi che, nel processo di espansione delle proprie frontiere, si ramifica e si sviluppa in un nuovo e più evoluto scenario, disincagliandosi dalle prospettive fisse, sradicando qualunque forma di radicamento associata ad un impegno stabile o a responsabilità immutabili, rielaborando legami e direzioni tra vecchi e nuovi impegni e, infine, cancellando qualsiasi immagine di sé come “ciò che avrebbe dovuto essere”.
Collocare il significato dell’umano nel sistema razionale degli impegni significa offrire la presunta stabilità di questo significato al potere perturbante e trasformativo di uno scenario che, sotto la spinta revisionista della ramificazione delle proprie destinazioni, si sottopone ad una serie di cambiamenti globali. Posizionandosi nel sistema razionale degli impegni, l’umanismo si rivela la condizione preliminare di qualcosa che sin da subito presenta poca, se non alcuna, rassomiglianza con ciò che l’ha inizialmente messo in moto. Possiamo dire che, se sufficientemente elaborato, l’umanismo costituisca la condizione iniziale dell’inumanismo, una forza che torna indietro dal futuro per alterare, o persino sopprimere, i suoi comandamenti originari – e cioè come un futuro che scrive il proprio passato.
5. L’immagine di “noi” disegnata sulla sabbia
L’inumanismo è l’elaborazione pratica dell’assunzione di un impegno nell’umanità. Se assumere un impegno significa elaborare a fondo il concetto di un simile impegno (il conseguente “cos’altro?” di cosa significhi essere umani), e se essere umani vuol dire addentrarsi nello spazio della ragione, allora l’impegno nell’umanità deve elaborare appieno il modo in cui le abilità della ragione convertono funzionalmente la senzienza in sapienza.
Ma poiché la ragione gode di un’autonomia funzionale – che le permette di prevenire l’ennesimo collasso della sapienza nella senzienza – , la completa elaborazione delle abilità della ragione richiede l’estrazione delle conseguenze della sua autonomia rispetto all’umano. L’umanismo è per definizione il progetto di amplificazione dello spazio della ragione attraverso l’elaborazione delle implicazioni dell’autonomia della ragione e delle domande che questo processo suscita nei nostri confronti. Ma l’autonomia della ragione necessita di una propria autonomia per valutare e costruire se stessa e, per estensione, per rinegoziare e costruire ciò che la contraddistingue una volta entrati nello spazio della ragione. In altre parole, il materializzarsi di una ragione capace di coltivare se stessa, emblema della sua autonomia funzionale, ha delle conseguenze sconcertanti per l’umanità. Ciò che la ragione fa a se stessa si manifesta inesorabilmente come ciò che essa fa all’umano.
Poiché l’autonomia funzionale della ragione implica l’auto-determinazione della ragione rispetto alla propria condotta – in quanto (per evitare equivoci o superstizioni) la ragione non può essere valutata né revisionata da nient’altro che se stessa – l’impegno in una simile autonomia espone concretamente il significato dell’essere umani al radicale effetto revisionista della ragione. In un certo senso, l’autonomia della ragione sta nell’autonomia della sua capacità di revisione; e l’impegno nell’autonomia della ragione (attraverso il progetto dell’umanismo) è un impegno nel programma revisionista dell’autonomia della ragione sul quale l’umano non ha alcuna presa.
L’inumanismo è precisamente l’attivazione del programma revisionista della ragione contro l’auto-ritratto dell’umanità. Una volta che la struttura e la funzione dell’impegno sono effettivamente comprese, diviene chiaro come l’impegno operi ritornando dal futuro, dagli impegni collaterali di un impegno attuale, come un corrosivo acido revisionista che ci precipita indietro nel tempo. Sgretolando il saldo legame tra gli impegni presenti e il loro passato, e guardando a quest’ultimi dalla prospettiva delle loro ramificazioni, la revisione catalizza il loro aggiornamento in una cascata che si disperde globalmente sull’intero sistema. La struttura razionale di un impegno, in questo caso “l’impegno nell’umanità”, costruisce un’opportunità nel presente coltivando le tendenze positive del passato attraverso le forze revisioniste del futuro. Non appena ci si impegna nell’umano, si inizia realmente a farne scomparire il ritratto canonico che ci torna indietro dal futuro. Si tratta, come suggerisce Foucault, di un’intransigente scommessa sul fatto che l’autoritratto dell’uomo sarà cancellato, come un volto disegnato sulla sabbia in riva al marexii. Ogni ritratto tracciato è spazzato via dal potere revisionista della ragione, aprendo il largo a ritratti più subdoli e con talmente pochi tratti canonici da chiedersi opportunamente se valga affatto la pena o se sia utile chiamare “umano” quel che ne rimane.
L’inumanismo è il lavoro della facoltà razionale sull’umano. Ma con un caveat: la facoltà razionale non è personale, individuale, né tantomeno necessariamente biologica. Il nocciolo dell’inumanismo è un impegno nell’umanità attraverso la concomitante costruzione e revisione dell’umano come orientato e regolato dall’autonomia della ragione, e cioè dall’auto-determinazione e dalla responsabilità per i suoi bisogni. Nello spazio della ragione, la costruzione implica la revisione, e la revisione richiede la costruzione. Per revisionare il sedicente ritratto dell’umano occorre che questa costruzione possa esercitarsi in qualsiasi contesto senza ricorrere ad un fondamento costitutivo, un’identità essenziale, una natura immacolata, un significato già dato o uno stato precedente. In breve, la revisione è una licenza per un’ulteriore costruzione.
