What you thought was nothing
Progetto fotografico di Sibilla Galli
What you thought was nothing vuole esaminare le dinamiche della violenza domestica, tema che è stato messo ancora più in risalto durante il periodo di lockdown legato alla pandemia del Covid-19. Il titolo può essere interpretato attraverso tre diverse chiavi di lettura: dell’abusante, della vittima e dello spettatore inconsapevole. Chi commette violenza spesso non si rende conto della gravità dei propri atti e abusi; chi è vittima di violenza spesso non riesce a riconoscerla, anzi, incolpa se stesso di una qualsiasi mancanza giustificando il proprio carnefice; chi osserva dall’esterno le dinamiche di un nucleo famigliare sovente non si accorge degli atti perpetrati e subiti, sia perché efficacemente nascosti sia per la difficoltà di essere esplicitati e confessati. Questo progetto riassume la mission che vorrei perseguire tramite il mestiere di fotografa; sostenere tramite i miei lavori le vittime di dinamiche fisiche e psicologiche distruttive, dare voce a chi non riesce a trasmettere il proprio disagio e il proprio dolore mettendo in luce tali problematiche nella società per creare un senso di comunità e di supporto. L’isolamento forzato e il distanziamento sociale che ci sono stati imposti fino a pochi mesi fa ci hanno indotto ad interrogarci riguardo alle problematiche emerse durante questo particolare momento storico e, in particolar modo, sul valore dei rapporti interpersonali; la violenza domestica è diventata a tutti gli effetti un’emergenza nell’emergenza. Chi commette violenza esercita atti di comando e controllo per sentirsi potente, appagato e sicuro di sé. Per sfuggire alla responsabilità delle proprie azioni impedisce si creino intorno alla vittima relazioni sociali rassicuranti, isolandola. Questo processo è stato facilitato dalle condizioni imposte dal lockdown. Fino ad oggi, in Italia nel 2020 sono state 31 le vittime di femminicidio, delle quali 11 durante il periodo di quarantena; i dati ufficiali raccolti dalla commissione di inchiesta sul femminicidio indicano che nei primi 22 giorni di marzo 2019 sono state effettuate 1157 denunce per maltrattamenti in famiglia, mentre nello stesso periodo dell’anno corrente solo 652. Questi numeri non indicano, purtroppo, che ci sia una regressione di abusi all’interno delle famiglie, ma che le vittime sono in una situazione in cui sono più esposte al controllo e all’aggressività. La riduzione di contatti esterni e la prolungata condivisione degli spazi domestici ha reso, inoltre, molto più difficile l’emersione di situazioni di violenza; in Italia, nell’ultimo anno, l’81,2% dei femminicidi è avvenuto all’interno del nucleo familiare.
Per me la fotografia non è un atto univoco o biunivoco, ma una compenetrazione tra me, il soggetto e il mondo che ci circonda. Non potrei fotografare senza prima conoscere o parlare. Il dialogo verbale è la base fondamentale per la nascita e lo sviluppo di una qualsiasi mia idea fotografica. L’anima delle mie foto è costituita dalla parola e dalla conoscenza di chi o cosa scelgo come soggetto; uno dei principi del mio lavoro è l’empatia, il sentire, il riuscire a stabilire una connessione umana ed emotiva. La condivisione di esperienze e di storie di vita è uno dei fattori fondamentali che influiscono nella creazione dei miei scatti. Ricostruisco il sentimento e cerco di porre le vittime sotto un’altra luce, sia in maniera concettuale sia in maniera visiva e operativa, sovvertendo le classiche regole di direzione della fotografia; canonicamente, ad esempio, la fotografia che vuole documentare situazioni di violenza si situa in ambienti cupi e oscuri, trasmettendo un senso di compassione e di dolore; gli abusi annullano l’identità e la personalità di chi li subisce e la luce oscura sottolinea questo processo. In questo caso, invece, le ambientazioni sono molto chiare e luminose; voglio cercare far immedesimare lo spettatore nell’osservatore esterno, colui che non percepisce i drammi all’interno delle mura domestiche, provocando una sensazione di straniamento e di sorpresa nel momento in cui raggiunge la consapevolezza della violenza subita dai soggetti.
Luce
Per conferire questo particolare tipo di luce alla sequenza fotografica, ho utilizzato una torcia a led. Puntandone il raggio contro l’obbiettivo crea un flair che conferisce una patina alla foto; questa vuole essere un rimando sia all’isolamento forzato della quarantena sia innalzare una barriera concettuale tra me ed il soggetto oltre che tra il soggetto ed il mondo circostante. Se noi non riusciamo a vedere le cose per come sono per via di questa patina, anche la vittima non riesce a vedere le cose per ciò che sono realmente e non riconosce la gravità della propria situazione. La luce della torcia diventa una sorta di figura impalpabile nella vita della vittima, che può essere percepita come l’ingombranza costante dell’abuso; chi commette violenza è onnipresente nella vita della vittima, la invade ed è totalizzante. L’idea di questa luce, la mia “luce chiara”, è nata perché mi serviva cancellare gli occhi, e quindi l’identità, delle vittima di violenza; inoltre, si vuole simboleggiare l’irrazionalità e la distorta percezione della realtà. Le bruciature, che coprono alcune parti della fotografia e non ne permettono una chiara visione vogliono trasmettere l’incapacità e/o l’impossibilità degli osservatori esterni di cogliere i segnali del circolo di abusi tra l’abusante e l’abusato.