La memoria di un unico odore

Auguste Rodin, Étude de femme nue (Study of a female nude, lying face down), 1896 (circa), grafite e acquerello, 24.4 x 32 cm.

Non lontano da T., in Toscana, la famiglia Tommasi passa, come ogni anno da dieci anni, la fine dell’estate in una villa isolata. La figlia, appena diciottenne, ha raggiunto madre, padre, parentame e servitù per gli ultimi giorni di agosto, prima di partire alla volta di Torino, dove comincerà l’Università.

Sofia si sta svegliando, apre e richiude lentamente gli occhi. È tardi, il sole si è già levato alto nel nell’azzurro chiaro di luglio e la luce filtra soffice dalle labili maglie delle tende tirate. L’estate vibra lieve nella pace del borgo. Non uno scoppiare di automobili, non un cigolìo arrugginito di tram, non uno schiamazzo di bambini che giocano a palla turba la pace diffusa. Niente urla, litigi, porte che sbattono; la metropoli e le sue nevrosi sono lontane. A tagliare il silenzio solo qualche cinguettìo lontano, oltre il monotono cicaleggiare che del silenzio assolato è da sempre alleato fedele. Costruite in tempi immemorabili, le mura di larghe e fredde pietre attutiscono il clangore di stoviglie e piatti. Quasi impercettibile, l’odore di sugo si diffonde lento e a stento trapassa, impregnandole, le pareti. L’eco dell’affaccendarsi domestico si perde ancora prima di varcare la soglia della camera da letto, l’odore del lavoro non profana la sacralità del risveglio ma ne adorna lievemente lo stile.

La camera è spoglia, pulita, armonica e regale come possono esserlo solo le stanze squadrate di quelle vecchie case del centro Italia dal pavimento in marmo bianco e dagli alti soffitti con travi a vista. In ogni elemento si respira tanto la montagna sventrata e la foresta dilaniata, la bruta e imponente violenza dell’industria, quanto il gesto fine e millimetrico dell’artigiano, l’amore assoluto per la messa in forma della materia. Un tavolo e una sedia in legno occupano lo spicchio di stanza in cui cade la luce della finestra. Il letto matrimoniale è appoggiato centralmente alla parete che separa la stanza dal salone. In parte, un solo, ampio comodino. Dalla parte opposta del letto, una portafinestra si apre su un balcone. L’armadio non c’è; quando la famiglia entrò per la prima volta in casa, Sofia disse di non volere che se ne costruisse uno appositamente per quella stanza, per lei, e per i suoi vestiti che quindi, da allora, passano un tempo indefinito dell’estate tra lo stendino, il tavolo, la sedia e il letto, finendo poi irrimediabilmente abbandonati a terra, squalificati dalle criptiche logiche del gusto personale e dal misterioso e inarrestabile fluire della moda. Se il marmo porta con sé, inequivocabile, lo stendardo di Carrara, stella polare delle Alpi Apuane in cui il quarzo, la dolomite, la calcite, il gesso e infiniti altri minerali conosciuti e sconosciuti si combinano con il marmo specchiandosi nella luce del Mar Ligure, tutto il mobilio è di legno altrettanto pregiato, un massello d’olmo: legno resistente e di ottima fattura, elaborato con il cuore del tronco dell’albero, la sua parte più nascosta e scura ovvero la più vecchia e strutturata.

Sul tavolo stanno sparsi alla rinfusa un computer, macbook grigio scuro, vergine, senza adesivi né graffi; un pacco aperto di Parisienne verdi, ultimo residuo di una lunga fumata ginevrina; un romanzo (che sia À rebours, Philosophie dans le Boudoir o addirittura A Room of One’s Own non importa poi molto - sono tutti libri, comunque, che chi scrive non ha mai letto o che ha letto solo per dimenticare, avendoli attraversati di sbieco, come in sogno, immerso in qualche delirio ipnotico di una lunga, troppo lunga, fumata d’oppio), dal dorso sfilacciato e la copertina bianca slavata, acquistato probabilmente per pochi spicci in una delle tante bancherelle sui fianchi della Senna; qualche calzino, fantasmini anneriti e ormai seccati, rattrappiti; un posacenere semivuoto sul cui fondo è impressa una stampa verde che raffigura, stilizzato, un signore con il cappello che cammina e la scritta in caratteri maiuscoli AMPELMANN; uno smalto nero, aperto, accostato imperscrutabilmente a delle bucce di limone; un taglia carte dal manico d’acciaio, decorato con raffinati ghirigori cremisi e con una piccola scritta incisa nel punto in cui la lama si restringe un momento prima di incassarsi nel manico; un bicchiere pieno d’acqua, dentro cui si intravedono bolle di gas e sopra cui galleggiano due petali di un fiore orientale.