6. Quando abbiamo perso il contatto con “ciò che sta diventando di noi”
Come ha indicato Michael Ferrer, laddove l’antiumanismo è dedito all’irrealizzabile compito di sciogliere il vincolo tra il valore dell’umano e la sua venerazione, l’inumanismo è un progetto che inizia dissociando l’importanza dell’umano dalla sua magnificenzaxiii. Risolvendo il contenuto di tale miscuglio e ripulendo il suddetto valore dei suoi residui onorifici, l’inumanismo conduce l’umanismo alle sue estreme conseguenze, costruendo di noi un’immagine rivisitabile, funzionalmente libera dalle aspettative e dai bias storici di come essa dovrebbe essere, di come dovrebbe apparire o di cosa dovrebbe significare. Per questo motivo, e come si dirà in seguito, l’inumanismo innesca una nuova fase nel processo di emancipazione sistematica – non come successore di altre forme di emancipazione, ma come un supplemento criticamente urgente e indispensabile alla crescente catena degli obblighi.
Inoltre, l’inumanismo interrompe le anticipazioni del futuro basate su descrizioni e prescrizioni derivanti dall’umanismo conservativo. L’umanismo conservativo pone la consequenzialità dell’umano in un senso sovradeterminato o in un insieme ultra-particolarizzato di descrizioni fisse, che ciascuna prescrizione sviluppata da e per gli umani deve preservare ad ogni costo. L’inumanismo, d’altro canto, localizza la consequenzialità dell’impegno nell’umanità nella sua elaborazione pratica e nell’esplorazione delle sue ramificazioni. Pertanto, la vera consequenzialità di un impegno dipende dalla sua capacità di generare ulteriori impegni, di aggiornarsi rispetto alle proprie ramificazioni, di dischiudere spazi di possibilità e di esplorare il significato che tali possibilità possono portare con sé.
La consequenzialità dell’impegno nell’umanità, pertanto, non si basa sul modo in cui i parametri di tale impegno sono stati inizialmente descritti o stabiliti. Essa giace piuttosto nel modo in cui il significato pragmatico di questo impegno (significato attraverso l’uso) e il senso funzionalista di tali descrizioni (cosa occorre fare per essere considerati umani?) si intrecciano a formare tipi di conseguenze più ampie e irriconciliabili con il dato di partenza. È in quest’ultimo senso che il secondo tipo di consequenzialità adombra il primo e, attraverso una completa revisione, arriva a dimostrarne la povertà descrittiva e l’incoerenza prescrittiva.
Poiché, come nota Robert Brandom, “ogni conseguenza produce un cambiamento dello stato normativo” che può condurre a delle incompatibilità tra gli impegnixiv, per attenersi a una tale impresa è necessario compiere qualcosa di specifico, che risolva tali incompatibilità. Dalla prospettiva dell’inumanismo, più le conseguenze dell’impegno nell’umanità sono discontinue, maggiore è l’esigenza di fare qualcosa (di etico, giuridico, economico, politico, tecnologico, eccetera) per rettificare le nostre imprese. L’inumanismo evidenzia l’urgenza dell’azione in conformità con un’ondata revisionista che si iscriva sempre più come una discontinuità, come una crepa che si allarga senza possibilità di risanarsi.
Qualunque iniziativa sociopolitica o qualunque consequenziale progetto di cambiamento devono prima prendere atto di questo effetto di crepa e di discontinuità, e poi escogitare una necessaria linea di condotta ad essa conforme. Ma fare qualcosa rispetto all’effetto di discontinuità – innescato da conseguenze impreviste e dal conseguente ed esponenziale cambiamento dello stato normativo (esigenze di ciò che occorre fare) – non equivale ad un atto di restaurazione. Al contrario, si tratta di costruire punti di contatto – canali cognitivi e pratici – che favoriscano la comunicazione tra ciò che pensiamo di noi stessi e ciò che è diventato di noi.
La capacità di riconoscere quest’ultima non è un diritto di fatto o un’attitudine intrinsecamente naturale, è piuttosto una questione di lavoro, un programma – che è fondamentalmente carente negli attuali progetti politici. Essere umani non comporta in nessun modo la capacità di prendere contatto con le conseguenze di cosa significhi essere umani. Allo stesso modo, identificarci come umani non è una condizione sufficiente né per comprendere cosa ne è stato di noi, né per riconoscere quel che stiamo diventando o, più precisamente, cosa sta nascendo da noi.
Un’iniziativa politica conforme all’antiumanismo non è in grado di prevenire la propria degenerazione in una grottesca forma di attivismo. Ma ogni progetto sociopolitico che giuri fedeltà all’umanismo conservativo – sia tramite una concezione quasi strumentale e conservativa della ragione (come nel caso della razionalità di Habermas), che attraverso un significato dell’umano intriso di teologismo – non fa che rinforzare la tirannia del qui ed ora sotto l’egida di una radice o di un passato fondazionale.
L’antiumanismo e l’umanismo conservativo rappresentano due patologie della storia che compaiono di frequente nelle rubriche della conservazione e del progresso: la prima, proponendo un’idea del presente che deve conservare a tutti i costi i tratti del passato, l’altra attraverso una concezione del presente che deve approssimarsi al futuro rimanendo nello stesso tempo ancorata al passato. Ma la catastrofe della revisione disincaglia entrambe dal futuro, modificando il legame tra il passato e il presente, instradando una concezione catastrofica del tempo che esprime l’eccesso delle ramificazioni del destino rispetto alla sua origine.
7. La catastrofe revisionista
Una definizione di umanità conforme alla ragione è una definizione minimalista, le cui conseguenze non sono immediatamente date, ma le cui ramificazioni sono sconcertanti. Se mai ci sarà una vera crisi, sarà dovuta alla nostra incapacità di venire a patti con le conseguenze dell’impegno verso il concetto reale dell’umanità. Quella della ragione è la traiettoria di una catastrofe generale le cui istanze puntuali e i cui corsi graduali non hanno alcun effetto osservabile o discontinuità complessiva. Pertanto, la ragione è nello stesso tempo un mezzo di stabilità che rinforza la proceduralità e una catastrofe generale, un vettore di cambiamento radicale che offre all’immagine anticipata dell’umano l’identità discontinua della ragione.
