Le tasche dei giacchini
Tato (Guglielmo Sansoni), Il perfetto borghese, 34.29 cm × 27.46 cm, 1930, San Francisco, SFMOMA.
Mi chiedevo, mi sono sempre chiesto e mi chiedo ancora,
cosa cercassero quei relatori impomatati, totalmente immersi nel loro esercizio di narcisismo in presenza di spettatori che spesso inermi subivano le loro parole come si subisce un tormentone estivo a volume troppo alto in un bar di una spiaggia mediterranea assolutamente silenziosa, mi chiedevo appunto che cosa cercassero quei relatori impomatati, ben vestiti, dalla barba curata e la camicia spesso spiegazzata, intelligenti, sapienti, colti, a volte belli, a volte butterati, a volte disgustosi e rivoltanti, mi ritrovavo insomma a chiedermi cosa quegli strani animali tarantolati che dall’alto della cattedra scagliavano parole tonanti come frecce infuocate o sibilavano accuse minime e discrete o con fare enfatico calcavano una citazione incomprensibile o trascinavano stancamente uno dopo l’altro vocaboli sofisticati o nasalizzavano ogni frase rendendo una stanza già spesso calda, sudata e pregna di quella tipica temperatura da ingranaggi che roteano, neuroni che sfibrillano, teste che si arrovellano, ancora più calda, sudata e pregna di quella tipica temperatura da ingranaggi che roteano, neuroni che sfibrillano, teste che si arrovellano,
ecco mi sono sempre chiesto e mi chiedo ancora cosa cercassero quei buffi uomini che sembravano involontariamente rendere giustizia al cappello grottesco che la vita indossa quando si fa umana, il suo truccarsi che se solo ci si pensa con lucidità per un attimo appare così insensato, vuoto, sterile, maniacale, in definitiva schizofrenico e perverso,
mi chiedevo, mi sono chiesto e mi continuo a chiedere cosa quei relatori cercassero nella tasca del loro giacchino, mentre sputavano sul microfono e sui disperati delle prime file, mentre sbrodolavano etti di saliva ancora macchiata marrone di caffè, con la loro lingua che andava a cercare gli ultimi resti di secrezione negli angoli più remoti di quelle caverne da cui uscivano come draghi e ircocervi immagini, concetti, stronzate, deliri, ammissioni di colpa, richieste di perdono, aizzamenti fanatici, lingua che andava a cercare nient’altro che una goccia per continuare a parlare e idratare l’ormai estinta saliva che già diventava quella orribile salivetta, asciutta, densa, compatta, neanche buona per essere sputata, poco meno della bava, anzi forse proprio bava da lumache in perenne stato di oratorio,
mi chiedevo, mi sono chiesto e mi continuo a chiedere cosa quei relatori cercassero nella tasca del loro giacchino che rumavano e continuavano a rumare, cercando disperatamente in quel fondo di velluto, di lino, di seta, di cotone o non so che altro tessuto con cui quelle tasche dei giacchini chiudono lascamente sempre in maniera meno prepotente con il passare dell’usura e del tempo una soluzione, una forma, una moglie, e se con una mano tenevano saldamente il microfono di fronte alla platea entusiasta, disinteressata, gremita o deserta, con l’altra debolmente raschiavano il fondo, a tentoni tremando raggiungevano le cuciture e le disfavano con le delicate mani di chi non ha mai toccato null’altro che una penna o un testo e non ha mai palpato il legno, l’acciaio, il marmo, e solo invece seni, penne, quadri e sinfonie, così passando in rassegna le chiavi il portafoglio il telefono le cartine i filtri sparsi gli scontrini i resti di tabacco i fazzoletti umidicci rumavano e rumavano e cercavano e cercavano e rumando e cercando parlavano ruminavano come vacche nei prati della Lessinia i loro concetti le loro idee le loro parole e io mi chiedevo se la mano che cercava non fosse la bocca che parlava e se la bocca che rumava cercando saliva non fosse la mano che ruminava cercando parole e
mi sono sempre chiesto e mi chiedevo e mi chiedo se non fossero delle idee da quattro soldi delle idee-monete che cercavano come si cercano gli spicci quando ci chiedono la carità e non sappiamo dove guardare come fare e abbiamo gli occhi della disperazione di fronte a noi che ci fissano e vogliono sapere e muti-eloquenti ci chiedono una moneta un’idea e noi allora dobbiamo cercare imbarazzati infastiditi impauriti una moneta un’idea un gesto da lanciare in aria e una parola un’idea una frase da dire come se sempre ne avessimo una pronta nel taschino un resto di mancia una briciola da lanciare per chi ha fame e sete un fondo di vino nel convivio della vita come se sempre sapessimo chi siamo e dove andiamo e cosa è giusto fare e come è da fare e
mi sono sempre chiesto e mi chiedevo e ancora mi chiedo se forse una volta quella volta nella grande aula illuminata di luci al neon troppo troppo forti quei relatori con il loro microfono e con il loro giacchino con la loro bocca e con la loro tasca in quella stanza nel mondo fuori dal mondo i relatori con le loro monete e con le loro idee non avrebbero fatto meglio ad alzare le mani al cielo e confessare che non avevano nulla nella loro grande bocca che non avevano nulla nella loro piccola tasca che la giacca era vuota e la testa era vuota e che non c’erano idee monete parole frasi per noi che non c’era nulla da mangiare da bere da sapere da dire da fare e che forse era meglio che tutti tornassero a casa a riposare a dormire a pensare ad altro lontano da giacche e giacchini tasche e teste monetine e bocche forse con un pigiama largo comodo e con le mani ben in vista o intorno ad una tazza la mano senza anelli con le tasche ben vuote e le teste ben vuote con le bocche ben vuote e il pigiama ben vuoto e
mi sono sempre chiesto e mi chiedevo e mi chiedo se forse non sarebbe stato meglio per tutti per loro e per noi per chi deve chiedere e per chi vuole dare che si fosse detto una volta l’ultima volta una volta per tutte che non c’è niente da chiedere e nulla da dare e così le mani alte o forse strette in un abbraccio o con le mani semplicemente finalmente distese lungo i fianchi immobili aperte i polpastrelli che respirano la lingua che non schiocca non frusta non batte non scivola così sapendo che non c’è niente da chiedere e nulla da dare non si fosse andati per una volta la prima volta nelle vie nelle strade nelle città nei quartieri nei bar nelle osterie nei parchi nei vicoli nelle terrazze nelle chiese nelle piazze a dire che i giochi erano finiti che non c’era più nulla da bere da mangiare da sapere che le monete-idee che le idee-monete sono finte sono false non esistono si sono disintegrate mentre le cercavamo nelle tasche dei giacchini le tasche delle giacchini sono bucate la saliva è finita la cucina è chiusa amici ci dispiace la lingua è mozzata tutto è scolato via
mi sono sempre chiesto e mi chiedevo e mi chiedo se non fosse stato più onesto più vero più sincero se una volta quei relatori senza microfono e senza giacca ci avessero detto andate e fate armatevi e partite vivete ruminate nei cestini nei cessi nelle ciotole piene di arachidi nei buchi di chi amate rumate dove vi pare dove vi pare ma andate andate lontano lontano dai microfoni dalle cattedre dai giacchini delle tasche,
mi chiedevo, mi sono sempre chiesto e mi chiedo ancora.