Sotto il balcone della camera, la strada è vuota. Un cane color latte sonnecchia all’ombra di un porticato intriso di vigne. A lato della porta che dà sull’ingresso giacciono accaldati i vuoti, verdi e impolverati, che attendono di ricevere nuova vita. Alla ricerca di un antro fresco e riparato un gatto scivola in una grata della cantina che sporge lì vicino e sparisce nel buio. Il tempo scorre melmoso nell’orologio che rintocca indeciso sopra la spalliera del letto; ogni attimo si dilata stringendosi mollemente a quello successivo ad immagine del chiavistello di ferro che in agosto si dilata fino a fondersi con la struttura che lo ospita.

È mezzogiorno: «il momento dell’ombra più corta», della «triste meraviglia» che accompagna il brulichìo di scorpioni e serpenti. Mezzogiorno: ora che bordeggia il tempo, sfiorandolo, e che, secondo i greci, lascia spazio alle allucinazioni in cui gli dei danzano la vita dei mortali, impreziosendola. Attimo stupendo e terribile, gravido di attesa per l’avvento dei demoni e il passeggio degli immortali.

L’aria sposta pigramente i ramoscelli che cingono i limoni. Dodici rintocchi risuonano a vuoto.

All’apice della vitalità, l’organico tende a pietrificarsi: «In questo paradosso è il crocevia tra l’eterno e il tempo, perché la forma deve distruggersi da sé, ma solo nel momento in cui si compie perfettamente». Punto di congiunzione tra lo sciabordìo degli attimi mattutini e l’ozio del primo pomeriggio, il mezzogiorno esalta il ciclo diurno per estinguerlo. Il giorno si spacca e nella faglia così aperta un altro mondo s’illumina: il rosso del terriccio e il giallo nerastro della foglia bruciata brillano allora di luce propria.

Sofia s’immerge nuovamente nel cuscino appena girato, di nuovo fresco. La giornata afosa depone a favore della sua assenza e il caldo le allenta i nervi deputati ad alzarla. I doveri sono sfumati già all’inizio dell’estate e giacciono confusi in un passato lontano. La fantasia gioca assonnata con ricordi più freschi, immagini vivide e dal sapore dolce: qualche foto scattata pochi giorni prima, a Verona, con la sua nikon; una cena con gli amici di sempre, in una casa con le finestre che si affacciano sul pavé di Corso Cavour; una serata passata tra le luci dei lampioni e quelle dei bar, persa nelle labbra mancate e solo poi ritrovate di un butél qualsiasi. Le immagini si legano e si slegano, avvolgendole la vita con la seta liscia di cui è fatta la spensieratezza. Con sé porta il senso di una sensazione: casa. Mentre «l’ardente meriggio dorme sui campi», Sofia sprofonda nei colli che increspano le lenzuola.

Il mezzogiorno si congiunge al sonno, l’avvento degli dei alla vulnerabilità degli uomini. Il sogno si fa lucido: Afrodite le rende visita e Sofia, nel desiderio che abita i sogni più intensi, somma all’aria calda il calore umidiccio della propria pelle. Le gambe si intrecciano, il sudore cola e la incolla al materasso, il collo si torce affannato nella tensione dell’inquietudine morbosa che ogni visione porta agli occhi serrati di chi la immagina. Accompagnando il ritmo con cui la schiena si inflette e si distende, lasciandosi cullare dal conformarsi placido del letto, Sofia sogna tempeste stellari, comete precise e delicate che la sfiorano al crocevia dei sensi, vaghi e violenti astri, nebulose che si agghindano per poi collassare in se stesse, svelte, perché il corpo esige il tocco dell’amore e l’occhio non riesce ad afferrarne altro che il vile volto. Sofia sogna il violento fremito che l’ha scossa innumerevoli volte e innumerevoli volte la squarterà ancora, lo immagina e lo vive al contempo. Il climax è irreversibile e i mugolii ricoprono di estasi l’acuto borbottare delle cicale e il fischiettare degli uccelli. Nel tocco, nel toccarsi da sveglia e nell’essere toccata da dormiente, Sofia scopre la dea che in quella penombra è venuta a vegliarla. «Al dormente che, sul limite del risveglio, ha varcato il cancello proibito, l’eterno ha pur concesso una misura di sé».

La finestra si apre sbattendo e svela Sofia mentre gode senza freni. Occhi sbarrati, vita in fiamme. I denti tastano le screpolature che innervano le labbra, la lingua ne apprezza la crosta ruvida. Una mano sul sesso e l’altra aggrappata al bordo del letto, Sofia si contrae battendo il tempo al claudicante passeggio di una vacca giù in strada. Din dlon, din dlon.

Forse a mezzogiorno non accade mai nulla, come nelle vacanze in cui si succedono svelti i giorni sereni che verranno raccolti nella memoria di un unico odore.

Simone Raviola

Ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige la rivista sovrapposizioni ed è socio dell’associazione di produzione d’arte Landescape. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

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