Elaborare l’umanità attraverso lo spazio discorsivo della ragione stabilisce una discontinuità tra l’anticipazione di sé dell’umano (cosa quest’ultimo si aspetta di diventare) e l’immagine dell’umano modificata secondo il suo concetto o significazione attiva. È proprio questa discontinuità che contraddistingue l’inumanismo come una catastrofe generale sancita dall’attivazione del concetto dell’umanità, il cui nocciolo funzionale non è soltanto autonomo, ma anche compulsivo e trasformativo.
Il discernimento dell’umano richiede l’attivazione dello spazio autonomo della ragione. Ma poiché questo spazio – in quanto concetto dell’umanità – è funzionalmente autonomo, e nonostante la sua genesi sia storica, la sua attivazione implica la disattivazione dell’anticipazione storica di ciò che, da un punto di vista descrittivo, l’umanità è o può diventare. Siccome l’antiumanismo trae gran parte del potenziale critico dal proprio livello descrittivo, sia esso situato nella natura (presuntamente immune alla revisione) o in un ambito ristretto della storia (basato su una particolare anticipazione), la realizzazione dell’autonomia della ragione ripristinerebbe il significato non teologico dell’umano come una condizione preliminare necessaria, neutralizzando in questo modo la critica antiumanista. È importante capire che non si può difendere l’antiumanismo, né tantomeno parlarne, senza prima impegnarsi nel progetto umanista, e cioè passando per l’ingresso principale dell’Illuminismo.
Il razionalismo, come esplorazione compulsiva dello spazio della ragione, trasforma l’impegno nell’umanità in una catastrofe revisionista, convertendo il proprio iniziale impegno in una cascata ramificata di impegni collaterali che, per valere come impegni, devono essere anch’essi esplorati. Ma è proprio questa conversione innescata e guidata dalla ragione a trasformare l’impegno in una catastrofe revisionista proveniente dal futuro, dalle sue stesse ramificazioni. In questo senso, la ragione stabilisce un legame nella storia che, dalla prospettiva di un presente che conserva la propria origine o è ancorato al passato, risultava fino a quel momento inimmaginabile.
Agire di pari passo con il vettore revisionista del futuro non significa redimere, ma aggiornare e revisionare, ricostituire e modificare. Dalla prospettiva dell’adattamento pratico e cognitivo alla realtà del tempo, precondizione per agire sulla storia, la redenzione appare solo un vezzo teologico. Quest’ultima deriva da un fraintendimento del tempo, dalla confusione o dalla banalizzazione dei legami tra il passato, il presente e il futuro, e infine da un’assunzione distorta dell’origine rispetto alla destinazione. Ma la realtà del tempo non viene esaurita dall’origine, né da ciò che è già avvenuto; piuttosto, si tratta di un destino che ci costringe a riaggiornare le sue posizioni e i suoi orientamenti man mano che quest’ultimi si dispiegano.
Il destino esprime la realtà del tempo come sempre in eccesso e sempre asimmetrica rispetto all’origine. Appunto, come la sua catastrofe. Ma la destinazione non è esattamente un punto preciso o un obiettivo terminale, essa acquista al contrario la forma di traiettorie: non appena una direzione manifesta viene raggiunta o si rivela come tale, smette di guidare la traiettoria storica che conduce ad essa, e viene rimpiazzata da numerose nuove destinazioni, che guidano differenti parti della traiettoria verso ramificazioni multiple. Ecco perché, non appena l’origine è privata di una concezione di destino da raggiungere procedendo in avanti, le vestigia di un obiettivo terminale della storia vengono rimosse. Al contrario, si tratta di un destino che scrive se stesso all’indietro, dal futuro, partendo da destinazioni multiple.
Il circuito costruttivo-revisionista dell’inumanismo ribadisce che non esiste incompatibilità tra un progetto destinale e l’assenza di un obiettivo terminale, tra l’auto-realizzazione storica e il vuoto del tempo. In quanto impulso attivista, la redenzione opera come una modalità d’azione volontaristica, basata su una concezione preservativa e conservativa del presente. La revisione, d’altro canto, è un’obbligazione o una compulsione razionale a conformarsi a quelle ondate revisioniste del futuro suscitate dall’autonomia funzionale della ragione.
8. L’autonomia della ragione
Ma cos’è esattamente l’autonomia funzionale della ragione? È l’espressione della propensità della ragione ad auto-attualizzarsi – uno scenario in cui la ragione libera i propri spazi a dispetto di ciò che appare naturalmente necessario o che sembra tale. In questo caso, “necessario” si riferisce ad una presunta necessità naturale, e deve essere distinto dalla necessità normativa. Laddove lo stato di fatto delle cause naturali si definisce attraverso un “è” (qualcosa che è presuntamente tale perché posto come contingente, come ad esempio le condizioni atmosferiche del pianeta), la normatività del razionale è definita da un “occorre che sia”. Il primo comunica un impulso che si suppone necessario, la seconda non è data, ma generata dal riconoscimento esplicito di una legge o di una norma implicita nella pratica collettiva, trasformandosi così in un tratto vincolante, una compulsione concettuale, un dovere.
È la dimensione del dovere riconosciuta, revisionista e tollerante l’errore – nella sua opposizione al diktat impulsivo della legge naturale – a presentare il dovere come un vettore di revisione che trasforma le necessità naturali poste come contingenti nelle variabili manipolabili richieste per la costruzione. Inoltre, l’ordine del dovere può comporre un’organizzazione funzionale, una catena o dinastia di doveri che mettano proceduralmente in atto un’evasione cumulativa dalla presunta necessità degli “è” cristallizzati nell’ordine del qui e ora.
L’autonomia funzionale della ragione consiste nel connettere doveri semplici a doveri complessi, a necessità normative o ad abilità, attraverso legami e processi inferenziali. L’impegno nell’umanità, e di conseguenza l’autonomia della ragione, richiedono non solo la specificazione dei doveri o delle abilità-di-impegno a cui siamo autorizzati, ma anche lo sviluppo di nuove inferenze e legami funzionali che connettano i doveri esistenti con nuovi doveri e obbligazioni.
