Possessor - Sulla sinonimia
A otto anni di distanza da Antiviral (2012), Brandon Cronenberg prosegue il suo discorso sulla centralità del corpo e della dimensione carnale iniziata con il suo lungometraggio d’esordio con Possessor (2020), lungo quello che pare delinearsi come un percorso autoriale la cui zona di interesse tematico va precisandosi e complessificandosi, pur se costituito da due film particolarmente disomogenei sul piano formale. Alla fissità e alla luministica scultorea dell’esordio, Possessor si oppone contrastivamente, con i suoi movimenti di macchina nervosi, le sue detonazioni psichedeliche. Il lungo iato temporale tra le due opere ci impedisce d’altronde di osservare le metamorfosi stilistiche cui il cinema di Cronenberg è stato sottoposto: in Possessor la metamorfosi è già avvenuta, silenziosamente, in un completo rigetto dell’estetica di Antiviral.
La discontinuità è in un primo momento riscontrabile anche sul piano filosofico. Se Antiviral terminava con una reificazione (o, meglio, carnificazione) dell’ultraterreno attraverso il corpo di Hannah Geist, Possessor sembra assumere in prima battuta una posizione di retroguardia. Un breve cenno sinottico: Possessor è imperniato sul personaggio di Tasya Vos (Andrea Riseborough), una sorta di medium-mercenaria[i] i cui assassinii su commissione vengono compiuti attraverso un macchinario che le consente di abitare psichicamente -per il lasso temporale di qualche giorno- il corpo altrui. Tasya scarica la responsabilità delle sue violenze sui corpi ospitanti, sulle loro identità pregresse. Ne esce ogni volta pulita (quantomeno sul piano legale), suicidandosi una volta conclusa la commissione. Dopodiché torna al suo corpo, rimasto inerte durante l’operazione. Cronenberg sembra dunque riproporre il classico e stantio dualismo anima/corpo, soffio vitale/materia animata. Il corpo sarebbe inteso come luogo deputato ad ospitare un’anima, e dunque -in quanto mero significante- suscettibile di una ri-significazione. Dal momento che è un supporto materico, si ipotizza che le psiche supportate possano essere molteplici. Il corpo di Colin (Christopher Abbott) è in un primo momento il significante, appunto, di Colin. Ma questa congiuntura originaria non impedisce a Tasya di scalzare il contenuto psichico “Colin”, e di insidiarsi in quello che era il suo contenitore. Il “soffio vitale” circola aleggiante, sovrasta i corpi e ne riconfigura le identità.
Possessor delinea dunque un ritorno al dualismo, dopo lo sbilanciamento di Antiviral verso l’esclusività monistica di una carne che negava lo spirito, fagocitandolo. Un film che è un’abiura, un anacronismo. Se non fosse che, dalle ultime missioni, Tasya non è tornata psichicamente integra. E anche il suo corpo sembra al limite. Il suo sforzo non è dunque esclusivamente psichico. È qualcosa di spossante. A ciò si aggiunga che qualcosa del corpo ospite pare legarsi a Tasya, scalfendone l’integrità identitaria, quella stessa psiche sulla cui incorruttibilità si fonda il processo di ri-significazione.
L’operazione di “impossessamento” non è dunque semiologicamente indolore. Il ciclo di costante ri-significazione del corpo altrui in cui Tasya sembra immersa da tempo immemore smentisce dunque il dualismo orfico-pitagorico, ed il suo riflesso semiologico che vedrebbe nel segno non una commistione chimerica ma una semplice associazione tra significante e significato, e dunque tra immagine sensibilmente percepibile e concetto. Vale a dire, operando uno shift minimale, tra corpo e anima. Il corpo di cui Tasya si impossessa è a sua volta un “possessor”: riconfigura il significato psichico che lo ha abitato, rigettandolo come scisso, corrotto, meditabondo e incerto riguardo il proprio fondo identitario.
Taysa non abita Colin, né lo ri-significa. Lo vive, lo esperisce. Vede diluirsi le proprie coordinate identitarie, si percepisce come una chimera, in una commistione che nulla ha dell’associazione arbitraria saussuriana. Il processo di significazione è in Possessor organico, e non meccanico.[ii]
Ecco che Possessor si riallaccia alle fibre di Antiviral, riconfermando la convergenza tra anima e corpo, carnale e ultraterreno. Laddove in Antiviral la fagocitazione della sfera metafisica consisteva più in un’obliterazione che in un’assimilazione, in Possessor il discorso si fa più ambiguo. Cronenberg scalfisce il dualismo dall’interno, non rifiutando in toto l’idea della metempsicosi o della distinzione tra psiche e sostanza animata, quanto piuttosto mostrandoci l’atto corruttivo intrinseco al processo. L’impasse filosofica del finale di Antiviral è superata non chiarificando bensì complicando il discorso. Le categorie classiche non sono qui semplicisticamente abbattute, demolite come forme relittuali anacronisticamente vigenti. Sono piuttosto sfumate nei loro contorni, nella loro integrità, messe in discussione.
Possessor come un testo sull’impossibilità della sinonimia. Ogni significante modifica il proprio ospite, ne sconvolge l’aspetto esperienziale e fruitivo. Lo fagocita, lo assimila, lo risputa corrotto, mutato.
«Insomma, le parole non muoiono mai, perché non sono "esseri", bensì funzioni: esse subiscono soltanto metamorfosi (in senso proprio), reincarnazioni [...]»[iii]
[i]Si impiega qui il termine medium ribaltandone il significato classico. Tasya Vos è una medium nella misura in cui espelle il proprio significato psichico dal proprio corpo (significante), e non dunque ospitando il significato psichico altrui, proveniente da un qualsivoglia altrove. Non dunque un corpo risignificantesi accogliendo un significato psichico altro, ma un corpo risignificante il corpo altrui, invadendolo con il proprio significato psichico originario. Laddove nel medium canonicamente inteso il corpo è il catalizzatore, nel caso di Tasya è il propulsore.
[ii]Per usare il lessico saussuriano, arbitrario (cfr. F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Paris, Edition Payot, 1922)
[iii]R. Barthes, Michelet, oggi, in Il brusio della lingua, p. 218 Einaudi, Torino 1988