Che si tratti dell’agenda marxista, del credo umanista o delle prospettive orientate al futuro, qualunque filosofia politica che si fregi degli impegni senza elaborarne i problemi inferenziali e senza costruire legami inferenziali o funzionali, accusa una contraddizione interna e la conseguente disconnessione tra i diversi impegni. Senza legami inferenziali, non può esserci nessun aggiornamento reale degli impegni. Senza un programma globale di aggiornamento, diviene sempre più difficile, se non impossibile, impedire all’umanismo di rapprendersi in un organo conservativo e al marxismo di scivolare in una parodia critica, una lotteria di leggende cautelari e spacconeria rivoluzionaria. Non importa quanto un progetto politico appaia sociopoliticamente capace o determinato, senza un sistema di aggiornamento globale sono le sue stesse contraddizioni interne ad impedire che una simile impresa prescriva un qualunque obbligo o dovere.
In effetti, nel suo lodevole tentativo di definire “cosa occorre fare” in termini di organizzazione funzionale, di gerarchie complesse e di circuiti di autonomia a feedback positivo, l’“#Accelerate” di Srnicek e Williams indica un progetto marxiano eretto sul processo di aggiornamento degli impegni. Non dovrebbe sorprendere che una simile proposta sia stata per lo più schernita e disprezzata proprio da quelle frange del marxismo che hanno smesso ormai da tempo di aggiornare i propri impegni cognitivi e pratici.
9. Autonomia funzionale
Quella sull’autonomia funzionale non è una proposta sulla spontaneità genetica della ragione, perché quest’ultima è storica e revisionabile, sociale e radicata nella pratica. È piuttosto una proposta sull’autonomia delle pratiche discorsive e dei legami inferenziali tra doveri – e cioè, sui legami tra abilità costruttive e doveri revisionisti. La ragione affonda le proprie radici nella costruzione sociale, nella valutazione comunitaria e nella manipolabilità dei condizionali incorporati nei metodi di inferenza. È in parte sociale perché profondamente connessa con l’origine e la funzione del linguaggio come spazio di organizzazione de-privatizzante, comunitario e stabilizzante. Ma dovremmo essere cauti ad estrapolare una concezione “forte” del sociale, perché un appello generico alla costruzione sociale non è solo esposto al rischio del relativismo e dell’equivoco, ma anche, come indica Paul Boghossian, alla paura di conoscerexv. La prima mossa per estrarre questa concezione forte del sociale consiste nel compiere una distinzione necessaria tra il suo aspetto “implicitamente” normativo (l’area di consumo e di produzione delle norme attraverso le pratiche) e la sua dimensione abitata dalle convenzioni, e dunque tra le norme come attitudini interventiste e le norme normalizzanti come predisposizioni conformiste.
La ragione scaturisce da un’attitudine interventista verso le norme implicite nelle pratiche sociali. Non è né separata dalla natura, né isolata dalla costruzione sociale. Tuttavia, la ragione possiede di per sé dei bisogni irriducibili (Kant) e una costitutiva auto-determinazione (Hegel), e può essere esaminata solo da se stessa (Sellars). Infatti, il primo compito o la prima questione del razionalismo è di raggiungere una concezione della natura e del sociale che permetta l’autonomia della ragione. Tale questione ruota attorno ad un regime causale della natura che favorisce una prestazione automatica della ragione nel “riconoscere” le leggi, siano esse naturali o sociali. È per questo che è importante notare come la razionalità non proceda in conformità con una legge, ma piuttosto con il suo riconoscimento. La razionalità è il “concetto della legge”, un portale verso il regno delle regole revisionabili ed esplorabili. Diventiamo agenti razionali solo quando ci rendiamo conto o sviluppiamo una specifica attitudine interventista verso le norme che si rivelano vincolanti. Non comprendiamo lo statuto normativo delle cose nella loro interezza. Non abbiamo accesso allo statuto esplicito – e cioè logicamente codificato – delle norme. È l’attitudine interventista per la revisione e la costruzione delle norme attraverso le pratiche sociali a rendere possibile l’esplicitazione dello statuto delle normexvi. Contra Hegel, la razionalità non è codificata da norme esplicite dal basso verso l’alto. La confusione tra le norme implicite e accessibili attraverso le pratiche interventiste e quelle esplicite è un fatto comune ed esposto al rischio del logicismo e dell’intellettualismo, e cioè ad una concezione di normatività in cui le norme esplicite costituiscono la condizione iniziale di ogni singola regola – pretesa già confutata dalla questione del regresso in Wittgensteinxvii.
10. Autorealizzazione funzionale e decomponibilità pratica
Quella sull’autonomia della ragione è un’affermazione sull’autonomia della sua funzione normativa, inferenziale e revisionista rispetto alla catena delle cause che la condizionano. In definitiva, si tratta di una questione (neo)funzionalista, nel senso di un funzionalismo pragmatico o razionalista. Il funzionalismo pragmatico deve essere distinto sia dal tipico funzionalismo dell’AI [Artificial Intelligence], che ruota attorno alla natura simbolica del pensiero, sia dalle varianti comportamentali del funzionalismo, che vedono nei comportamenti degli insiemi di regolarità. Mentre le ultime due rischiano di ricadere nei vari miti del pancomputazionalismo (l’onnipresenza incondizionata della computazione, ovvero dell’idea che qualsiasi sistema fisico possa implementare qualsiasi computazione) o del comportamentismo, è importante notare che un completo rigetto del funzionalismo, nel suo senso razionalista pragmatico o kantiano, degenererà inevitabilmente nel vitalismo e nell’ineffabilismo, il dogma mistico per cui vi sarebbe nel pensiero qualcosa di assolutamente speciale e non costruibile.
Il funzionalismo pragmatico ha a che fare con la natura pragmatica delle pratiche discorsive umane – sarebbe a dire, con la capacità di ragionare, di andare gradualmente avanti e indietro tra il dire e il fare. Qui, “gradualmente” indica la costituzione del dire e del fare, delle affermazioni e delle prestazioni come condizione di quasi decomponibilità. Per questo motivo, il funzionalismo pragmatico si focalizza sulla decomponibilità delle pratiche discorsive in pratiche non discorsive (cosa occorre fare affinché si possa ragionare o anche solo pensare?). Diversamente dalla AI simbolica o tradizionale, il funzionalismo pragmatico non decompone pratiche implicite in norme esplicite – e cioè logiche e codificabili. Piuttosto, si occupa sia della decomponibilità pratica che di quella algoritmica, sia di procedure non monotoniche, che di operazioni monotoniche. Il funzionalismo pragmatico decompone norme esplicite in pratiche implicite, il sapere nel saper-fare (il dominio delle abilità basato su capacità di auto-realizzazione – cosa occorre fare affinché l’esecuzione di qualcosa di specifico sia rilevata?).
Secondo il funzionalismo pragmatico o razionalista, l’autonomia della ragione implica l’automazione della ragione, in quanto l’autonomia delle pratiche, tratto distintivo della sapienza, suppone l’automazione delle pratiche discorsive attraverso la loro decomponibilità in pratiche non discorsive. L’automazione delle pratiche discorsive, o il circuito a feedback tra il dire e il fare, costituisce l’autentica espressione dell’autonomia funzionale della ragione, così come il telos del progetto di disincanto. Se il pensiero è in grado di realizzare il disincanto della natura, è solo l’automazione delle pratiche discorsive che può disincantare il pensiero.
Qui, l’automazione non implica l’iterazione di processi identici volti a un’ottimizzazione effettiva o a delle forme rigorose di implicazione (monotonicità). È invece il registro di analisi funzionale o di decomponibilità pratica di un insieme di prestazioni speciali a consentire l’autosufficienza di un insieme di abilità rispetto all’altro. Di conseguenza, l’automazione corrisponde in questo caso ad un’abilitazione pratica, alla capacità di conservare e intensificare l’autonomia funzionale, e cioè alla libertà. I procedimenti pragmatici coinvolti in questa modalità di automazione diversificano incessantemente gli spazi di azione e di comprensione, al punto che il carattere non monotonico delle pratiche dischiuda nuove traiettorie di organizzazione pratica e, correlativamente, espanda il dominio della libertà pratica.
Una volta che il gioco della ragione come dominio di pratiche basato su regole è messo in moto, la ragione può avviare abilità complesse partendo da abilità più primitive. Questo processo non è che l’auto-attualizzarsi della ragione. La ragione libera i propri spazi e le proprie richieste e, attraverso tale processo, revisiona radicalmente non solo ciò che intendiamo come pensiero, ma anche ciò che riconosciamo come “noi”. Ogni volta che c’è autonomia funzionale, si profila la possibilità dell’auto-attualizzazione o dell’auto-realizzazione come sviluppo epocale nella storia. Ogni volta che l’auto-realizzazione è in corso d’opera, si stabilisce un circuito a feedback positivo chiuso tra la libertà e l’intelligenza, tra la trasformazione e la concezione di sé. L’autonomia funzionale della ragione è allora il precursore dell’auto-realizzazione di un’intelligenza che, a partire dalla costellazione di un “noi” discorsivamente elaborativo, come un Sé open source, si assembla da sola, pezzo dopo pezzo.
Il funzionalismo razionalista delinea perciò un progetto non simbolico – e dunque filosofico – di intelligenza generale in cui l’intelligenza è complessivamente intesa come un vettore di auto-realizzazione che opera mantenendo e intensificando l’autonomia funzionale. L’automazione delle pratiche discorsive – il dissolvimento pragmatico dell’intelligenza generale artificiale e l’innesco di nuove modalità di pratiche collettivizzanti grazie al loro legame con nuove pratiche discorsive – incarna il limite revisionista e costruttivo della ragione contro il convenzionale autoritratto dell’umano.
Per essere liberi occorre essere servi della ragione. Ma essere servi della ragione (la condizione stessa della libertà) ci espone sia al potere revisionista che alla compulsione costruttiva della ragione. Tale suscettibilità è sensibilmente amplificata una volta che l’impegno nell’autonomia della ragione e nelle pratiche discorsive sono sufficientemente elaborati. Vale a dire, una volta che l’autonomia della ragione viene intesa come l’automazione della ragione e delle pratiche discorsive – la tesi filosofica, anziché tradizionalmente simbolica, dell’intelligenza generale artificialexviii.
11. Razionalità aumentata
L’automazione della ragione dischiude una nuova fase per implementare il vettore revisionista e costruttivo della ragione. Questa nuova fase intensifica la differenza tra la compulsione razionale e l’impulso naturale, tra l’“occorre fare” come obbligo interventista e l’“è” come conformità a ciò che è naturale o ritenuto tale (la contingenza della natura, la necessità dei fondamenti, delle disposizioni, delle convenzioni e dei limiti ritenuti necessari).
L’intensificazione dinamica della differenza tra “è” e “deve” inaugura l’avvento di quella che dovremmo chiamare una razionalità aumentata. È aumentata non nel senso che è più razionale (così come la realtà aumentata non è più reale della realtà), ma perché radicalizza ulteriormente la distinzione tra ciò che è stato fatto o è avvenuto (o è ritenuto tale) e ciò che occorre fare. È solo esasperando questa distinzione che si possono accrescere le richieste della ragione e, di conseguenza, spingere la sua facoltà razionale verso nuove frontiere di azione e di comprensione.
La razionalità aumentata è l’esacerbazione radicale della differenza tra l’essere e il dovere. Da un certo punto di vista pertanto, essa annulla il “mito del ripristino” e cancella ogni speranza di riconciliare l’essere col pensiero. La razionalità aumentata abita ciò che Howard Barker chiama l’“area di massimo rischio” – non un rischio per l’umanità in sé, ma per gli impegni che non sono stati ancora aggiornati, perché conformi ad un ritratto dell’umano non revisionatoxix. Intesa come lavoro dell’inumano, la razionalità aumentata scatena una catastrofe generale per gli impegni nell’umano non aggiornati dall’amplificazione delle dimensioni revisioniste e costruttive del “deve”. Se la ragione avesse di per sé un’evoluzione funzionale, la disobbedienza cognitiva contro l’adattamento allo spazio della ragione (l’evoluzione del dovere, anziché quella naturale dell’essere) terminerebbe con un cataclisma.
L’adattamento all’evoluzione della ragione – ovvero l’attualizzazione della ragione secondo le proprie esigenze funzionali – dipende dall’aggiornamento degli impegni dell’autonomia della ragione attraverso l’aggiornamento degli impegni dell’umano. Ma tale aggiornamento è impossibile se le dimensioni revisioniste e costruttive della ragione non vengono tradotte in progetti sistematici per la revisione e la costruzione dell’umano attraverso la valutazione comunitaria e il collettivismo metodologico. Anche se il razionalismo si attua nella sistematicità della revisione e della costruzione, esso non può istituire una simile sistematicità per proprio conto. Detto altrimenti, nonostante rimanga la piattaforma necessaria che, nello stesso tempo, informa e orienta qualunque progetto politico da esso derivato, il razionalismo non sostituisce alcun progetto politico.
12. Coltivare un progetto di costruzione e revisione
L’automazione della ragione e le pratiche discorsive rivelano nuovi scenari per l’esercizio della revisione e della costruzione, e cioè per intraprendere un progetto sistematico di libertà pratica. Si tratta di una libertà sia come sistematicità della conoscenza, sia come conoscenza del sistema quale prerequisito per agire su di esso. Per poter agire sul sistema, è necessario conoscerlo. Ma poiché il sistema non è altro che un’integrazione globale di tendenze e funzioni, e poiché esso non possiede né un’architettura intrinseca né un fondamento definitivo o un limite estrinseco, per poterlo conoscere è necessario trattare quest’ultimo come un’ipotesi costruibile. In altre parole, il sistema dovrebbe essere compreso attraverso la sintesi abduttiva e l’analisi deduttiva, la costruzione metodica e la manipolazione inferenziale delle sue variabili distribuite su piani differenti.
La conoscenza del sistema non è un’epistemologia generale, ma piuttosto, come sottolinea William Wimsatt, un “epistemologia ingegneristica”xx. L’epistemologia ingegneristica – un tipo di comprensione che coinvolge la suddetta manipolazione del tessuto causale e dell’organizzazione di gerarchie funzionali – è un armamentario aggiornabile dell’euristica particolarmente sensibile agli specifici ruoli e ai requisiti dei diversi piani e gerarchie. Essa sfrutta facoltà e meccanismi di basso livello per direzionare e incrementare la costruzione dei piani superiori. Ma ricorre anche a variabili e complessi processi di livello superiore per correggere le gerarchie strutturali e funzionali di livello inferiorexxi, nonché per rinormalizzare il loro spazio di possibilità e per attualizzarne le capacità costruttive, fornendo così le condizioni osservabili e manipolabili necessarie per le costruzioni successivexxii.
Qualsiasi progetto politico che si prefigga un autentico cambiamento deve comprendere e adattarsi alla logica delle gerarchie piramidali, che rappresentano la caratteristica distintiva dei sistemi complessixxiii. Il cambiamento può avvenire soltanto attraverso modificazioni strutturali e trasformazioni funzionali su più livelli e strati della struttura. Sono numerose le complicazioni che emergono dalla distribuzione delle gerarchie strutturali piramidali e da quelle funzionali. A volte, per indurre un cambiamento su di un livello, occorre imporre un cambiamento strutturale o funzionale ad un livello differente e apparentemente scollegato dal primo. È inoltre importante modificare le funzioni (che siano di livello economico, sociale o politico). Ma non tutti i cambiamenti strutturali conducono necessariamente ad un cambiamento funzionale. Al contrario invece, ciascun cambiamento funzionale – grazie a delle funzioni che consentono la stabilizzazione dinamica e mirata del sistema - produce sempre un cambiamento strutturale (nonostante una simile alterazione strutturale potrebbe non avvenire nella specifica struttura in cui la funzione è appena stata modificata).
L’importanza delle gerarchie piramidali per la realizzazione di qualunque forma di cambiamento in ogni strato della nostra vita rende la conoscenza dei diversi livelli esplicativi e la manipolazione di ogni livello una necessità della massima importanza. Una simile conoscenza deve ancora essere del tutto incorporata nei progetti politici. Senza la conoscenza delle gerarchie strutturali e funzionali, qualunque ambizione al cambiamento – sia tramite modificazione, riorganizzazione o sconvolgimento locale – è fuorviata dall’invischiamento tra diversi strati di struttura e funzione sia a livello economico che sociale e politico. Un cambiamento che non sia in grado di risolvere l’invischiamento tra l’esplicativo e il descrittivo, lo strutturale e il funzionale, finisce per riproporre tale invischiamento come forma di risoluzione, e cioè come un’ennesima complicazione spostata su un differente strato o regione. Pertanto, solo una differenziazione esplicativa tra i livelli e le manipolazioni dei diversi livelli tra loro (euristica complessa) può tramutare i sogni del cambiamento in realtà.
In una prospettiva gerarchica, le dimensioni di livello inferiore aprono spazi di possibilità ai livelli superiori che simultaneamente espandono la possibilità di costruzione e rendono possibile quella di revisione. Allo stesso tempo, la plasticità descrittiva e i meccanismi stabilizzati delle dimensioni superiori regolano e mobilizzano le costruzioni e le manipolazioni di livello inferiore. Combinate tra loro, le abilità di livello inferiore e quelle di livello superiore formano il circuito revisionista-costruttivo dell’ingegneria. Aggirando le inadeguatezze sia del riduzionismo emergentista che eliminativista, il circuito ingegneristico si pone come uno schema prospettico e una mappa di sintesi. In quanto mappa, esso si distribuisce tra i diversi livelli e ricopre i singoli strati come una moltitudine di altre mappe con svariate valenze descrittivo-prescrittive. Questa struttura a patchwork garantisce una forma di plasticità descrittiva e di versatilità prescrittiva, riduce le incoerenze e gli accostamenti esplicativi e, creando mappe descrittive e prescrittive tagliate su misura di specifici parametri e regioni, assicura l’efficacia della ricerca di problemi e opportunità di costruzione. Come una bussola prospettica, il circuito ingegneristico trapassa le immagini manifeste e scientifiche (coerenza stereoscopica), assume una visione dal basso e una dall’alto (profondità stereoscopica) e integra differenti mesoscale che possiedono ciascuna i propri specifici e non estendibili ordini esplicativi, descrittivi, strutturali e funzionali. Il circuito revisionista-costruttivo fa sempre di ogni ingegnerizzazione [engineering] una ri-progettazione [re-engineering], un processo di ri-modifica, ri-valutazione, ri-orientamento e ri-costituzione. L’effetto cumulativo dell’ingegneria (Wimsatt) equivale all’accumulazione strutturale e funzionale di sistemi complessixxiv, a quella sostanza corrosiva che erode i miti di fondazione e catalizza l’evasione cumulativa dalle organizzazioni regolate in maniera contingente.
I modi tolleranti l’errore e manipolabili di trattare il sistema come un’ipotesi e un’epistemologia ingegneristica equivalgono precisamente alle espressioni di revisione e costruzione come funzioni cruciali della libertà. Ciascun impegno che ostacola la revisione e non conserva – o, ancor meglio, non espande – la prospettiva della costruzione necessita di essere aggiornato. Se ciò non è possibile, deve essere scartato. La libertà nasce solo dall’accumulazione e dal perfezionamento funzionale, tipici di sistemi gerarchici, piramidali, e per questo decentralizzati e complessi. Un’organizzazione funzionale consta di gerarchie funzionali e di corretti legami inferenziali tra tali gerarchie, che permettono l’orientamento, la manutenzione, la calibrazione e il potenziamento, fornendo così l’opportunità di trasformare proceduralmente le presunte necessità e i fondamenti associati a cause naturali in variabili di costruzione manipolabili.
In un certo senso, l’organizzazione funzionale può essere intesa come un complesso sistema gerarchico di legami e proprietà funzionali che dipende da funzionalità sia normative che causali. Essa è in grado di convertire l’ordine dato dell’“è” in quello interventista e abilitativo del “deve”, dove i limiti naturali posti come contingenti sono sostituiti da vincoli normativi necessari ma revisionabili. È fondamentale notare che la costruzione procede per vincoli normativi (e non naturali), e che le determinazioni naturali (da qui, il realismo) non possono essere considerate limiti fondazionali. Le gerarchie funzionali assumono il ruolo di scale o tiranti con cui un tessuto causale viene agganciato a un altro, uno stato normativo viene spinto su di un altro livello.
Ecco perché è la figura dell’ingegnere, come agente di revisione e costruzione, ad essere il nemico pubblico numero uno dei fondamenti, di ciò che limita la prospettiva del cambiamento e impedisce l’eventualità di un’evasione cumulativa. A riuscire a sfuggire al sistema o ad appiattirlo su di una pura orizzontalità non sono né il sostenitore della trasgressione né il comunitario militante. Soprattutto, questo è anche il motivo per cui la libertà non si realizza mai in modo immediato, che sia nel nome della spontaneità o del volere del popolo, né in quello della democrazia. La liberazione è un progetto, non un’idea e nemmeno una merce. Il suo effetto non sta nell’irruzione del nuovo, ma nella continuità di una specifica forma di lavoro.
Più che la liberazione, la condizione della libertà è una graduale accumulazione strutturale e funzionale, un raffinamento a lungo termine che prende la forma di un progetto di coltivazione del sé. L’accumulazione strutturale e funzionale e il raffinamento costituiscono l’ambiente più adatto per l’aggiornamento degli impegni, sia grazie all’influenza correttiva di ciascun livello sull’altro sia per la propensione costruttiva tipica delle gerarchie funzionali, che fungono da veri e propri motori di abilitazione.
La liberazione non è la scintilla inaugurale della libertà, né è sufficiente come suo contenuto. Ritenere la liberazione una fonte di libertà è una credulità eventalista già ampiamente screditata, in quanto non garantisce il mantenimento e la valorizzazione della libertà. Ma credere che la liberazione costituisca la condizione sufficiente della libertà produce un risultato di gran lunga peggiore: l’irrazionalismo, e quindi la degenerazione in svariate forme di tirannia e fascismo.
La condizione sufficiente della libertà può essere trovata solo nella ragione. Occorre riconoscere la differenza tra una norma razionale e una legge naturale – tra l’emancipazione intrinseca al riconoscimento dello stato vincolante a cui si conforma la ragione e la schiavitù dovuta alla mancanza di una simile capacità di riconoscimento, che è la condizione dell’impulso naturale. In senso stretto, la libertà non è liberazione dalla schiavitù. È un perpetuo disimparare dalla schiavitù.
La compulsione ad aggiornare gli impegni e quella a costruire tecnologie pratico-cognitive per portare a termine tali atti di impegno-aggiornamento sono due dimensioni necessarie di questa procedura di disapprendimento. Da un punto di vista costruttivo e revisionista, la libertà è intelligenza. Un impegno nell’umanità o nella libertà che non elabori in modo pratico il significato di questo dictum ha già abbandonato il proprio impegno e ha preso in ostaggio l’umanità per rimanere aggrappato alla storia per un giorno o due in più.
La libertà liberale, che sia un’impresa sociale o l’idea intuitiva di essere liberi da vincoli normativi (una libertà senza scopo o azione designata), è una libertà che non si traduce in intelligenza; e, per questo motivo, diviene retroattivamente obsoleta. Ripristinare una presunta costituzione, tracciare un collegamento funzionale tra l’identificazione di ciò che è buono da un punto di vista normativo e la sua realizzazione, preservare e perfezionare il bene e sostenere la ricerca del meglio attraverso la propria autonomia – ecco in cosa consiste il procedimento della libertà. Ma questa è anche la definizione di intelligenza come auto-realizzazione della libertà pratica e dell’autonomia funzionale che diviene libera nonostante la sua costituzione.
L’adattamento ad una concezione autonoma della ragione – e cioè l’aggiornamento degli impegni in conformità con la progressiva auto-realizzazione della ragione – è un conflitto che coincide con il progetto revisionista e costruttivo della libertà. La prima espressione di tale libertà è la definizione di un orientamento – un indicatore egemonico – che metta in risalto il passaggio sintetico e costruibile che l’umano deve percorrere. Ma per percorrere questo cammino, dobbiamo attraversare il Rubicone cognitivo.
Effettivamente, l’attitudine interventista prevista dall’adattamento ad una ragione funzionalmente autonoma suggerisce che il Rubicone cognitivo sia stato già attraversato. Se si vuole esplorare questo percorso sintetico, non ha alcun senso guardare indietro a quel che fu un tempo ma – come tutte le immagini illusorie – è stato ora dissipato dal vento revisionista della ragionexxv.
Appendice: alcuni chiarimenti sull’Inumano
Da quando ho pubblicato il riassunto de Il lavoro dell’inumanoxxvi sono seguite alcune conversazioni con amici. Ho pensato che la cosa migliore fosse fornire almeno un paio di brevi rettifiche. Credo che fosse chiaro già dall’inizio del precedente postxxvii che non accolgo più per intero la prospettiva del saggio originario, così come quella del suo riepilogo. Nonostante sostenga ancora la sua tesi principale, lo scritto presenta numerosi problemi che occorre risolvere. Permettetemi di discuterne alcuni punti che mi sembrano tra i più importanti e seri.
In Il lavoro dell’inumano c’è un’eccessiva enfasi sulle concezioni brandomiane di normatività e di ragione, intese come radicate in particolari tipi di pratiche sociali. Il problema è che, a volte, le idee di socialità o di pratiche sociali proposte da Brandom sembrano confondere la socialità sostanziale con quella formale. Le ramificazioni di tale confusione non sono affatto rassicuranti da un punto di vista filosofico o politico. L’intera nozione di socialità andrebbe trattata con la massima cautela, altrimenti il rischio di precipitare nell’umanismo convenzionale è inevitabile. Brandom elide in diverse circostanze la socialità sostantiva e la socialità come condizione di ragionamento formale. La prima conseguenza di una simile elisione si manifesta nell’ambito della politica e della coscienza politica. Credo fermamente che il motivo per cui Brandom sia tacitamente un liberale dipenda proprio da questa confusione. La ragione è erroneamente intesa come uno strumento sufficiente per il cambiamento politico, piuttosto che come qualcosa di semplicemente necessario. Solo perché siamo animali dotati di ragione, ciò non significa che siamo mai stati in grado di scandagliare l’essenza della ragione, o se quest’ultima fosse uno strumento sufficiente per indurre un cambiamento politico. Non dovrebbe sorprendere che il razionalismo di Brandom coincida con l’habermasiana soap-opera della società razionale, in cui tutto ciò che occorre è un discorso o una comunicazione ancor più razionale. Ciò detto, ritengo che Brandom possieda un’idea di ragione notevolmente più sofisticata di quella di Habermas, e probabilmente anche a sua insaputa.
Peter Wolfendale e io concordiamo sul fatto che la socialità della ragione debba essere indagata come una condizione formale, e che pertanto sarebbe più accurato modellarla su processi e dinamiche computazionali, o attraverso sistemi di processamento dell’informazione in parallelo (il paradigma interazionista della computazione, le scienze della complessità, le gerarchie dei tipi di computazione, eccetera). Wolfendale si è già espresso su questo puntoxxviii. Seguendo la sua tesi, possiamo arrivare persino a concepire un agente artificiale dotato di un modello internalizzato di socialità come sua condizione formale – o, più precisamente, computazionale.
L’altra obiezione è che anche in questo caso – una volta che riusciamo a modellare l’umano in termini di gerarchie composte da speciali tipi di computazione – potremmo finire per ritrovarci al punto di partenza dell’umanismo conservativo. Un simile modello computazionale dell’umano dovrebbe essere integrato con quello che in Intelligence and Spirit definisco “la radicale critica delle strutture trascendentali” (come le nostre strutture della memoria, del linguaggio naturale e della rappresentazione del tempo e dello spazio quali condizioni di possibilità di percezione-cognizione-azione limitino tale processo di dispiegamento e ci riconducano ai bias umani). Credo che, a questo punto, sia David Roden che io potremmo essere considerati contemporaneamente come dei sostenitori e dei critici l’uno dell’altroxxix. Roden offre la prospettiva di un postumano disincantato, definitivamente liberato dal substrato dell’homo sapiens, mentre io propongo una specie di lista di vincoli necessari per arrivare a un simile scenario. Anche se nel mio libro propongo una critica della proposta estremamente sofisticata sul postumano fornita da Roden, e una critica razionalista – attraverso l’analisi bayesiana dei bias umani, della complessità computazionale e delle teorie dei sistemi dinamici -, credo che in modo piuttosto bizzarro la mia tesi sull’inumano converga su quella di Roden sul postumano, ma con alcuni distinguo. Come suggerisce Wolfendale, l’inumanismo razionale – se adeguatamente pensato – è un’autentica forma di postumano, ma anche una sua esplicita rispost